Ago 18

«Trilogia di Thomas». Una lettura geocritica

(di GIULIA DANZÌ)

 

Trilogia di Thomas di Vitaliano Trevisan raccoglie tre romanzi che, come suggerisce Emanuele Trevi, andrebbero forse definiti monologhi poiché si profilano come ininterrotti flussi di coscienza capaci di sondare, con una precisione chirurgica, i nodi più dolorosi dell’esistenza umana. La Trilogia ha trovato recente sistemazione all’interno dell’edizione Einaudi del 2024, corredata dalla postfazione di Trevi, evento editoriale di fondamentale importanza ai fini della diffusione della conoscenza dello scrittore a un pubblico più vasto. Fino a questo momento, infatti, la difficoltà a reperire i testi – soggetti a rare ristampe – aveva costituito un significativo impedimento alla possibilità di fruizione delle opere dell’autore e, quindi, alla sua conoscenza. Tuttavia, Trevisan – morto suicida nel 2022 – è, senz’altro, una delle voci più significative dei nostri tempi e, per questo, risulta doveroso conferirgli il giusto peso all’interno del panorama contemporaneo. L’aspetto che qui si tenterà di mettere in luce è l’insistito riferimento alla dimensione spaziale che caratterizza i tre romanzi. Come si tenterà di mostrare, infatti, ai luoghi, intrisi di vita vissuta, è affidato il compito di rivelare aspetti salienti della personalità di Thomas e di farsi chiavi interpretative degli scritti della trilogia. Il personaggio che dà il titolo all’opera, oltre a essere il protagonista, è anche – e soprattutto – la voce narrante. All’interno dei tre libri – Un mondo meraviglioso, I quindicimila passi, Il ponte – vengono presentati tre Thomas diversi, con vite diverse, storie familiari diverse, ma con un approccio al mondo, alle persone, ai ricordi, molto simile, per non dire identico. In tutti e tre i casi, ciò che leggiamo è concepito, persino all’interno della finzione letteraria, per essere scritto. Trevisan, infatti, ci presenta Thomas come il narratore delle proprie vicende e, nel primo romanzo, c’è già chi lo legge: «In un crescendo di angoscia, scrive Thomas, mi tornarono alla mente le esatte parole che avevo scritte su quel biglietto. Davide, dal canto suo, ha letto.» L’importanza della pratica scrittoria per Vitaliano Trevisan è sintetizzata dalle parole dell’io narrante che, nelle pagine iniziali del primo libro scrive: «Nessuno è in grado di capire che scrivere o non scrivere è una questione che implica per me anche il dilemma vivere o non vivere in funzione dello scrivere o non scrivere.» Grande scrittore e accanito lettore, Trevisan, prendendo come modello l’amatissimo Thomas Bernard – da cui trae il nome del protagonista, suo alter-ego di carta –, ne desume lo stile, il continuo gioco di ripetizioni e rimandi a quanto già detto, in una prosa che sfida la linearità e che progredisce in maniera accidentata, portandosi, sino alla fine, scie residuali dei temi trattati al’inizio. Tale espediente formale, in verità, non è che la perfetta riproduzione delle dinamiche di pensiero che governano la mente di Thomas, tutta proiettata all’indietro, volta a uno scandaglio feroce del passato. Sin dalle prime pagine di Un mondo meraviglioso, infatti, ci rendiamo conto di avere a che fare con una personalità affetta da un disturbo che si manifesta, primariamente, nella modalità ossessiva e paranoide con cui viene descritto il mondo o, per meglio dire, l’idea del mondo, il pensiero del mondo. Come non si mancherà di notare, tutto in Thomas è filtrato dal pensiero, da un’attitudine alla riflessione che ci catapulta continuamente dal presente al passato remoto, a un’infanzia irrisolta che coesiste con un’attualità fragile, permeabile a continue infiltrazioni. E in effetti «[…] un passato che ritorna, pensavo, è un passato che non se n’è mai veramente andato. E come potrebbe andarsene, pensavo ancora, se lo porto tutto dentro di me, chiuso bene ermeticamente sotto vuoto sigillato compresso accatastato allineato schierato un ricordo in fila all’altro uno dopo l’altro legato incatenato incollato cucito incistato sovrapposto giustapposto stipato incasellato ordinato disordinato, tutto, intero e fatto a pezzi, ben dentro di me?» Un mondo meraviglioso si delinea come un ininterrotto attraversamento di Vicenza, città troppo vissuta, satura di frammenti, capace di risvegliare, in ogni suo angolo, il ricordo di un avvenimento o di un periodo. Thomas è un flâneur, alla deriva in quelle strade che divengono palcoscenico del pensiero e, pertanto, alla deriva in un flusso di rimuginazione che sfugge a una mappa e, libero, va a toccare i tasti più dolorosi. Il romanzo si apre nell’ospedale vicentino in cui Thomas si è recato per andare a trovare – su indicazione della sorella – il padre morente. L’ospedale – con il bar e la casa –  è l’unico interno a comparire nel romanzo, ambientato, infatti, con netta prevalenza, nelle strade di un centro urbano in cui il protagonista sembra muoversi con disinvoltura. Giunto in ospedale, avviene il primo di una serie di incontri con figure anomale, liminari, di dubbia esistenza, che – tuttavia – interagiscono con lo spazio in cui sono immerse, rafforzando il sopraggiungere di ricordi o riflessioni. Si tratta del mostro monocolo della maxillo-facciale, con il quale ha luogo un inquietante gioco di sguardi capace di generare nel protagonista un pensiero paranoico: meglio evitare di guardare un mostro per non metterlo a disagio o, invece, meglio guardarlo per farlo sentire normale? Fallito l’incontro col padre, Thomas tenta di fuggire dall’ospedale ma, in seguito a un errore, si ritrova nell’interrato basso e lunghissimo dell’edificio, illuminato da gelide lampade al neon. A differenza delle strade di Vicenza, Thomas non riesce a orientarsi e fatica a trovare l’uscita dal labirinto in cui è rimasto fatalmente impaniato. Per di più, si sente pedinato: a ogni suo mutamento di velocità, fa seguito la modulazione dei passi del suo persecutore che, secondo Thomas, dev’essere senz’altro il mostro monocolo incontrato poco prima in ascensore. L’opprimente seminterrato, oltre a rivelare la vena paranoica del protagonista, funge da perfetta rappresentazione della sua condizione. Un groviglio inestricabile di pensieri ossessivi gli impedisce di trovare risposte alle sue innumerevoli domande, inferocite dall’accanito rimuginio con cui, negli anni, le ha nutrite. Così, un normale corridoio al piano terra suscita in lui un’angoscia profonda, accresciuta dal possibile pedinamento che ratifica la sensazione di prigionia. Una volta emerso da quel labirinto, Thomas ne resta metaforicamente imbrigliato tanto che, persino le note strade della sua città, sprigionano un perenne sentimento di oppressione. Tutta Vicenza è un labirinto in cui Thomas crede di orientarsi bene ma che, invece, pilota le sue schizofreniche inversioni di rotta conducendolo sempre nei luoghi che più gli rammentano la propria condizione. Strade fisiche e percorsi psicologici si sovrappongono in un caotico flusso di memorie impossibili da interrompere. Thomas, infatti, neppure impegnandosi riesce a sfuggire alla ruminazione, intrappolato nelle maglie di un comando a ripercorrere nei dettagli ogni fatto, sino allo sfinimento: i momenti col padre, la madre, il lavoro, gli amici morti di overdose o suicidi, l’ex fidanzata… così come gli è impossibile liberarsi di quella città tanto odiata che pure non ha mai avuto il coraggio di abbandonare. Uscito, finalmente, dall’ospedale, si addentra nel famigliare parco Querini dove era solito sostare, da bambino, in compagnia del padre. La permanenza, tempestata da ricordi poggiati sulle cose come spettri, funge da pretesto per una disamina meticolosa della propria interiorità. Dal racconto cogliamo già alcuni elementi del rapporto con la figura paterna, stimata e temuta, tanto forte da riuscire a proteggere il figlio da qualsiasi insidia, persino dal terribile luccio che, dal giorno della sua comparsa nel fiume, ha fatto razzia di tutte le creature, persino delle più grosse. Il luccio gigantesco, di cui il guardiano Severino ha informato Thomas e il padre, suscita un’inquietudine enorme nel piccolo, a cui non resta che aggrapparsi alla mano del padre, fiducioso di essere al sicuro in quella stretta. Tuttavia, turbato dall’attesa, terrorizzato dalla possibilità di diventare l’ennesima vittima, la bestia feroce gli si manifesta davvero: appare sul pelo dell’acqua, sbrana una rondine coi suoi denti aguzzi per poi inabissarsi, nuovamente, nelle acque torbide del fiume. È successo davvero o Thomas ha solo sognato a occhi aperti? Ecco una prima irrisolvibile commistione fra reale e immaginario: ve ne saranno altre, tutte sorrette da un’impalcatura logica capace di intorbidare il limite fra ciò che è realmente stato e ciò che ha trovato realizzazione solo nel pensiero. «La mia immaginazione mi gioca brutti scherzi, pensavo seduto sulla panchina del cedro, tanto che non mi è così facile, a volte, distinguere tra ciò che succede solo nella mia testa e ciò che succede o è successo effettivamente nella realtà.» Incrociare la tipografia Rumor, ad esempio, evoca ancora l’immagine del padre che, in divisa da poliziotto, passava notti intere di fronte all’edificio col compito di sorvegliare l’abitazione del politico Mariano Rumor e garantirgli protezione. Dal lato opposto della strada, spicca, invece, il Patronato Leone XIII dei giuseppini del Murialdo, dove Thomas è stato costretto a frequentare le scuole medie per volere paterno. Progressivamente, pagina dopo pagina, prende forma il risentimento covato nei confronti di quella figura genitoriale la cui forza, percepita nel periodo infantile, ha assunto, sempre più, le vesti dell’ autoritarismo, trasformandosi in gretto e gratuito esercizio del potere: «[…] ero troppo debole allora per oppormi al volere di mio padre, troppo tenero per aprire una breccia nel suo durissimo testone di poliziotto […]». Il racconto, scandito dai passi, mette in luce una vita di infelicità e solitudine, vissuta sullo sfondo di una città grigia, schiava della produzione e del consumo, i cui abitanti non sanno far altro che lavorare per esorcizzare un vuoto esistenziale che «[…] chiede a gran voce di essere riempito.» Altro luogo topico – che assumerà una funzione capitale nell’ultimo romanzo – è il fiume, che come una grossa arteria attraversa il corpo della città. Trattandosi di una città malata, anche il fiume Bacchiglione non può che profilarsi come uno dei fiumi più inquinati al mondo. Sul parapetto, intento a pescare, un uomo completamente senza peli, un glabro. Il pensiero intrusivo di spingerlo per farlo cadere cede il posto allo stupore nel vedersi riconosciuto da quel mostro senza peli, già incontrato, difatti, in un contesto lavorativo. La banalità della conversazione amplifica il senso di disagio provato dal protagonista e risveglia il ricordo della malattia mentale del collega Valter, mai del tutto compresa e accettata. Persistendo in quella flânerie, Thomas prova a liberarsi dei pensieri del passato: ancora una volta, è la direttrice dello spazio a guidarci nell’interpretazione della sua psicologia. Attirato da una strana conversazione, dal contenuto violento, Thomas inizia a seguire una famigliola borghese, simbolo di una città insopportabile, ipocrita, votata solo alle apparenze. Il protagonista, già pedinato dal mostro della maxillo-facciale e da tutti i suoi pensieri, assume ora il ruolo del pedinatore. L’azione rende manifesto il tentativo di invertire rotta, di assumere il controllo di una condizione che sinora lo ha dominato, con l’obiettivo di stravolgere, una volta per tutte, il funzionamento paranoico e auto-distruttivo della sua mente. Tuttavia, il divertissement ha breve durata. Da una stradina secondaria, infatti, torna in maniera del tutto inaspettata il suo passato, nelle sembianze dell’ennesimo “mostro”. Il famosissimo mutilato dei santini, sulla sua carrozzella rossa con i pedali a mano, appartiene evidentemente all’infanzia di Thomas, è l’ennesimo ricordo che fa precipitare ogni tentativo di liberazione. Invecchiato, ma ancora nel pieno delle sue energie, il mutilato dei santini inizia a pedinarlo restituendogli, intatta, la sua solita condizione di perseguitato. Stremato dall’inseguimento, Thomas decide di rifugiarsi in un bar in cui il mutilato non sarebbe mai riuscito a entrare a causa di uno scalino che funge da barriera protettiva. Nel bar, Thomas incontra l’immigrata russa Aleksandra Ivànovna, uscita direttamente da un romanzo di Dostoevskij, nella quale si immedesima e per la quale prova una sincera compassione, a riprova del fatto che, per il protagonista, l’unico contatto umano possibile è quello che avviene con i personaggi della letteratura. Tuttavia, i polpastrelli a tamburo, dimostrazione della sua affiliazione col mutilato, lo turbano a tal punto da farlo fuggire; all’uscita principale, dove lo aspetta l’invalido, preferisce la porta sul retro. Scegliendo accuratamente strade secondarie, si muove nell’ombra per sfuggire ai mostri che lo perseguitano e, così facendo, può finalmente tornare nella propria abitazione la quale, terreno della rêverie, culla il sogno inquieto che chiude del romanzo. Nell’incubo ritornano tutti i mostri, uniti in una segreta affiliazione retta dal potente mutilato dei santini. A pensarci bene, si tratta di figure che vivono ai margini della società, marchiate da importanti difetti fisici o senza lavoro, come lo stesso Thomas che – proiettato all’indietro a causa di una deformazione cranica – si trova, ormai da tempo, in mobilità. La loro condizione li rende affini al protagonista; come lui, sono esclusi da quel circuito produttivo che incastra tutti gli altri vicentini, estranei al rituale capitalistico in quanto soggetti devianti rispetto alla norma e, pertanto, liberi. Come lui possono permettersi di perder tempo, di non far nulla, di starsene seduti o di camminare. Maffesoli nel saggio Del nomadismo sottolinea la contestazione insita nell’atto del passeggiare «desiderio di rivolta contro il funzionalismo, contro la divisione del lavoro la necessità dell’ozio, […] l’importanza della vacuità e del non fare nel deambulare.»[1] Trevisan sembra saperlo bene, tant’è che la vena contestatrice di Thomas si manifesta, anzitutto, nell’atto dell’attraversamento pedonale degli spazi urbani.

La centralità del cammino è ribadita dal secondo scritto che, non a caso, si intitola proprio I quindicimila passi. Qui, il progredire per input visivi innescati dagli spazi urbani lascia il posto a una narrazione più tradizionale che si regge, tuttavia, sempre sulle memorie dell’io narrante. Il disturbo ossessivo compulsivo è dichiarato: Thomas, ovunque vada, ha bisogno di appuntare sul suo taccuino il numero dei passi che separano un luogo dall’altro. Camminare serve a esorcizzare il male interiore: «Sono ancora in vita, pensavo, solo perché mi sfinisco percorrendo a piedi in lungo e in largo il bosco di roveri – bosco che non esiste più ormai da centinaia di anni. […] Cammino tutti i giorni ai bordi di strade fatte apposta per respingere chiunque voglia percorrerle a piedi. Le nostre strade sono fatte per le macchine, pensavo attraversando il passaggio a livello, e risultano inospitali per il camminatore.» Quindicimila passi: da casa di Thomas allo studio del notaio Strozzabosco con l’obiettivo di vendere tutte le proprietà e andare via. Un cammino finalizzato, quindi, a differenza della passeggiata senza meta del primo scritto, durante cui si svolge il resoconto – come recita il sottotitolo – della propria storia familiare. Le memorie della storia familiare si intrecciano ai commenti sugli spazi attraversati, stravolti dalla cementificazione che ha violentemente estirpato gli spazi verdi, come il bosco di roveri. Lungo la Marosticana, strada attraversata per raggiungere lo studio notarile, Thomas si imbatte in una casa incompiuta, della quale racconta dettagliatamente la vicenda. Tale visione è funzionale ad anticipare la comparsa, nel racconto, di un’altra casa, antro dell’incompiuto, delle cose che potevano essere e che non hanno avuto il tempo di compiersi. L’abitazione rappresenta il fulcro attorno a cui si dirama il romanzo. A differenza del precedente, infatti, questo si dipana attorno a un luogo cardine che, esercitando una potente forza centripeta, è capace di attrarre Thomas nella propria orbita. Al nucleo spaziale, pertanto, è affidata l’ermeneutica del romanzo. La vicenda familiare, che occupa i pensieri di Thomas durante il suo cammino, ci viene presentata in maniera accidentata, mediante una narrazione che procede per frammenti, funzionale a tagliare e cucire insieme solo alcuni pezzi della storia. Due fratelli e una sorella sono stati costretti a vivere in solitudine in seguito alla scomparsa prematura dei genitori: lei travolta da un’automobile, lui stroncato, poco dopo, da un infarto. Al fratello, morbosamente attaccato alla sorella, Thomas affida delle caratteristiche precise: appassionato d’arte, a lavoro da anni nella compilazione di un manoscritto su Francis Bacon, critico nei confronti della società, del cattolicesimo e della borghesia vicentina, intrattabile, solitario, oltremodo geloso e possessivo nei confronti della sorella, privata – per questo – di ogni forma di autonomia. L’attitudine nevrotica alla scrittura, attività a cui il fratello dedicava tutte le sue giornate, la necessità di leggere ogni mattina i quotidiani pur disprezzandoli, l’ossessione per il suicidio, sono caratteristiche che, aiutandoci con gli altri testi, sentiamo di poter affibbiare, senza forzature, anche a Thomas. Progressivamente le due figure iniziano, infatti, a sovrapporsi: «[…] ha sempre parlato di morte e di suicidio, proprio come me, ma non si è mai spinto alle estreme conseguenze, così come neanch’io mi sono mai spinto alle estreme conseguenze. […]  Una scelta c’è sempre, aveva detto mio fratello, sempre, pensavo camminando, possiamo riservarci quest’ultima possibilità.» A rendere le pagine sempre più cupe, e a sancire una svolta importante nel resoconto, è la confessione del terribile crimine avvenuto in casa: il fratello ha ucciso la sorella poiché geloso del suo compagno e Thomas, per coprirlo – dopo aver ripulito a fondo la scena del crimine – ne ha sepolto il corpo nel giardino, sotto la lagerstroemia. L’azione commessa resta prigioniera del perimetro abitativo, stipata in un interno che continua a fare da eco, quotidianamente, all’orrore. A questo punto si insinua nel lettore la sensazione di avere a che fare con un narratore inaffidabile come lo Zeno Cosini di Italo Svevo: l’azione che Thomas ha commesso non può che gettare ombre inquietanti sulla sua figura, non più vittima come pensavamo. Al brutale omicidio, ha fatto seguito, per di più, la dipartita del fratello, svanito nel nulla senza lasciare tracce. C’era un luogo dove Thomas aveva sperato di ritrovarlo, pensa ora camminando in direzione Strozzabosco, e questo era la casa di Commenda, nodo centrale della narrazione. La villa, ormai decaduta, diviene tempio del trauma della perdita, luogo sacro dove feticizzare le cose che non ci sono più, covare lo strazio d’esistere senza quei legami essenziali e provare a risentirli, a riviverli, proprio là dove un tempo erano presenti. La casa di Commenda è l’espressione concreta della psicosi familiare e provare a incidere su di essa rappresenta il tentativo disperato di incidere su un passato immutabile. Riecheggiano, incisive, le parole di Bachelard: «Con l’immagine della casa ci avviciniamo ad un vero e proprio principio di integrazione psicologica. Psicologia descrittiva, psicologia del profondo, psicoanalisi e fenomenologia potrebbero costituire, con la casa, quell’insieme di dottrine da noi designato col nome di topo-analisi. Esaminata negli orizzonti teorici più disparati, l’immagine della casa pare diventare la topografia del nostro essere intimo.»[2] Thomas si era recato presso l’edificio, attraversando le insidie della campagna, con la speranza di ritrovare vivo il fratello scomparso, convinto che questi avesse iniziato a trascorrere lì il suo tempo già da prima di commettere l’omicidio. Una serie di ostacoli artificiali, come il cancello, e naturali, come il groviglio di rovi, rendono l’accesso a quel tempio del ricordo complesso e pericoloso, come lo è attraversare, con la mente, gli angoli oscuri di un tempo perduto. La casa, raccontata dalla sorella come luogo idilliaco della loro infanzia, era un posto ignoto a Thomas e al fratello, troppo piccoli per serbare memorie. Se, però, il fratello, incuriosito dai racconti, aveva iniziato a fare delle visite a quel luogo, Thomas aveva scavalcato il cancello la prima volta solo per cercarlo, terrorizzato all’idea di trovarlo suicida fra quelle mura. Coi suoi vetri distrutti, le piante che crescevano all’interno delle stanze e fuoriuscivano dalle finestre, la casa sembrava essere stata abbandonata da tempo: il fratello, dunque, non poteva essere lì e forse, contrariamente alla solida convinzione, non c’era mai stato. Sennonché, perse le speranze, Thomas si accorge di una cosa insolita: «guardavo il cielo riflesso sulla facciata della torre! L’intera facciata della torre, come potei notare sbalordito, era infatti di vetro, interamente di vetro, pensai.» L’ ingresso nel luogo ne rivela lo stravolgimento causato dall’intervento del fratello; a discapito dell’antica composizione, adesso la torre è interamente in vetro, a eccezione del piano terra, e si erge, perfino, su un piano in più. Al suo interno è spoglia, irriconoscibile: pochi mobili, scale a chiocciola in ferro, grosse lampade in stile industriale. Lo sconvolgimento dell’architettura originaria urla la volontà di liberarsi di quel passato inaccettabile, causa e centro d’irradiazione della malattia. La rassicurante famigliarità degli arredi è stata sostituita da un’articolazione degli interni razionale, fredda, essenziale. La necessità di mettere a posto, di esercitare un controllo su quella porzione di vita dolorosa, non può che estrinsecarsi attraverso la trasformazione radicale della casa d’infanzia, resa grigia e funzionale, privata del suo cuore. Nella sua perlustrazione, Thomas trova il manoscritto del fratello: La casa nel parco nella casa e quanto a essa connesso; il valore semantico degli spazi è confermato dalla scelta del titolo e dell’argomento dello scritto. Per fronteggiare la propria vita interiore, bisogna farsi carico dei luoghi del cuore e sconvolgerli, manometterli, farli a pezzi se necessario. Il manoscritto non è altro che l’ambizioso progetto architettonico a cui il fratello, con impegno e dedizione, aveva lavorato negli anni con l’intento di dare un volto nuovo a quelle mura. Thomas, comunque, non lo troverà: ci sono tutte le sue cose ma lui è assente. Questa assenza non può passare inosservata; essa contribuisce a demolire, progressivamente, la narrazione che Thomas ha edificato per noi. Quando, finalmente, il protagonista giunge presso l’ufficio di Strozzabosco può annotare sul suo taccuino: «casa studio Strozzabosco 15 000 passi». Convinto di voler vendere tutto e andare a vivere in Amazzonia, chiede al notaio se abbia notizie del fratello, poiché la vendita delle proprietà è affare grosso, da concordare. Le parole di Strozzabosco lo attraversano, ci attraversano, senza far rumore. In fondo, forse, lo sapevamo da un pezzo: Thomas aveva fatto di tutto per farcelo capire seminando indizi e lasciando tracce fra le righe, eppure rimaniamo lo stesso turbati dalla rivelazione. Strozzabosco dice delle cose su sua madre, Thomas è distratto, coglie solo il fatto che nell’incidente mortale non era sola, c’era un bambino con lei, morto a sua volta sul colpo. Thomas sente, ma non ascolta, continua a sproloquiare sulle proprietà, sulla partenza, sull’Amazzonia. A noi la storia appare finalmente chiara: affibbiamo i tratti e le azioni attribuiti al fratello, alla sua fragile e controversa personalità. Ci siamo lasciati ingannare, ma adesso sentiamo di averlo capito un po’ meglio e siamo pronti a leggere, con la giusta dose di scetticismo, l’ ultimo, bellissimo, racconto nella Trilogia: Il ponte.

Non possiamo fare a meno di notare che il titolo si riferisce a un luogo preciso (non a un ponte, ma al ponte) confermando, pertanto, l’attenzione nei riguardi della dimensione spaziale. A differenza dei precedenti romanzi, Thomas non si trova più a Vicenza sebbene, comunque, non sia mai riuscito a disfarsene, portandola dentro di sé come un cancro. Lo testimonia il fatto che, benché adesso viva in Germania, Thomas legge ogni giorno il «Giornale di Vicenza» prestando particolare attenzione al necrologio, attitudine che, se ricordiamo, aveva contraddistinto il padre di Thomas de Un mondo meraviglioso. La variazione del cronotopo ci avvisa di una condizione psicologica che ha subito ulteriori peggioramenti, tanto da spingere il protagonista a una fuga solo decantata nei precedenti romanzi, ma mai messa in atto. «Lasciati alle spalle questa orribile città dove non ti sei mai sentito a casa e dove non hai più nessuna persona, piena solo di fantasmi che ti danno il tormento.» La Germania funge, però, da contorno: tutto il racconto, ancora una volta lungo monologo interiore, si articola – infatti – all’interno del cronotopo di sempre, nella Vicenza del passato. A innescare il ricordo, stavolta, l’annuncio della morte del cugino Pinocchio stampato sul «Giornale di Vicenza». Così Thomas viene a conoscenza di questa terribile dipartita, causata da un incidente stradale alla guida di una Ferrari Testarossa.

Le memorie si articolano su tre piani temporali distinti, a cui corrispondono ambienti specifici: l’infanzia, la giovinezza e l’età adulta. Il luogo principale dell’infanzia è la casa materna. Al suo interno, Thomas esperisce una grave sensazione di prigionia, causata dall’imperativo della madre a non varcare il perimetro di quella costruzione. Stipato nel giardino curatissimo, Thomas sperimenta la ferocia verso gli insetti come unico sfogo nei confronti di quella reclusione forzata. Infatti, non potendo distruggere le piante a cui la madre volgeva tutte la sue attenzioni, la sua frustrazione aveva iniziato a esprimersi mediante la somministrazione di torture ai piccoli animali che gli capitavano sotto mano. La casa, luogo topico della nevrosi, diventa, così, scenario fecondo per la costruzione di un rapporto madre-figlio imperniato sull’oppressione e sul senso di colpa. La malattia della madre, che l’aveva costretta per un lungo periodo in ospedale, aveva rappresentato l’unica possibilità di evasione per Thomas che, pertanto, aveva intrivisto nella sua morte l’unica salvezza. Il seme di questo desiderio sopito era diventato velenoso, trasformandosi in un senso di colpa eterno, impossibile da estirpare. Anche le sorelle, manifestazione di un femminile crudele, avevano contribuito a lederlo, relegandolo ai margini della casa, costringendolo, con la complicità della madre, a dormire in salotto, luogo impossibile da sentire come zona di conforto e spazio intimo. Solo durante l’adolescenza Thomas aveva scoperto, finalmente, la libertà. E lo aveva fatto in compagnia di Pinocchio, cugino prediletto. Lo scenario delle loro avventure è il mondo esterno composto di strade, campagne, contrade piene di insidie che, pertanto, si contrappongono nettamente all’immacolato giardino dove aveva trascorso l’infanzia. I giochi, le pericolose scorribande in bici e poi, più grandi, le infrazioni stradali in auto, assumono le caratteristiche di veri e propri riti iniziatici. A rafforzare l’impressione, il patto di sangue stipulato da ragazzini: «Pinocchio mi aveva spiegato che, siccome lui e io non eravamo solo amici, ma anche cugini, se avessimo stretto un patto di sangue saremmo diventati davvero fratelli; non solo fratelli di sangue, aveva detto, ma fratelli fratelli, perché avevamo già lo stesso cognome. […] Cavai dalla tasca la piccola roncola che mi aveva regalato mio padre e, senza tanto pensarci, mi procurai un taglio sul palmo della mano sinistra, che subito tesi verso Pinocchio, il tutto guardandolo fisso negli occhi.» Cresciuti un po’, sperimentano l’ebbrezza della velocità attraverso le spericolate corse in auto contromano, fingendosi due inglesi abituati a guidare a sinistra. In queste pagine riecheggiano le uscite notturne dei libertini di Tondelli lungo la via Emilia; qui siamo in Veneto, ma gli anni sono gli stessi e ad animare i ragazzi è la medesima disperata vitalità: «Era sempre stato così, e anche quella notte, non appena capii che non c’era più niente da fare, che lui, Pinocchio, avrebbe messo effettivamente in pratica il suo disegno assurdo, cioè guidare contromano, alla massima velocità possibile, almeno fino a Marostica, gli sfilai la sigaretta di bocca, l’accesi, gliela rimisi tra le labbra e, perso per perso, mi trasformai nell’ottimo navigatore che, in anni di esperienza, mi ero abituato a essere in casi come quello.» Ma, nonostante l’incoscienza, la morte non li aveva colti e la promessa di uccidersi in riva al fiume, per restare giovani per sempre, non era stata mantenuta; così l’età adulta era sopraggiunta scolorendo l’intensità del legame feroce che li univa. Pinocchio era diventato padre di Filippo e Thomas sentiva che se non era mai stato capace di amare il figlio la colpa era solo sua e di quel patto di sangue di tanti anni prima. Forse per allontanare il rimorso, forse per rimediare alla perdita del rapporto col padre, Thomas aveva introdotto Filippo nei luoghi delle scorribande con Pinocchio: in riva al fiume Astego, giù per le scarpate, fra i fitti boschi, con quella piccola bici che lui stesso gli aveva donato. L’omologa topografia suggerisce il bisogno di Thomas di rimanere ancorato al passato: Filippo incarna la giovinezza perduta, assume su di sé il ruolo che Pinocchio aveva avuto tanti anni prima, anche se tutto si permea ora di un alone d’inguaribile nostalgia. Dal canto suo, il bambino si nutriva, famelico, dei racconti che ritraevano suo padre come il più forte, il più veloce, il più coraggioso… eccetto una volta. Al ponte Piovene, Pinocchio aveva avuto paura. Tentando di attraversarlo a piedi, lungo il tubo metallico che si trovava al di sotto, si era bloccato e aveva fatto cenno a Thomas di tornare indietro. L’unica volta in cui Pinocchio aveva rinunciato a portare a termine una delle sue imprese, era stata quella. Il ponte Piovene eretto sul fiume, anche denominato ponte dei suicidi, si carica di un’importanza evidentemente straordinaria per il piccolo Filippo: diviene la smagliatura capace di increspare il potere del padre. Ben prima di Pinocchio, il piccolo Filippo era venuto a mancare e a Thomas, infatti, l’incidente del cugino si presenta come un tremendo deja-vù. Gli sovvengono gli interrogatori dell’inquirente che, dopo aver trovato il corpo del bambino, lo aveva incalzato con domande ambigue, volte a ottenere un’ammissione di colpevolezza. Presto il protagonista si ritrova isolato da tutta la comunità, Pinocchio e la moglie lo considerano il vero responsabile della morte del figlio: d’altra parte, aldilà dei fatti accaduti nel giorno fatale, era stato proprio lui a iniziarlo a quelle avventure e a trasmettergli la passione per le spericolate esplorazioni. Anche i lettori, alla luce dei precedenti scritti, si sentono spaesati e non sanno a chi credere. La morte di Pinocchio ha fatto riemergere, in superficie, tutto ciò che pareva offuscato da una serena lontananza; pensato il primo pensiero, non c’è più modo di sfuggire ai frammenti di vita passata, infatti: «Ci sono pensieri che basta pensare una volta, e uno non se ne libera più, di questo posso dire di sapere qualcosa.» Il trasferimento in Germania, dopo la morte del bambino, era sembrato a Thomas l’unica salvezza possibile: cambiare luoghi, scenari, panorami per ricominciare. Lì lo attendeva Hennetmair, l’amico conosciuto a Jesolo, l’unico amico rimastogli con cui poter parlare di politica, di lingua e civiltà. È a lui che Thomas si diletta a raccontare di quel Pasolini corsaro che, con le sue analisi avanguardistiche, aveva dipinto lo squallore di un’Italia senza più identità, ridotta in brandelli dall’avvento della nuova religione dei consumi. Le pagine dedicate all’autore friulano testimoniano una conoscenza profonda della sua letteratura e del suo pensiero, nonché una sincera vicinanza al Pasolini uomo. In particolare, Thomas sentiva di condividere con lo scrittore la tragica esperienza del rapporto morboso con la madre. Giunto in Germania, la netta contrapposizione tra la vecchia vita e l’illusione della nuova si estrinseca, ancora una volta, nella dimensione spaziale. Infatti, è proprio la descrizione del giardino della nuova casa a darci contezza del distacco operato rispetto al periodo trascorso in Italia. A discapito della precisione maniacale che governava il vecchio giardino, infatti, quello nuovo si articola prepotente e disordinato come una foresta. Pertanto, il doloroso impulso a tagliare tutto, a radere al suolo la vegetazione, suonerà a Thomas come un richiamo al vecchio giardino, alla vecchia città e, in ultima istanza, alla vecchia vita. Sul finire del romanzo, annientato dai pensieri negativi, decide di tornare a Vicenza e, una volta varcato il confine, è proprio al ponte Piovene che si dirige, nel luogo che aveva rappresentato la faglia del potere straordinario di Pinocchio, della sua inattaccabile autorità. Il ponte Piovene si staglia sull’amato fiume Astego che ricorda, adesso, l’Aniene di Pasolini, autore di riferimento per Vitaliano Trevisan. Come l’affluente del Tevere, anche l’Astego è raggiungibile solo a patto di gettarsi lungo una ripida scarpata. Thomas scavalca con facilità la recinzione che ne dovrebbe impedire l’accesso, seguendo le orme di quei ragazzi di vita ampiamente abituati a confrontarsi coi buchi del potere, con le reti sfondate che avrebbero dovuto fungere da divieto e che, invece, così configurate, sono del tutto inadatte alla loro funzione proibitiva. Tra i rovi, la bici arrugginita di Filippo. Thomas sa che il commissario prima o poi la troverà e allora metterà insieme i pezzi, fraintendendo tutto, come sempre. L’acqua è elemento primitivo di vita e rigenerazione e il fiume «frontiera ontologica»[3], funge da simbolo di trasformazione e palingenesi, divenendo scenario iniziatico. D’altra parte, come ci insegna l’Antropologia, affinché continui la vita, è necessario che si compiano dei sacrifici sotto forma di riti iniziatici. Secondo Pezzarossa, in Pasolini i ragazzi non sono solo fotografia della realtà postebellica, ma, invece, «[…] devono intervenire con sincera disponibilità a giocare un ruolo, spesso connesso a una funzione sacrificale che li attende […]»[4]. Così Genesio deve morire ingoiato dai gorghi dell’Aniene affinché Riccetto e gli altri riescano a transitare verso la dimensione adulta. E Filippo? A cosa – e a chi – è servito quel sacrificio nei pressi delle acque fluviali? Perché la sua bici è nascosta tra i rovi se il suo corpo è stato ritrovato da tutt’altra parte? Forse davvero qualcuno lo ha spostato, ma non possiamo dirlo con certezza. Forse la sua morte si è configurata come il compimento in ritardo di quell’iniziazione mancata di tanti anni prima. Affinché si diventi adulti, un giovane deve morire. Così, Filippo è morto cercando di superare i limiti del padre e invece ha rimediato, inconsapevolmente, all’atto sacrilego compiuto, tanti anni prima, da Pinocchio e da Thomas. I due avevano deciso di non uccidersi, contravvenendo alla promessa che si erano fatti da ragazzi, ma la loro crescita non poteva compiersi pienamente senza il sacrificio di qualcuno. In Trevisan, però, tutto urla morte, pertanto il rito propiziatorio è destinato a fallire, impotente se calato negli abissi di quell’universo funereo. Dopo il piccolo Filippo, allora, è il turno di Pinocchio e poi di Thomas che, finalmente libero, può lasciarsi scivolare nelle acque materne del caro Astego. Ora tutto ha significato e la storia può volgere al termine. Resta solo il ricordo di tre ragazzi: giovani per sempre.

 

 

 

[1] Michel Maffesoli, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza. Milano, Franco Angeli, 2000, p. 69.

[2] Gaston Bachelard, La poetica dello spazio. Bari, Edizioni Dedalo, 1957, p. 19.

[3] Carlo Donà, Per le vie dell’altro mondo: l’animale guida e il mito del viaggio. Soveria Mannelli, Rubbettino editore, 2003, p.344 .

[4] Fulvio Pezzarossa, Michele Righini, La camminata malandrina: ragazzi di strada nella Roma di Pasolini. Modena, Mucchi editore, 2015, p. 62.

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