In un presente in cui il tempo “si misura in traguardi” (p.33, la trentenne Rita, protagonista di Ma tu ti diverti (Terre di mezzo Editore, Milano 2018) della palermitana Mari Accardi, conduce la sua esistenza in Sicilia, terra familiare ma asfissiante, e la Francia, paese del couchsurfing, che offre un’ospitalità precaria in “zone sconsigliate dai forum di viaggi” (p.114). Rita cerca di destreggiarsi nella vita, seppur con scarsa convinzione, in un procedere per tentativi ed errori immergendosi in nuovi e sbagliati amori e imbattendosi in lavori per cui sente di essere poco tagliata. Attraverso il romanzo, l’autrice affronta il tema della ineguadezza e dell’impossibilità di trovare ubi consistam per i trentenni di oggi, ossia, per quella fetta di società considerata non più così giovane da poter indugiare nella spensieratezza e nella libertà dalle responsabilità, ma neanche percepita come sufficientemente adulta da essere riconosciuta come parte attiva di una comunità e capace di contribuire con le proprie abilità al suo miglioramento. Privati delle fortunate occasioni della generazione precedente a causa di un presente povero di opportunità, i trentenni di oggi, di cui è simbolicamente rappresentante la protagonista, si ritrovano a condurre la vita tra gli alti e i bassi di giornate trascorse a percorrere strade di cui non conoscono l’esito; essi seguono corsi di formazione, frequentano l’Università o inseguono possibilità lavorative senza alcuna certezza del futuro, per finire ad essere considerati degli esperti del nulla, dei “qualcosisti”(p.32):
Durante un colloquio mi avevano chiamato qualcosista(…)Un ragazzo che frequentavo in quel periodo mi assicurava che solo aggiungendo rumore (o qualcosismo) al mio curriculum, e io pensavo che il mio sbaglio, innanzitutto, era che mi circondavo di persone scoraggianti(Ibidem).
Dalla Sicilia alla Francia, Rita si barcamena con simpatica incompetenza in lavori in cui non eccelle, o meglio, non le importa di eccellere. Ed è anche con questa insicurezza, che non è meramente esistenziale, ma generazionale e storica, prima di tutto, che la protagonista vive i rapporti umani, a volte immergendovisi con ingenuità, altre non riuscendo ad abbandonarsi apertamente alla sfera sentimentale, finendo col porre una distanza tra se stessa e le persone. Significativo, al riguardo, è il rapporto con la madre, donna dalla mentalità tradizionale. Entrambe procedono incerte nella vita, la prima per mancanza di convinzione, la seconda per una pressoché inesistente conoscenza del mondo oltre le mura casalinghe. Eppure, tale comune fragilità, che potrebbe unirle in un sentimento di tenerezza e di reciproco accudimento, le mantiene distanti, in uno stato d’imbarazzo e d’incomunicabilità:
Per quasi tutto il viaggio siamo rimaste in silenzio. Quando mi telefonava in Francia mi rimproverava di essere un’ascoltatrice passiva. Adesso eravamo vicine e lei si diceva il rosario (p.85).
Ciò nonostante, la scrittrice riesce a ritrarre la vicenda della protagonista e i suoi legami familiari e amorosi, smorzandone la rigidità grazie al ricorso ad una delicata ironia che si potrebbe definire quale sua cifra stilistica sin dall’incipit del romanzo:
Mia madre parlava a voce bassa per non farsi sentire da mio padre. Non le piaceva che dormissi sui divani degli sconosciuti. Se mi fosse successo qualcosa, si sarebbe ammazzata. Ero a Lione, nel quartiere della Croix-Rousse in un piccolo ristorante dove lo sconosciuto in questione, Bruno, era passato a salutare i suoi amici. Mentre dicevo a mia madre di non preoccuparsi, che Bruno aveva ospitato più di seicento persone e aveva il bollino verde dell’affidabilità, lui stava raccontando di come si era procurato i lividi sulla faccia (p.5).
Ed ancora:
I miei genitori mi giuravano che un tempo erano stati attivi, di avermi portato a Tindari, a Erice, addirittura in campeggio a San vito. Io non ricordavo nulla e immaginarli a montare una tenda mi sembrava fantascienza. Sapevo solo che quando accompagnavo mia madre in via Roma a comprare i gomitoli di lana e di cotone voleva essere lasciata davanti alla porta del negozio; se non vedeva la porta andava nel panico (p.85).
Si nota, dunque, che questa visione ironica non investe solamente il rapporto tra madre e figlia, ma l’intero nucleo familiare, la cui rappresentazione è teneramente comica:
Per lei e mio padre “conoscere qualcuno” era la condizione indispensabile per affrontare qualsiasi cosa, dalla riparazione dell’auto all’acquisto degli occhiali alla toletta del cane. “Conoscere qualcuno” era il criterio con cui si prendevano le decisioni, nonostante mio padre fosse andato in fallimento a causa del nipote e avesse danni irreparabili ai denti curati dall’amico dentista (pp.83-84).
Leggendo il romanzo, riesce difficile non riconoscersi almeno una volta in quell’incedere esistenziale di Rita su tragitti poco sicuri e con passi malfermi, se non quando falsi. Ma il valore della sua storia e il grande pregio di Mari Accardi stanno nel regalare al lettore l’opportunità di trasformare qualsiasi sguardo di autocondanna sui propri inciampi, per rialzarsi e dire a se stessi con clemenza “la vita fa schifo, ma tu divertiti” (p.21).
Melina Mele
