Giu 12

Parliamo di Giuseppina Torregrossa

(di DOMENICA PERRONE)

Laudatio per Giuseppina Torregrossa di Domenica Perrone in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Italianistica (Palermo, Steri, 7 Giugno 2021)

«Sono un medico che vuole conoscere e una scrittrice che vuole raccontare». Con questa autopresentazione  Giuseppina Torregrossa  annuncia ai lettori, in una delle recenti interviste rilasciate a la Repubblica di Palermo,  l’uscita di Al contrario. Il binomio è di quelli che evocano una ricca e feconda tradizione. Francois Rabelais, Anton Cecov, Michail Afanas’evič Bulgàkov, Joseph Cronin, Conan Doyle, Louis Ferdinand Celine, in Europa, Carlo Dossi, Carlo Levi, Dino Buzzati, Mario Tobino, Giuseppe Bonaviri, in Italia. Questi i nomi che affiorano alla memoria immediatamente e altri se ne potrebbero fare.
Medici e scrittori del resto fondano il loro esercizio e il loro impegno sulle relazioni umane. Non a caso da un po’ di tempo si pone sempre più l’accento sull’umanesimo della medicina che oltre ad essere un sapere è un rapporto fra persone, un rapporto fra «colui che cura e colui che è curato».
La professione di medico dunque se forse ha potuto ritardare l’esordio della Torregrossa non ha certo ostacolato la sua vocazione letteraria. Oserei dire anzi che l’ha alimentata. 
«La malattia è esperienza di vita», dichiara la scrittrice sempre nell’intervista a la Repubblica, a rincalzo della scelta di parlare nel suo romanzo, appena pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli, di «una comunità attraverso i suoi malanni». Un tema al quale ha iniziato a lavorare prima che arrivasse la pandemìa e che alla luce della tragica esperienza che tutti ne abbiamo fatto acquista risonanze inaspettate. Ma gli scrittori si sa hanno la capacità di giungere attraverso le vie oblique dell’invenzione al cuore dei problemi del proprio tempo. E in realtà attraverso la vicenda di Giustino Salonia –un «bastian contrario» che scoprirà di essere veramente «fatto al contrario» per un’anomalìa congenita – la scrittrice racconta di una Sicilia sorpresa in un periodo cruciale che va dagli anni Venti agli anni Quaranta.
A Malavacata il dottor Salonia arriva nell’agosto del 1927 con tutte le sue delusioni, fragilità e irrequietezze di uomo, ma anche con un amore per il suo mestiere animato da buoni principi, da giuste convinzioni. «La salute è un diritto, non un privilegio», egli pensa nel ripercorrere con la mente, in preda alla scontentezza, le difficoltà che l’hanno portato ad accettare l’incarico di medico condotto e a vivere fra quell’«ammasso di casupole, sporcizia e miseria». Superate le diffidenze degli abitanti, quel paese gli rivelerà la bellezza del lavoro sul campo e gli farà dimenticare «le sofisticate ricerche fatte all’ospedale di Palermo»,  mentre una folla di personaggi ben presto si farà strada  dando vita a una «saga corale» scandita in due tempi.  Nel tempo degli uomini e nel tempo delle donne si articolano i due blocchi narrativi all’interno dei quali si svolge la fabula ambientata nel paese immaginario dell’agrigentino che i lettori del Cunto delle minne immediatamente riconoscono insieme ad alcuni filoni tematici già presenti proprio in questo romanzo del 2009 che ha decretato il successo internazionale della scrittrice.
I due tempi sono immersi nel crogiuolo della Storia, sebbene la scrittrice nella Nota finale si affretti a fare un’ovvia precisazione:

Sono nata molto dopo il 1927 e mio nonno, uomo di poche parole, non mi ha fatto dono dei suoi ricordi. Perciò invito tutti a non cercare verità storiche, non ce ne sono, se non nei pochi elementi che servono a contestualizzare il racconto. Al contrario veri e universali sono i sentimenti, e questa verità dell’emozione potrebbe trarre in inganno. Ma persone, luoghi e fatti sono frutto della fantasia. Ogni riferimento, come in ogni altro romanzo è del tutto fortuito e nessuno dei personaggi è mai esistito, per lo meno che io sappia.

Tuttavia a scandire, a cadenzare le due parti concorrono i riferimenti della voce narrante allo scorrere della Storia e il rimando ad accadimenti, anche piccoli, che accrescono il senso di verità del romanzo.  A rendere palpabili i «pochi elementi» ammessi dall’autrice ci sono alcuni personaggi il cui carattere si esprime e si definisce anche in rapporto ad essa.
A cominciare da Giustino Salonia che si porta dietro, come eredità della sua famiglia socialista concetti «di giustizia sociale e di equità», ma al cui animo irrequieto e alla cui natura ribelle «il fascismo si appales[a] come una tentazione»: «Quel Mussolini con i suoi discorsi, e il cipiglio da condottiero, gli piaceva molto». Per continuare con il capostazione anarchico Adelasio, che alle prime battute del romanzo si affretta a rintuzzare il giudizio di Ignazio il sensale venuto a prendere il dottore appena arrivato:

«Mussolini ci farà diventare un paese di signuri. Gli zaurdi via tutti, al confino», intervenne a quel punto Ignazio e lanciò uno sputo oltre i binari, ché la bocca gli si era riempita di moscerini.
«Sì, proprio. Ma se è lui il più grande cavernicolo della storia», lo rintuzzò Adelasio, e agitò in aria il braccio con il pugno chiuso.

È per bocca di Adelasio peraltro che vengono ricordati episodi come lo sciopero delle lancette degli operai di Torino o ancora la rivista dei macchinisti della Ferrovia In marcia che Mussolini chiuse nel ’27:

«Taliate». Sulla copertina c’era scritto In marcia. «Mussolini l’ha chiusa nel 27, l’anno che siete arrivato voi in paese. Leggete… Noi ferrovieri ci occupavamo di tutto: condizioni igieniche dei lavoratori, dei dormitori. Questo numero è dedicato alla campagna per le otto ore di lavoro. I macchinisti e i fuochisti facevano anche diciotto ore al giorno sul treno. A Torino sì che mi sentivo vivo. Qua invece c’è il silenzio del cimitero. Ogni tanto mi dà qualche notizia Antonio il fuochista, quello di Portici. Ce l’avete presente?»

E non si può dimenticare il federale don Ettore che, con la sua virilità primitiva e i suoi modi rozzi, viene fatto muovere e agire come una marionetta alla Brancati. Nel dire questo penso naturalmente alla grottesca rappresentazione che lo scrittore del Bell’Antonio dà dei gerarchi fascisti in molte sue opere.
Ma è particolarmente significativo che sia un altro personaggio, Mimì Frangipane, a parlare di guerra civile spagnola e a decideredi andare a battersi per una causa giusta a fianco delle brigate internazionali:

«C’è permesso?» chiese Mimì Frangipane.
«Che fu?» rispose il dottore meravigliato, era la prima volta che si presentava da lui in veste di paziente.
«Niente, dottore, sono venuto a salutarvi.»
«Dove vai?»
L’altro esitò: «Siete capace di tenere un segreto?» Giustino si portò la mano sulla parte sinistra del petto per giurare; poi si ricordò che il suo cuore era a destra e lesto la spostò.
«In Spagna.»
«Ma c’è la guerra.»
«Appunto.»
«Ti hanno richiamato?»
«Nonsi, parto volontario.»
«Cu i fascisti?» Giustino non riusciva a credere alle sue orecchie.
«Nonsi, brigate internazionali, battaglione Garibaldi.»
«La guerra è già persa. I nazionalisti hanno quasi vinto.»
«Dutturi, una discussione politica ora non la posso fare. La testa però mi fa dire che non devo rimanere qua».

Mimì è un uomo che è in sintonia con madre natura, con i suoi segreti. E’ lui il contadino che, a differenza dei «professori della cattedra ambulante di agraria», sa come si cura la terra, che sa amarla come una donna:

«Dottore la terra è viva. Perciò bisogna curarla se è malata, darci le cose che ci abbisognano. Fimmina è. E va trattata con il rispetto che si deve alle fimmine. Taliassi ddà.» Mimì indicò le spighe, si muovevano sinuose come odalische. «Taliasse, parono ballerine». A ogni folata il colore di quello che pareva un mare verde cambiava tonalità, da smeraldo diventava cupo e scuro come un sottobosco umido. «Sono l’unico che ha frumento», continuò il contadino.

E poco prima che tutti partano per la guerra si vedranno i frutti di questo legame, di questa intesa fra uomo e natura, la terrà lo compenserà con i suoi generosi doni:

Il podere di Mimì era carico che pareva una colata di oro fuso, spruzzato di una sfumatura di grigio, si sa che i metalli preziosi non sono completamente puri (…)
La pila di spighe torreggiava sull’aia. La trebbiatrice meccanica, un mostro rosso fiammante di proprietà della famiglia Schininà, arrivò tra le urla di fatica dei braccianti e quelle di gioia delle donne. Le fascine venivano lanciate sul nastro e sbattute meccanicamente; ai lati si accumulavano i chicchi, la pula e la paglia in mucchi separati. All’alba l’opera fu completa e si apparecchiò per far festa.
Arrivarono pentoloni fumanti di pasta al ragù, polli e anatre arrosto, grandi frittate, vino, aspro e cattivo, ma capace di dare ebbrezza. Il patto di fiducia tra gli uomini e la terra si era rinnovato.

Saranno allora le donne di Malavacata a raccogliere il testimone di questo patto di fiducia e a inaugurare, dalla posizione marginale in cui sono state a lungo confinate, un nuovo tempo opposto a quello degli uomini che «al contrario» hanno prodotto la guerra. Sono loro a portare avanti un inedito programma di resilienza.
A tale avvicendamento corrispondono due diverse focalizzazioni: quella maschile, degli anni del fascismo che precedono la guerra, e quella femminile che progetta la riparazione.
Così la storia anche nel suo manifestarsi sghembo si rivela una riserva preziosa per nuove invenzioni, offre chiavi per capire anche il presente e lanciare nuove sfide.
La Torregrossa vi trova linfa per imbastire il suo racconto e spiegare attraverso di essa i drammi sociali, i sentimenti, descrivere le emozioni degli uomini che li vivono. E ciò nella convinzione che la «letteratura è militanza» e ha «la forza di farsi grimaldello». Un postulato questo che è  tutt’uno con la scelta della scrittrice di scommettere sul genere romanzo. Un genere che ha mostrato di saper declinare con una scrittura materica e un’irresistibile carica affabulatoria.
Apparsa sulla scena letteraria nel 2007, con la pubblicazione presso Rubbettino, del romanzo L’Assaggiatrice, la scrittrice, che ha esercitato la professione di ginecologa impegnandosi in azioni di rilevante valenza sociale, rivendica orgogliosamente la sua predilezione per un racconto trascinante, capace di garantire il piacere della lettura. «Non sono una scrittrice sono una cuntastorie» ha dichiarato più volte.
Un’indimenticabile «cuntastorie» è la nonna del Conto delle minne (Mondadori 2009)che narra, mentre prepara i dolci (ovvero le minne di Sant’Agata) la leggenda della Santa catanese alla nipotina che ha il suo stesso nome. Il suo modo di raccontare è senza dubbio la rappresentazione di un modello narrativo, un’immagine esemplare in cui si specchia la pagina avvincentedella scrittrice palermitana. Lu cuntu avi li pedi recita il titolo del prologo in due capitoli, che introduce il vero e proprio romanzo, a sottolineare che il ‘cuntu’ cammina, passa di bocca in bocca, insomma affonda le radici nella tradizione orale di cui le donne, sono le prime e fedeli depositarie. Ed è altrettanto significativo che la nonna trovi in tutto quel che fa un’occasione per raccontare soprattutto di donne che hanno subito le sopraffazioni degli uomini. Come accade per esempio già a inizio romanzo, quando, mentre cammina con la piccola Agatina in prossimità dello Steri,  la nonna ricorda uno dei graffiti ivi lasciati da una donna condannata per stregoneria sciogliendolo subito in racconto pedagogico:

«Cauru e friddu sintu, ca mi pigghia la terzuri, tremu li vudella, lu cori e l’alma s’assuttiglia… Agatì, così si lamentava Maricchia, una povera madre di famiglia che era stata accusata di essere una strega. Intanto il monaco della buona morte si avvicinava alla cella suonando una campanella din din din. E lo sai chi l’aveva denunciata?» La nonna non si aspettava certo che io rispondessi, ma ugualmente faceva una pausa. In quell’attimo di sospensione mi lambiccavo il cervello e involontariamente rallentavo il passo. Lei mi tirava delicatamente per la mano: «Ma suo marito! Quello c’aveva una più giovane e siccome non sapeva come liberarsi della moglie che s’era fatta vecchia… vabbè queste cose è meglio che te le spiego quando sarai più grande».

Ma momento memorabile è senza dubbio la sorprendente drammatizzazione del ‘cunto’ che, con tutte le cadenze dell’oralità, intercala, durante la preparazione del rituale dolce dedicato a Sant’Agata, la leggenda del suo martirio con bizzarri ammonimenti e lezioni di vita:

«Insomma Agatina, anche se ora non lo capisci, ricordati che come ti metti metti gli uomini hanno sempre una calunnia per pigliarsela cu’ tia» e intanto, con la scusa di preparare la glassa, la nonna mescolava zucchero e limone con violenti colpi. La frusta di alluminio pareva dovesse piegarsi da un momento all’altro sotto le spinte rabbiose di nonna Agata, che proprio non digeriva l’onta che la sua santa preferita aveva dovuto subire.

Parole e gesti quotidiani si mescolano, come si vede, alla rievocazione dell’orgogliosa affermazione dell’eroina che si oppone alla violenza del governatore Quinziano: «Io sono nobile perché sono vicina a Cristo, l’unico padrone che riconosco»
‘Cunti’, dunque, che parlano di donne che resistono alla violenza, cercano la libertà, prendono consapevolezza di sé, della propria identità.
E non sono le donne, come leggiamo nella pagina finale del romanzo, che «possiedono il segreto della vita, che tessono pazientemente giorno dopo giorno le storie delle loro famiglie e poi le raccontano agli altri per farne tesoro»?
Coerente con questa convinzione la scrittrice sin dal suo esordio ha affidato  ad esse la propria voce, le ha chiamate a un protagonismo anticonvenzionale che tuttavia rivendica, afferma le profonde, antiche ragioni della vita e per questo propone un’irrinunciabile ecologia umana e ambientale. Ecco perché a venirci incontro per prima con passo di danza tra ricette della cucina siciliana e risveglio dei sensi è Anciluzza colei che decide, dopo l’abbandono del marito, di riappropriarsi del proprio corpo, di ‘assaggiare’ fino in fondo la vita:

Quando ho un uomo che mi guarda, mi aggiro nella cucina come su un palcoscenico, i miei gesti sono calcolati, rallentati; ogni movimento è un invito, una promessa; non parlo, le parole rappresentano un ostacolo. Lascio che il corpo si abbandoni all’arte culinaria […] Sono con lui, su di lui, sotto di lui, vicino, senza aver fatto nessun passo, ma solo grazie al cibo, un ponte teso tra me e lui.

Presentatasi ai lettori, con l’approdo liberatorio di questo personaggio, la Torregrossa mostrava nello stesso tempo di saper addentrarsi nelle pieghe oscure di un rapporto madre-figlio difficile e doloroso con la pièce teatrale Adele che ha ottenuto il premio Roma Donne e teatro, ed è stata pubblicata, nel 2008 da Borgia editore e nel 2012 da Nottetempo.
Un mondo questo declinato al femminile che però naturalmente non esclude l’universo maschile del quale pur denunciandone in molti casi il ruolo di sopraffazione non viene data una rappresentazione unilaterale. Ne è prova la presenza nel romanzo Manna e miele, ferro e fuoco (pubblicato da Mondadori nel 2012) di figure di straordinaria umanità come il mannaloro Alfonso, un contadino timorato di Dio e dotato di una profonda saggezza che sa vivere in armonia con la natura rispettandone i segreti e il delicato equilibrio. Non è un caso che Tanuzzu il figlio irrequieto e ribelle ricordi alla sorella Romilda (l’eroina del romanzo) che la «libertà è il vero lusso di un uomo».
Nel privilegiamento di unprotagonismo femminile,infatti, è all’eterno scontro tra servo e padrone, tra dominato e dominatore che rinvia in definitiva la pagina della Torregrossa. E il rapporto uomo-donna, soprattutto nelle società in cui vige un antico sistema patriarcale, si configura come un ulteriore esempio di tale conflitto.
Ma è in virtù del diverso modo di conoscere delle donne che il romanzo piega a tratti in direzione della fiaba, della saga popolare consentendo alla scrittrice di agganciare in modo originale la propria invenzione alla Storia.
Il romanzo è ambientato in Sicilia, nelle Madonie, tra Ganci, Castelbuono e Cefalù, dal 1857 alla fine del secolo (con una puntata indietro a fine Settecento, per quanto riguarda la biografia del Barone di Ventimiglia, un’appendice ai primi del Novecento e un breve accenno al 2010)
Le vicende dei protagonisti si intrecciano quindi con i nodi importanti del Risorgimento italiano e dell’Unità nazionale. Il che vuol dire evocare grandi e straordinari precedenti della nostra letteratura come i Vicerè e Il Gattopardo, opere che sul tema risorgimentale hanno imbastito la loro potente controstoria.
La Torregrossa che le ama entrambe ha trovato però un modo tutto suo di tornare a parlare criticamente dell’unità nazionale, attraverso la piccola vicenda dei suoi personaggi.  
Il sacrificio della libertà della giovanissima Romilda, attraverso un matrimonio con il vecchio barone può divenire così metafora di un’altra difficile unione.
Ma le disarmonie della grande Storia come delle piccole storie, sembra suggerirci la scrittrice, potrebbero risolversi se solo si riuscisse a sentire il battito profondo della natura, se l’uomo riuscisse a trovare in essa la misura del suo agire.
La vera rivoluzione si può realizzare cioè se riusciamo a recuperare saperi antichi, a conciliare antico e moderno. Perciò Romilda, dopo tante dolorose peripezie riuscirà a sanare le sue ferite tornando in mezzo ai frassini del bosco a continuare il mestiere paterno del potatore. E nell’abbraccio della natura anche il sesso, l’eros di cui il romanzo è pervaso, potranno finalmente essere vissuti dalla protagonista con pienezza e totale abbandono.
Nell’arco di pochi anni la Torregrossa dimostra dunque di avere una sorprendente capacità di scrittura e di essere dotata di una voce e una pronuncia inconfondibili cui danno colore e musica gli innesti del dialetto. 
Tra il 2011 e il 2012 la scrittrice regala ai suoi lettori divenuti sempre più numerosi due pubblicazioni. All’impegno compositivo di Manna e miele, ferro e fuoco infatti si unisce la scrittura di Panza e prisenza (Mondadori  2012) che inaugura la serie poliziesca  di Marò Paino, la vicequestora che, parallelamente al collega Sasà D’Alessandro impegnato in un’altra ricerca, indaga in una Palermo assolata sull’omicidio dell’avvocato Maddaloni avvenuto alla viglia della festa di Santa Rosalia. L’approdo al giallo conferma la versatilità narrativa e la ricchezza della tastiera della scrittrice palermitana che rimodula, nella forma del racconto poliziesco, motivi a lei cari fra i quali non può mancare quello del cibo (qui esaltato dalle ricette della tradizione culinaria siciliana).
All’aroma di caffè e all’insegna dei pronostici di Viola, la bella moglie di Orlando madre di Genziana si svolge intanto il romanzo La miscela segreta di casa Olivares (Mondadori 2014) su cui incomberà presto, provocando inediti percorsi di maturazione, la catastrofe della seconda guerra mondiale. Ad  esso si affianca nello stesso anno il diario di viaggioA Santiago con Celeste (Nottetempo 2014) che racconta le tappe del pellegrinaggio fatto da Roma verso la città spagnola con tanto di compostela finale che lo documenta. Un pellegrinaggio in compagnia dell’amica Celeste che è soprattutto un’esperienza di relazione, dall’iniziale «insofferenza all’accoglienza», ma è anche in conclusione una ricomposizione della propria topografia interiore. Dopo aver macinato chilometri e chilometri è al mare di Scopello, al chilometro 0 dell’anima che l’autrice trova la risposta al suo camminare:

Il mio mare è caldo è rassicurante, come un vecchio amore. Non respinge e non ghermisce ma accoglie. Sguazzo senza affaticarmi. Mi lascio cullare: Il dolore dei muscoli si scioglie. Perdo la sensazione di estraneità e riprendo possesso del mio corpo. Chiudo gli occhi, è così bello sentirsi finalmente a casa.
La risposta che aspettavo me la dà il mare: Sì vale sempre la pena di fare un cammino, anche se imperfetto, perché sono tornata esattamente dove voglio stare, nei miei luoghi pieni di ricordi, nella terra a cui appartengo e che mi appartiene, tra quegli irrinunciabili affetti che mi hanno riportata a casa.

Questa salutare esperienza diaristica – che dà conto di un momento di insoddisfazione, sfiorato dall’angoscia, della scrittrice sovrastata dai suoi personaggi e dalle sue invenzioni- costituisce un interessante esercizio che libera nuove energie come attesta la pubblicazione un anno dopo del romanzo Il figlio maschio. Una tappa importante del suo percorso narrativo che viene messo pour cause, attraverso una significativa epigrafe, sotto l’insegna di Leonardo Sciascia. Ad essere composta, sempre con una scrittura materica e sensuale attenta al linguaggio del corpo che trova linfa vitale nel dialetto, questa volta è una bella e originale pagina della vita culturale siciliana iniziata a Palermo, a piazza Bologni, per l’intraprendenza di Filippo Ciuni e di sua sorella Concettina, vera e propria coprotagonista del romanzo.  È lei infatti a coltivare, pur avendo conseguito solo la quinta elementare, un’autentica passione per i libri, nei quali cerca «soprattutto vita nuova da vivere».
E Passione è il titolo della prima delle tre parti del romanzo, la seconda delle quali è intitolata Destino e la terza enigmaticamente L’azzardo.
Dalla «passione» per i libri prende dunque il via la narrazione che procede per quadri al cui centro ogni volta si staglia un personaggio diverso legato a un luogo e a una data. La fabula avanza cronologicamente dall’agosto del 1924 al febbraio del 2005. Si compone così, in un arco temporale di circa ottant’anni, la saga memorabile di una famiglia di librai editori che prende il via a Palermo. L’arte del racconto si misura, in questo caso, con alcuni fatti realmente accaduti. A mettere sull’avviso il lettore c’è l’epigrafe tratta dal Candido di Leonardo Sciascia, il quale fa peraltro capolino qua e là nel romanzo con la sua proverbiale generosa attenzione per l’editoria siciliana:

Noi siamo quel che facciamo. Le intenzioni, specialmente se buone, e i rimorsi, specialmente se giusti, ognuno, dentro di sé, può giocarseli come vuole, fino alla disintegrazione, alla follìa. Ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario.  

Il frammento è quello in cui si riferiscono i pensieri che il protagonista svolge dopo aver troppo ragionato con don Antonio sull’abbandono di Paola.
Nella nota finale la Torregrossa lo commenterà per spiegare la natura del suo romanzo: ci sono persone esistite e fatti accaduti che in esso vengono narrati, ma sua esclusiva prerogativa sono proprio «le intenzioni, i rimorsi, i sentimenti», che Candido Munafò aveva scartato per comprendere quanto gli era accaduto appellandosi alla fine solo alla verità dei corpi: «È l’anima che mente, non il corpo». Cosa che la scrittrice palermitana sa tanto bene da  risolvere appunto la dicotomia tra fatti e sentimenti facendo del corpo un elemento cardine della sua narrazione come dimostra quel suo modo unico di costruire la fisicità dei personaggi. Basti come esempio il primo piano di Concetta Russo, la madre di Filippo e Concettina, che sorride compiaciuta mentre spazzola i folti capelli: «La sua chioma, con il passare degli anni, non si era diradata né imbiancata, aveva di che vantarsi».
Tra Sommatino, Palermo, Caltanissetta, Catania si dispiega poi la fabula che ha come iniziale attore Filippo Ciuni, figlio di Turi Ciuni proprietario del Feudo di Testasecca e di Concetta cugina di Luigi Russo. Il celebre critico letterario appare come protagonista nel secondo quadro narrativo assumendo il ruolo di promotore, propiziatore degli eventi futuri con la proposta di far lavorare Filippo come rappresentante per l’editore Vallecchi. Filippo, dopo aver messo su una bancarella con la sorella, Concettina, per vendere libri, a Palermo, a piazza Bologni, apre a Piazza Verdi, una libreria che diventerà una vera e propria fucina dell’editoria siciliana (Giovan Battista Palumbo, Salvatore Sciascia, Fausto Flaccovio si formeranno alla sua scuola) e la cui attività continuerà, attraverso la sorella, a fruttificare altrove quando alla fine questa passerà il testimone al figlio  Vito Cavallotto. Ma sarà poi il destino (Destino è il titolo della seconda parte) ad assegnare alle donne il compito di continuare il lavoro avviato dai maschi della famiglia. Da un doloroso accadimento provocato dall’inesorabile minaccia sociale della mafia inizierà infatti la straordinaria avventura che vedrà un formidabile gruppo femminile protagonista di una sofferta e tuttavia non arresa esperienza di ricostruzione e rinascita.
Attraverso il genere romanzo la Torregrossa compone in questo modo affreschi familiari che sono anche spaccati sociali senza mai venir meno alla sfida di un’affabulazione trascinante che la colloca nella linea vincente dell’amato Camilleri. Come confermano i romanzi successivi Cortile nostalgia, Rizzoli 2017; Il basilico di palazzo Galletti, Mondadori 2018; Il sanguinaccio dell’Immacolata, Mondadori 2019 (che sin dai titoli esibiscono anche un particolare protagonismo dei luoghi) e l’ultimo, notevole, Al contrario, da cui ha preso avvio questa Laudatio. Romanzi impuri che vanno dalla saga al giallo al racconto erotico mescolando autobiografismo e invenzione, tensione civile e sensibilità ambientale in una felice ibridazione di linguaggi, idiomi, intonazioni ironiche, umoristiche e puntate liriche che si inscrive in una ricca tradizione.
Nel 2015, l’editore Rizzoli presso cui la Torregrossa stava pubblicando Il figlio maschio le chiedeva (e a ragione!) di scrivere una postfazione per la pubblicazione, nella collana La Scala, del racconto La targa  di Camilleri uscito per la prima volta in allegato al Corriere della sera. Nella nota, che accompagna con altrettanto umorismo quello irresistibile dell’autore, la scrittrice dichiarando in modo esplicito un debito verso di lui spiega alcuni nodi della propria scrittura che come è naturale rinviano inevitabilmente al vissuto.  E’ alla personale esperienza di vita che viene fatta risalire la capitale esigenza di trovare una voce autentica che si intoni con le ragioni profonde del cuore. Sarà il «caro maestro» (così appunto lo apostrofa la scrittrice rivolgendoglisi in forma epistolare!) a ricondurla alla lingua del cuore tanto osteggiata negli anni del liceo romano:

Quannu vossia diventò famoso, il siciliano vinni di moda e io potti finalmenti grapiri la vucca e a masciddi spiegati gridai «ora facemu i cunta» e ricominciai  a parlare siciliano, la lingua del cuore, lassannu l’italiano pi’ li pinseri e li ragiunamenti.
Perciò Vossìa non è solo maistro pi’ mia, ma quasi patri picchì m’insignò la strata, quella giusta ca purtava gritto al cuore.

La strada che porta «gritto al cuore», naturalmente porta anche dritto alla Sicilia e a Palermo, la città in cui Giuseppina Torregrossa è nata e in cui sempre ritorna con i suoi viaggi reali e i suoi viaggi immaginari e che dà verità alla sua invenzione come dichiara per esempio nella Nota a Cortile nostalgia: «In questo nuovo romanzo la verità è nell’amore che io nutro per Palermo, città che palpita e freme come una donna appassionata». Una città aggiungiamo noi che a partire dagli anni Novanta del secolo scorso rivela un inedita vitalità letteraria portando a frutto fermenti maturati con particolare vivacità negli anni Cinquanta. Basti pensare al caso esemplare del Gattopardo, che lungi dall’essere un episodio isolato fa emergere invece, insieme alla particolare esperienza appartata di Tomasi di Lampedusa, quella di scrittori dalla pronuncia originale come Antonio Pizzuto e Angelo Fiore cui si unirà ben presto la presenza, di lì a poco, di Leonardo Sciascia e della sua lucida e ineguagliabile investigazione del presente.
A questo variegato e produttivo retroterra culturale della città è senza dubbio da ricondurre la sorprendente esuberanza di scritture manifestatasi in questi ultimi trent’anni, che ne continuano a offrire un racconto plurale fra tradizione e innovazione. E in esso va senza dubbio collocata l’esuberanza inventiva, la singolare esperienza intellettuale di Giuseppina Torregrossa.

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