Ott 26

Il mio “cunto” libero

(di GIUSEPPINA TORREGROSSA)

Lectio magistralis di Giuseppina Torregrossa in occasione del conferimento alla stessa della laurea honoris causa in Italianistica (Palermo, Steri, 7 Giugno 2021)

C’è un lungo e resistente filo che lega insieme donne e scrittura. La scrittura Nushu, per esempio, è la prima di genere. Nella Cina imperiale, le donne di etnia Yaho che vivevano in alcuni villaggi dello Hunan, utilizzavano la lingua Nushu per comunicare tra di loro di nascosto agli uomini. Per alcuni si tratta di una lingua segreta, per altri di una lingua intima, usata per dare voce ai pensieri, alle sofferenze causate dal giogo del patriarcato. Certo è che i segni ricamati sui vestiti, considerati dagli estranei decorazioni, erano invece simboli di libertà.
Escluse nel passato dalla vita politica e sociale, dallo studio, la capacità espressiva femminile è stata fortemente condizionata, a meno di non possedere Una stanza tutta per sé.
“Se vuole scrivere romanzi, dice Virgina Woolf, la donna deve avere del denaro e una stanza per sé». La scrittura per raggiungere buoni livelli espressivi bisogna che sia libera dal bisogno economico, dall’assoggettamento alla famiglia, ma anche dal i freni interiori. Spiega la Woolf che la rabbia repressa per la mancanza di libertà, ha condizionato in negativo la produzione letteraria delle donne, rendendola peggiore.
“E’ necessario ricercare l’autonomia per liberarsi dalla sensazione di dipendenza e dalla possibilità di provare risentimento…”
“Scrivere è un atto di impudicizia” asserisce Lidia Ravera. Rammentate lo scandaloso Porci con le ali?
In sostanza la letteratura si nutre di libertà, e la scrittura è stata, è strumento di emancipazione, di resistenza.
Si scrive con il corpo, del corpo e grazie a un corpo libero. Da medico ne ho studiato la fisiologia e la patologia; da scrittrice ne ho raccontato i sussulti, gli affanni.
Oggi perciò vorrei proporvi una personale riflessione sugli infiniti legami tra corpo e scrittura e raccontare anche come quest’ultima mi abbia condotto su un sentiero immaginifico che passa per questa università. 
Si scrive dunque con il corpo, del corpo e grazie al corpo. Prendiamo il cervello per esempio, con quello pensiamo, ragioniamo. Se qualcuno agisce d’impulso in un momento di rabbia, non diremmo che è colpa del cervello, semmai del carattere, della personalità. Eppure Phinneas Gage, operaio delle ferrovie, quando ebbe il cranio trapassato da una sbarra di ferro, non perse nessuna delle sue funzioni logiche, ma la sua personalità cambiò del tutto. Diventò volubile, violento, gli amici e i familiari stentavano a riconoscerlo. Molti anni dopo Damasio, neuro scienziato portoghese, scopre attraverso le tecniche del neuroimaging che il cervello è la sede dei sentimenti e ne mappa le aree, dimostrando che nella materia grigia emozioni e ragione interagiscono di continuo. Nell’errore di Cartesio lo scienziato demolisce buona parte della tradizione culturale che demonizza le emozioni perché perturbanti della ragione. Grazie agli studi di Damasio possiamo dedurre ex post che il ferroviere Phinneas Cage subì un danno al lobo frontale e non un trauma psicologico che lo portò a essere violento.
Oliver Sacks, medico psichiatra, ci ha regalato dei romanzi che sono dei veri e propri trattati di neurologia, scritti con linguaggio particolarmente attraente, tanto che il New York Times lo definisce “Una specie di poeta laureato della medicina contemporanea”. Affetto da prosopagnosia, disturbo che causa difficoltà nel riconoscere i volti degli altri, lo studioso ha raccontato quanto importanti siano le emozioni per il buon funzionamento della mente, ponendo molta attenzione al disturbo neurologico, al sentimento che lo accompagna e alla relazione con gli altri. Non è il primo medico che ci regala pagine memorabili: Cronin, Celine, Conan Doyle, Cechov…  E’ sorprendente quanto lo studio scientifico costringa i medici verso una dimensione sentimentale e poetica, come se la sensibilità narrativa sia una conseguenza del contatto con la malattia.
Si scrive con il corpo nella sua interezza o con i singoli organi, a seconda delle necessità. Il cuore per esempio, considerato dai poeti l’organo dell’amore, é stato nella medicina del passato ritenuto una semplice pompa che spinge il sangue nelle arterie. Oggi sappiamo che al suo interno c’è una complessa rete di circa 50.0000 neuroni e interneuroni, grazie ai quali il cuore, in forma indipendente e autonoma, apprende, ricorda, prende decisioni e invia informazioni a sua volta al cervello, condizionando le risposte di quest’ultimo.
Nazim Hikmet poeta turco lo sapeva bene, e nell’ Angina pectoris  ci rivela le vere cause delle patologie cardiache.

Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.

E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.

E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.

E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
una mela rossa, il mio cuore.

È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclérosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris…

Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.

Io conosco un dottore lunatico e mutanghero, direbbe Camilleri. La sera è pa’ testa, il giorno pa’ cuda. La moglie dice che ha un brutto carattere, ma non è vero, il dottore è ammalato:
“All’inizio del nuovo anno il dottore si alzò di buon’ora e in macchina raggiunse la stazione. Era preoccupato, i suoi malesseri peggioravano e perciò si era deciso ad andare a Pa­lermo per consultare un amico cardiologo. Il collega dell’ospedale lo accolse affabile. “Sarà la stanchezza” sentenziò “ma è meglio se facciamo qualche controllo”. Lo affidò a un dottorino giovane giovane che lo sottopose a un elettrocardiogramma. Il tracciato seguiva un andamento bizzarro “Come leggere un libro allo specchio” disse quello e corse a chiamare il capo. L’altro poggiò lo stetoscopio sul torace, quindi direttamente l’orecchio, aveva un’espressione incredula e Giustino cominciava a preoccuparsi, non aveva paura delle malattie, ma della morte sì e sentiva di nuovo difficoltà a respirare. “C’è cosa?” chiese con timidezza
“No, solo che il battito è flebile, come se il suono si propagasse attraverso tre strati di grasso, eppure non sei obeso” quindi chiamò due sue colleghi a consulto.
“Sentite com’è debole?” diceva uno; “Ma se vi spostate verso destra, batte come un tamburo!” aggiungeva l’altro.
“Collega, ti senti bene?” chiese un terzo
“No, sennò non stavo qui”
“Hai disturbi?” domandò un quarto
“Insomma si può sapere quanto mi resta da vivere?” urlò Giustino esasperato, in breve era passato da medico e paziente e quel ruolo sottomesso non gli piaceva proprio.
“Collega, non è così semplice!  Meglio se facciamo una lastra”
Lo portarono di corsa in radiologia e davanti allo schermo illuminato, i primari dell’ospedale, tutti insieme, non riuscivano a credere ai loro occhi.
“Ma perché nessuno gli diceva la verità?” e sudava Giustino, mentre i battiti acceleravano e il respiro si faceva corto. Infine il suo amico gli offrì un bicchiere d’acqua, lo fece rivestire e lo condusse nello studio.
“Hai una strana dislocazione degli organi interni”.
“Evvivaddio si era deciso a parlare!” pensò Giustino
“Il tuo cuore si trova a destra. Situs inversus si chiama questa stranezza della natura; non è nemmeno considerata una malattia, perché i visceri, sia pure dislocati in una zona inusuale, funzionano normalmente, così dicono i testi. Come avere un occhio verde e uno nero, ci si vede benissimo lo stesso”, rise il cardiologo e aggiunse “Sei fatto al contrario”
Calogero guardò le lastre, il suo cuore era una graziosa piramide rovesciata nel lato destro del torace, la punta curvava verso l’ascella, arterie e vene erano invertite.
“Talvolta anche il fegato si trova dal lato sinistro e lo stomaco a destra, ci si nasce così; ma se vuoi facciamo altri accertamenti” continuò l’altro facendo sfoggio del suo sapere
“No, grazie, può bastare. Ma allora gli svenimenti? Ne ho avuto due negli ultimi mesi. Il sudore freddo, la nausea?”
“Stanchezza! Hai avuto un periodo difficile? Devi riposare e stare tranquillo”
Giustino tornò a casa che pareva invecchiato di dieci anni. Le rassicurazioni del primario non gli erano bastate, era un medico, lui lo sapeva come andavano queste cose. “Ti dicono che non è niente, ma all’improvviso muori” e quel cuore fuori posto, ah, saperlo veramente come stavano le cose. Non volle mangiare, e si chiuse in camera senza dire una parola. Consultava ansioso un testo di cardiologia, capitolo “Situs inversus”. Lo rilesse più volte, secondo l’autore lui era sano.
“Ma come è possibile?” si diceva “Il corpo non è neutro. Quelli con la pressione alta si arrabbiano ogni due per tre; i diabetici hanno sempre fame…”
“Tino, che hai?” gli chiese la moglie facendolo sobbalzare. Non si era accorto che l’avesse raggiunto nella stanza e quella vocina tutta compassionevole aumentava la sua ansia. 
“Situs inversus” rispose sibillino. Lei gli lanciò uno sguardo preoccupato “E’ grave?”
“Sono fatto al contrario” aggiunse lui. Gilda si mise a ridere “Questo lo sapevo già”. Il dottore allora si infuriò. “Possibile che nessuno di voi mi prenda mai sul serio? Guarda che è una anomalia grave. Se faccio le cose al contrario di quello che penso è colpa del cuore, perciò da oggi che nessuno di voi venga più a criticarmi o a chiedermi giustificazioni. Io sono malato e basta”.

Si scrive con il corpo e con i suoi singoli organi. Prendiamo la voce per esempio. I cantastorie la modulano e il racconto è una vera e propria melodia. Adoro la loro musicalità e con le mie nipotine comunico cantando.
E poi c’è il cuntastoria, che narra in versi, e il contastorie che racconta frottole E che male c’è? Sono i fatti immaginari, le fantasie a rendere seducente e verosimile un racconto.
La peculiarità di queste figure, canta/cunta/contastorie, è la voce che si modula in toni diversi.
Secondo Tomatis, neuro otorino francese, la voce contiene ciò che ascolta fin dalla vita intrauterina.  Cioè essa è il risultato di incoraggiamenti, apprezzamenti, detrazioni, scherno.
Il primo organo di senso che si sviluppa nell’embrione è l’orecchio. La mia tesi di laurea in medicina era un lavoro sperimentale che valutava la risposta del feto alle stimolazioni acustiche endouterine. I mezzi di indagine in quel periodo, siamo negli anni 70, non erano certo sofisticati. Gli ecografi utilizzavano la cosiddetta scala dei grigi. Qualcosa di molto simile ai sonar delle navi. Facevamo scorrere una sonda sull’addome e ci tornavano indietro tanti puntini luminosi di colore bianco brillante, immagini “a tempesta di neve”, le stesse che comparivano sullo schermo della TV a tubo catodico quando qualcosa non funzionava. Avevamo, con il mio professore, costruito un dispositivo che emetteva suoni di diversa tonalità. Lo appoggiavamo sulla pancia della gestante e creavamo il vuoto con una campana di vetro; quindi valutavamo le reazioni del feto attraverso il racconto della madre stessa. La conclusione fu che il feto reagiva alle stimolazioni acustiche, riconoscendo la voce materna e distinguendola da quella paterna. Non fu una rivoluzione scientifica, ma certamente una rivoluzione sentimentale. Già Alfred Tomatis aveva ampiamente dimostrato il profondo legame tra voce e traumi psicologici. Secondo lo scienziato è attraverso suoni che affermiamo la nostra esistenza, che ci riconosciamo. Siamo uccelli, e al pari di loro possediamo un’enorme varietà di cinguettii che apprendiamo, come loro, dagli adulti.
Il feto non solo percepisce la voce dei genitori, ma reagisce, strutturando dei comportamenti reattivi. La comunicazione tra madre e figlio durante la gestazione è perciò molto importante, così come il motherese o mammese, quel linguaggio cantilenante, infarcito di suoni senza senso, dal tono infantile, che alle orecchie adulte può sembrare un po’ stupido. In conclusione: una voce costante e senza indecisioni è espressione di una vita solida e senza traumi.
Mentre un cattivo ascolto in utero o addirittura l’assenza della voce materna provocano ripercussioni sullo sviluppo della personalità del bambino, in sostanza: traumi. Il tono della voce è quindi frutto dell’esperienza. Perciò, in virtù di un’esperienza diversa, medico e scrittore utilizzano tonalità diverse nel racconto.
Per esempio: Se un parto non va avanti, il medico parla di arresto del travaglio. Lo scrittore McEwan dedica quasi un intero romanzo all’argomento. “Nel guscio” McEwan dà voce a un feto che è testimone, dentro la pancia della mamma, di un triangolo amoroso e di un delitto. McEwan racconta dei dubbi del feto stesso, che decide di non avere a quel punto alcuna voglia di nascere. Racconta cioè di un trauma che si instaura durante la gestazione e che si struttura nella personalità del nascituro fino a fargli prendere delle decisioni.
Se dovessi raccontare oggi la mia tesi di laurea, per prima cosa cambierei il titolo. “La risposta del feto alle stimolazioni acustiche endouterine” diventerebbe “La voce proibita”. La premessa si trasformerebbe in incipit.
“Doveva essere buio nella pancia di mia madre, e comunque non avevo ancora occhi per vedere. E i suoni erano piccoli fremiti sulla mia pelle, ché le orecchie ancora non si erano formate. Ero scheggia di materia in un vortice di correnti calde, stella unica di un universo in evoluzione. Poi le orecchie si abbozzarono insieme con timpani e nervi. Avrei dovuto sentire una voce suadente che si fa materna prima ancora di diventare madre. E invece il silenzio dominava, signore del buio e dell’angoscia. Dopo sei mesi, sebbene pronta, ancora non sentivo nulla. Credo di non esserne stata turbata, ancora quell’assenza di suoni mi pareva naturale. Poi lame di luce squarciarono il mio isolamento. Erano gli occhi che, spalancate le palpebre, intuivano il mondo che di lì a poco avrei esplorato. Erano lampi improvvisi, che illuminavano il brodo nel quale mi sviluppavo. A quel punto intuii che c’era un di qua e un di là. Il mare denso e caldo mi rassicurò e continuai a galleggiare, a nuotare quando mi feci corpo, braccia, gambe, cuore. Giunto il tempo, mentre mi muovevo dal di qua a quel di là, che si chiama vita, non ‘era nessuna voce a guidarmi, nessun richiamo a incoraggiarmi.
Le membra in fiamme per la fatica, mi sono fermata a pochi centimetri dalla meta. Dal di là provenivano suoni disordinati, voci concitate, urla. Ne fui sorpresa e incuriosita. Una pressione intanto mi sovrastava e veniva sempre da di là. Mi spinsero a forza, ché io, per via di tutto quel clamore improvviso, me ne stavo rintanata dentro.
Fu violento quel viaggio di cui non sapevo nulla, tremendo e doloroso, come tutte le separazioni. A mia madre non sfuggì un gemito per tutto il travaglio, nemmeno un lamento. La sua voce, che fosse soave, suadente, stridula, acuta come una maledizione, non ebbi modo di conoscerla. Ma la sua sofferenza sì, ché per sentire quella non servivano orecchie ma cuore. Fuori non piansi ne urlai. Credo non si trattasse di stanchezza, ma come i sordi anch’io, che mi ero sviluppata nel silenzio, non sapevo di possedere una voce.

Si scrive con il corpo e grazie ad esso. La voce pronuncia parole che si formano, attraverso gli stimoli dell’area di Broca, complici i ricordi, le esperienze sensoriali.
E’ stata la mia nonna materna a iniziarmi al gioco delle parole, a spiegarmi l’importanza degli accenti, le differenze sottili tra vocaboli che risuonano allo stesso modo. “Basta una sola vocale per dare al discorso un significato diverso” diceva. Portava gli occhiali nonna Gemma e i suoi occhi appannati dalla vita, si animavano ogni volta di gioia infantile: “Che significa ziddare? E zoddare?” e ridevamo insieme di quelle piccole trasgressioni che le parole ci permettevano, ché ziddare significa “cacca di capre”.
Lei mi ha insegnato le poesie dell’abate Meli: “Un surciteddu di testa sbintata avia pigghiatu la via di l’acitu…” oppure “Dimmi dimmi apuzza nica unni vai accussì matinu? Un c’è cima ca arrussica di lu munti a nui vicinu”. E mia mamma ha fatto lo stesso con mia figlia e io conto di muovermi nella stessa direzione con le mie nipotine.
Il gusto del racconto mi viene dritto da mio nonno che sperava di frenare la mia irruenza infantile. Nei pomeriggi afosi di agosto, nella nostra casa di campagna, alla controra, il nonno parlava con voce lenta e costante: “Ora ti cuntu un cuntu: C’era na vota un cavaliere che partì a cavallo per cercare fortuna. La strata era longa e clop, clop , clop, clop…” il rumore degli zoccoli funzionava da ipnotico ed io mi addormentavo. Il prosieguo di questo cuntu non l’ho mai saputo, ma tanto bastò per farmi amare le favole. E poi c’era Rosa, oggi la chiameremmo tata. Era lei a cullarmi con la siminzina: “E vo e la rivò ora veni lu patri to. E ti porta la siminzina, la rosamarina e lu basilicò”.
Prima dell’italiano ho quindi imparato il dialetto. In quel paese dell’entroterra, negli anni sessanta, in pochi si esprimevano in italiano.
Le parole che ho ascoltato nell’infanzia terminavano tutte in uzzo, uzzu, uzza. Picciridduzzu, cappidduzzu, signuruzzu, bidduzza. Oppure in edda: scimunitedda, vistinedda, panzunedda. Non esistevano accrescitivi né dispregiativi, ma solo vezzeggiativi.
E poi ho ascoltato suoni indimenticabili: le marcette della banda, i rintocchi delle campane, le urla degli ambulanti, lo scalpiccio dei cavalli, le serenate d’amore nelle notti d’estate, gli inni sacri della Messa, le novene mormorate nel mese di maggio; e ho potuto vedere una gran varietà di colori: l’oro del grano, il giallo dell’acetosella, il rosso del pomodoro, delle amarene, e di odori: il profumo del gelsomino, della bella di notte, dell’origano, ma anche il puzzo del letame, del becchime. I ricordi di quel periodo non li ho persi, sono semi piantati nella memoria (la porta d’ingresso della memoria è nell’ippocampo)  e fioriscono nei miei racconti.
Il mio corpo si strutturò in questa sorta di Arcadia acustico/ olfattiva. La mia laringe si accordò con quell’immenso universo sonoro. Le corde vocali vibravano plastiche mentre giocavo con gli altri bambini. La mia voce, per tornare all’argomento, sembrava possedere una sorta di saggezza naturale.

La funzione sviluppa l’organo e il mio apparato della fonazione, in quel clima felice, si formò in armonia; Tomatis ne sarebbe stato soddisfatto. Non ero io a scegliere le parole, la mia voce sapeva istintivamente cosa dire o tacere. Tintinnava spontanea come cristallo. Passava dal siciliano all’italiano con disinvoltura e coglieva senza esitazioni le giuste occasioni.
Il trasferimento in città fu un trauma. L’orizzonte sconfinato del feudo fu brutalmente limitato dalle facciate dei palazzi; c’erano strade e incroci al posto dei campi e delle trazzere che scavallavano le colline. Via i vezzeggiativi, i suffissi fantasiosi, le allocuzioni inventate. Si doveva parlare con cognizione di causa e soprattutto ci si esprimeva in italiano. Fu uno shock per la mia laringe. Ingabbiata in un rigido busto di regole grammaticali e fonetiche perse la sua agilità. Abituata a flettersi come una ballerina, dovette imparare a marciare come un soldato. Mi mancava lo “stupidario” della mia tata, i sussurri, le nenie, quegli infiniti suoni universali.
Poi ci fu la fatwa di mio padre “Guai a te se parli in dialetto”. Il siciliano era considerato il linguaggio degli ignoranti, vietato ai professionisti e ai loro familiari. D’improvviso ciò che mi aveva cullato e coccolato venne bandito dalla mia vita. De Mauro dice che il dialetto rimane “la lingua degli affetti, un fatto intimo, confidenziale, familiare”. L’obbligo di parlare in italiano sovvertì quindi il mio universo sentimentale E, come dice Pirandello, il dialetto esprime il sentimento di una cosa, mentre la lingua il concetto di quella cosa.  La mia voce, tra i lacciuoli del pensiero, cambiò.
Fu un periodo durissimo, non si trattava di un semplice apprendimento che comportava fatica, ma dell’ingresso forzato e traumatico nel mondo del razionale e delle convenzioni.
La scuola non mi aiutò. Avevo frequentato la seconda elementare in paese, le mie compagne si esprimevano solo in dialetto. Al contrario la mia maestra, che aveva insegnato nelle scuole della città sociale di Valdagno, creata da Gaetano Marzotto. parlava un italiano perfetto con un bell’accento nordico. Noi alunne ridevamo di lei e dicevamo che “toscaneggiava”, anche se Valdagno si trova in Veneto. Lei si limitava a correggere gli errori di geografia, per il resto ci lasciava libere di esprimerci.
Le mie compagne palermitane il siciliano nemmeno lo conoscevano. Perciò non mi inserii subito. Provai un senso di spatriamento, così lo definisce Mario Desiati, il sentimento malinconico di chi è costretto a partire. Tuttavia eseguivo i compiti con precisione, portavo a casa voti buoni e nessuno sospettò la mia sofferenza. Persi però il gusto per il racconto. In classe scrivevo temini striminziti, il mio vocabolario era striminzito, perché espressione di un mondo emotivo misero e malinconico. La soluzione per la mia maestra fu “leggere”. Mi mise in mano il libro Cuore. Mi piacque moltissimo, lo divorai. Al saggio scolastico recitai “Sangue romagnolo” e continuai a vivacchiare, sia pure sognando.
Il divieto di mio padre alle medie si estese allo slang. Guai a pronunciare certe espressioni colorite che si sussurravano nella cerchia degli adolescenti. Eliminai tutto quello che poteva infastidire la mia famiglia, le maestre, ma non capivo le ragioni di tanta ostilità, soprattutto verso delle parole. I miei nonni non mi avevano mai censurato. Solo le parole che provocavano disperazione dovevo evitare. “Non c’è nulla di male nella menzogna se serve a dare speranza” mi aveva insegnato il nonno, ma lui faceva il medico e si riferiva alla malattia. Mi inventai una felicità fittizia, anche se alla sera una malinconia acida mi corrodeva il cuore.
Dopo la terza media, la mia famiglia si trasferì a Roma e si ripresentò di nuovo il problema del linguaggio. Questa volta non era una questione di dialetto, ma di dizione. C’erano le “e” aperte e strascinate, le “o” larghe e grasse. A scuola precipitai nell’inferno. Appena parlavo mi ridevano tutti in faccia, ché la Sicilia non era ancora diventata un brand e i siciliani erano considerati terroni. Smisi di parlare. Nelle interrogazioni facevo scena muta. Mi isolai e di fatto mi condannai al silenzio. I voti questa volta peggiorarono, i professori mi bollarono come scansafatiche. “Potrebbe fare, ma non si applica”, “Non studia”, “Se fa male al ginnasio, figuriamoci al liceo”. Il mio era quello che oggi chiameremmo un mutismo selettivo. Ma per risolvere il problema fui mandata a lezione privata. Il mio professore era di Agrigento, un nonno dolce che seppe comprendermi. Di quelle lezioni ricordo le lunghissime partite a briscola in tre, io, lui e la moglie; e i solitari, me ne insegnò una infinità. Nei lunghi pomeriggi in cui passavo dalle lamentazioni di Ecuba al tresette la mia pronuncia non migliorò, semmai prese una intonazione cantilenante, con qualche impennata improvvisa e la musicalità agrigentina. Ma poi diventò una questione di sopravvivenza: o parlavo come gli altri o rimanevo sola. Dopo un anno le corde vocali si allinearono nella giusta posizione.  Cominciai a parlare uno slang romanesco algido e inelegante, …altro che il daje di Mourinho. Le cento lire le chiamavo piotta, i tasci: coatti; la elle diventò erre, la doppia erre si perse per strada, e guerra diventò guera, e poi bono, catorcio… il cuore, che sempre batteva con preoccupazione, diventò core. E quando ero triste non piangevo, piagnevo. I veri romani se ne accorgevano: “An vedi” dicevano “An senti” e mi snobbavano. Sola ero e sola rimasi. Mi facevano compagnia i libri. Leggevo qualunque cosa avessi a tiro, dalle riviste ai romanzi, ai saggi. Scoprii la beat generation, Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Herman Hesse e l’autobiografia di un yogi di Yogananda che dopo tanti anni è stata ristampata da poco. Qualche libro non superava le maglie della censura familiare, Bukowski lo lessi di nascosto.
Di quel periodo ricordo lo stato di costante tensione del mio corpo. Avevo da una parte la necessità di controllare continuamente la mia pronuncia, perché mai il romanesco mi venne spontaneo, dall’altra il bisogno di tenere sotto controllo il tumulto di emozioni che accompagnavano ogni mio discorso: vergogna, senso di inadeguatezza, paura dell’esclusione. Lo stesso riuscii a diplomarmi e arrivata all’università lavorai con una certa soddisfazione. In un ambiente più aperto le mie vocali non venivano notate. Tirai un sospiro di sollievo. Sospesi in quel periodo le mie letture, non ne avevo il tempo. Terminato il lavoro mi dedicavo alle riviste scientifiche e leggevo in inglese. Scoprii con sorpresa che scrivere di medicina era semplice: premesse, materiali e metodi, analisi e conclusioni.
Quando ho dovuto per motivi personali lasciare la professione medica, ricominciai a leggere con voracità. Di nuovo il vuoto incombeva e i libri erano il modo migliore per riempirlo. E cominciai a scrivere. Ogni sera compilavo lunghe pagine di diario, cercavo in questo modo forse di contenere la mia angoscia. Il risultato fu un piccolo racconto Maria consolazione che arrivò in finale a un concorso indetto da Europa Donna, l’associazione di Veronesi che si occupa di tumori femminili.
Mi costrinsero a leggere il racconto davanti alla giuria e al pubblico. E appena aprii bocca ebbi un sussulto.  La mia voce… era così esitante! Il sussurro della timidezza o il balbettio dell’indecisione. Continuai nella lettura e il tono diventò acuto. La voce era acuminata, si faceva grimaldello per trovare spazio nello spazio intorno, ma suonava stridula e una nota distorta ne accompagnava il fluire, come un amplificatore lanciato a palla in una stanza angusta. Scemò infine in un vibrato di sorpresa e io, sorpresa a mia volta, non riuscivo a farmene una ragione. “Io parlo così?” mi chiesi. Comunque nel silenzio conclusivo, prima che qualcuno annunciasse un altro finalista, rimase nell’aria una questione irrisolta: la mia voce era incongrua rispetto ai miei pensieri. Non vinsi il concorso e perciò la mia convinzione si rafforzò. Se scrivo come parlo, pensai, visto che la mia voce non è abbastanza, anche la mia scrittura sarà insufficiente. Da quel momento cominciai ad ascoltarmi con maggior attenzione. Capitava spesso che, prima di parlare, facessi un respiro profondo nel tentativo di allentare la tensione. E subito le corde vocali, anziché rilassarsi, si irrigidivano. Il flusso dell’aria che dalle basi dei polmoni, sotto la spinta energica dei muscoli, affiorava trionfante, alla laringe si fermava indecisa. Io aspettavo trepida le parole che volevo fossero limpide e tintinnati, e quelle invece frullavano nella gola senza trovare via d’uscita, vorticavano dispettose, sbattevano contro il palato, si imbrigliavano tra le corde. L’impeto finiva per dissolversi e le parole si accompagnavano a un fastidioso tremolizzo.
Il fatto è che la voce è rivelatrice della personalità di ognuno di noi. Possiamo barare e nascondere tante cose, ma la voce non ci permette manipolazioni di sorta. Non è per caso che si utilizza l’impronta vocale come sistema di riconoscimento.
Il mondo del doppiaggio è in questi giorni in subbuglio a causa di una startup canadese che riproduce le caratteristiche vocali di qualunque persona dopo aver analizzato un solo minuto della sua parlata, mettendo in discussioni il concetto di unicità della voce.
Ma tornando alla mia voce, lo sforzo narrativo sembrava aver messo in evidenza dei traumi precedenti. Dovevo fare un viaggio indietro, affrontare una sorta di regressione per trovare il trauma che aveva modificato la mia voce e me la faceva risuonare estranea. Così, non potendo tornare nella pancia della mamma, tornai in Sicilia.
Dovevo riprendere a parlare il dialetto, la lingua della mia infanzia. Le parole affiorarono dopo tanti anni con difficoltà. Il risultato fu comico. Sembravo una di quelle emigrate italo americane che si esprimono in un dialetto cristallizzato all’epoca della partenza. Allora cominciai a scrivere in dialetto. Fu il miracolo. Sentivo i nodi che pian piano si scioglievano e io scrivevo o parlavo, non so mi sembrava un tutt’uno.
Il dialetto scritto aveva colmato lo iato tra cuore e voce.  
Secondo Tomatis: “Perdere la voce della madre è per il feto/neonato, come perdere l’immagine del proprio corpo”. E io avevo perso con il dialetto la voce della mamma e l’immagine di me stessa.
Recuperare il dialetto e saperne scrivere è stato per me ritrovare una voce libera. Oggi, mentre sto parlando, io riconosco questo mio timbro. Certo ci sono nuove censure all’orizzonte e le forme espressive sono in pericolo. Il politicamente corretto sta provando a stravolgere la libertà di espressione. Anche questa volta, il primo segnale me l’ha dato il mio corpo. L’anno scorso si festeggiavano i 100 anni della nascita di Rodari. Tutto il web si era mobilitato per l’occasione. Anche a me era stato chiesto di fare un video leggendo qualcosa di lui. Scelsi una favola al telefono. Mentre registravo mi trovai davanti alla parola “negro”. Il mio corpo sobbalzò infastidito e mi fermai. Che faccio? Mi chiesi, continuo a leggere? Cambio la parola negro in nero? L’ha scritto Gianni Rodari, pensai, la responsabilità è sua e continuai. Ma ero a disagio. Alla fine cambiai testo e lessi un capitolo di C’era due volte il barone Lamberto.
Confesso che ho sempre pensato che la letteratura debba in segnare qualcosa di buono.  E’ in questi giorni in libreria un saggio di Walter Siti Contro l’impegno- riflessioni sul bene in letteratura. Siti stravolge questo assioma e dice: “La letteratura occidentale comincia (libro primo dell’Iliade) con due maschi che litigano per decidere a chi tocca possedere una schiava. Il romanzo moderno (Robinson Crusoe) con un uomo bianco che libera un uomo nero e pensa di tenerlo con sé come suddito, imponendogli un nome che non è il suo e convertendolo alla propria religione…La letteratura gronda di presupposti non condividibili: razzismo, misoginia, omofobia, antisemitismo… Quindi che fare? La preoccupazione principale dei nuovi censori è che la letteratura abbia un impatto dannoso sui lettori.
Una libraia cui il web in questi giorni ha dedicato molta attenzione, ha deciso di non vendere testi razzisti, omofobi e che incitano all’odio. Siamo tutti d’accordo che si tratta di categorie orribili. Ma chi decide se un testo deve essere censurato? La Disney per esempio ha tolto gli Aristogatti dal catalogo per tutti e l’ha riservato al catalogo per gli adulti.  La rappresentazione dei gatti siamesi con tratti caricaturalmente orientali è pericolosa, offensiva. Siti riporta molti esempi dal finale della Carmen, cambiato durante un maggio fiorentino perché evocava un femminicidio, ad Arancia meccanica per la violenza, a Via col vento, poco rispettoso degli afroamericani… Insomma Lolita di Nabokov non si potrà leggere perché parla di un pedofilo, mentre Leggere Lolita a Teheran sì perché allineato con i buoni insegnamento. E cosa ne capiremo se non conosciamo Nabokov?
Il politicamente corretto, anticamera della censura, insidia la libertà dello scrittore, ma anche del singolo cittadino, che, complici i social, si troverà in uno stato di costante accusa.
Siti nel suo saggio non afferma, né nega, piuttosto si interroga. Non sarà che il politicamente corretto possa provocare un danno alla narrazione? E io mi chiedo se la mia voce, a seguito di nuove censure, cambierà ancora. In realtà è a rischio la voce di una intera collettività narrante, che verrà appiattita in un registro artificiale e compiacente, ma privo di forza vitale.
Nell’attesa di trovare una risposta ai dubbi che Siti solleva, mi rassicurano gli apprezzamenti di questo consesso accademico che oggi mi onora di un riconoscimento così prestigioso. Oggi io saldo definitivamente le mie due anime, di scrittrice e medico, e mi sento pacificata. E per questo ringrazio commossa.  

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