Oltre Babilonia è un romanzo corale, mosaico di storie che riemergono in superficie da un passato di silenzio e di sofferenza. Ci sono donne che parlano, che riescono a uscire dal baratro buio dell’incomunicabilità e che per questo si salvano. Ci sono altre donne, invece, che non riescono a parlare, e che vengono annientate dal passato. Le storie di queste donne – ormai fuori dal tempo – possono essere però riscattate da chi decide di restituirle alla luce della memoria. Maryam e Miranda, raccontando le storie dei loro più grandi affetti, ridanno a Howa Rosario e alla Flaca la voce perduta, le riscattano perchè “trasformano il loro pianto in una lingua, in una ribellione”. E allo stesso tempo si liberano, ritrovano sé stesse: perchè parlare di sé, per le narratrici, è anche parlare di quelle amiche scomparse. Sarebbe una storia incompleta, la loro, se non fossero riuscite a raccontare di Howa e della Flaca; come un puzzle a cui mancano i pezzi centrali, quelli più importanti. Quando Maryam e Miranda decidono di rompere il muro di silenzio che le separa inesorabilmente dalle figlie, è una delle prime cose che dicono: la storia dopotutto è anche la loro. E’ anche per loro che scriviamo.
Howa Rosario e la Flaca sono due donne segnate dal dolore. Un dolore che a Howa ha rubato l’infanzia, la fiducia nelle persone, la possibilità di essere felice, il futuro. Alla Flaca ha rubato l’identità, l’ha trasformata nella controfigura di sé stessa, in un fantasma evanescente che non riesce neanche più a parlare.
E’ come se per Igiaba Scego il dolore si cristallizzasse in particolari visivi, in immagini nitide: è tramite le immagini e i colori che l’autrice dipinge un’ emozione e la lascia impressa come una fotografia nella mente del lettore. Nel caso di Howa Rosario è il particolare grottesco del naso a proboscide, o a spirale. Nel caso della Flaca è il travestimento da Marylin Monroe in versione puttana. Con la parrucca e il trucco sbavato. Anche il passaggio tra il passato felice della Flaca – da donna libera e innamorata – e il presente di sofferenza, è caratterizzato iconograficamente. Prima delle torture, della picana, della violenza, la Flaca era una Madonna di Leonardo, o un quadro di Tiziano, una venere rinascimentale, rossa e bellissima, anche se scheletrica. Dopo diventa un quadro di Picasso, una sproporzionata Marylin picassiana o una damigella d’ Avignone, “cubista e senza senso”. Il dolore deforma, anche fisicamente; resta impresso come un marchio.
Howa Rosario è stata violentata da bambina. E’ stata violentata da un padrino che “si era preso in un colpo la sua verginità, il suo naso, gli anni migliori della sua vita”. Da un momento all’altro, Howa perde la bellezza – deturpata per sempre e destinata ad essere guardata con irrisione per via di quel naso a proboscide – e la fiducia nella vita, nell’amore. Quando si conoscono, e Howa confida a Maryam di essere promessa sposa a Elias, il figlio della sarta Bushra, Maryam non riesce a capire perchè l’amica fosse così spaventata, terrorizzata anzi, dall’idea di sposarsi. Tutte le ragazze desiderano sposarsi. Ma Howa Rosario “aveva capito a sue spese che la vita di una donna era sempre appesa a un filo. E quel filo si poteva spezzare in ogni momento”. E’ diventata bambina-già adulta, condannata a una durezza inscalfibile che solo Maryam riusciva, momentaneamente, a dissolvere. Il rosario, da cui non si separa mai, è il simbolo concreto di questa paura, del suo desiderio di protezione dal mondo, da tutto e da tutti.
La Flaca è stata torturata, violentata, privata del suo unico grande amore: Ernesto, fratello di Miranda. Così parlare della Flaca è, per Miranda, parlare anche di quel fratello desaparecido, scomparso da un giorno all’altro e mai tornato. Entrambi chupadi, risucchiati dall’ Esma, l’agghiacciante Escuela de Mecànica de la Armada di Peròn, Ernesto non è sopravvissuto, la Flaca invece sì, ma è come se fosse morta in quel momento. Ha perso tutto. Prima di essere sequestrata era una gran ballerina, una promessa per l’ Argentina, “Voglio essere musica, diceva, “voglio essere nota”. E invece le hanno tolto la musica e le note, e dunque l’identità, ogni traccia di essenza: “Le avevano rubato i suoni quei bastardi. Le avevano rubato tutto. Povera Flaca non ha potuto nemmeno gridare. Punita. Con cara fea le han cortado su alma, su voz. Non tiene voz, mì Flaca. Con una faccia cattiva, le hanno strappato l’anima, la voce. Non ha più avuto una voce, la mia Flaca”.
Il dolore è silenzio. La Flaca è silenzio. Canta solo una canzone, Hurricane di Bob Dylan che Ernesto le aveva regalato poco prima che venissero sequestati: l’unico residuo della Flaca del passato, di quella Rosa Benassi scheletrica e bellissima. E scrive.
Ma il suo silenzio è rancore destinato a esplodere. La Flaca muore tracannando litri di disinfettante perchè “voleva pulirsi dentro”. Pablo la trova a terra, tra macchie verdi “che disegnavano sistemi solari e mondi possibili”. Forse i mondi che non ha potuto vivere.
Howa Rosario e la Flaca sono dunque due personaggi complessi, irrisolti, ma fondamentali. Ci sono due immagini, suggestive ed emblematiche, su cui conviene soffermarsi: quella di Maryam che immagina che sia Howa a soffiarle il passato sulla testa mentre lei racconta, perchè da sempre era l’amica “a tessere le trame del tempo per entrambe”; e quella di Miranda, quasi alla fine del libro, che riacquista i contorni, che, come una fotografia che da sfocata diventa nitida, riappare: “Ora che ti ho raccontato della Flaca, del mio più grande affetto – scrive Miranda – ecco che la mia immagine riappare. Sono qui, una reaparecida. Mi sento forte”. Maryam trova la forza e l’ordine mentale, il senso del tempo e del passato, per scrivere grazie a Howa Rosario. Miranda ritrova se stessa solo dopo che ha raccontato la storia della Flaca. Entrambe, dunque, infrangono la gabbia del silenzio grazie alle amiche che non sono riuscite a parlare.
