Lug 22

“Riccardino”, un metaromanzo ricco di trovate geniali

(di ANTONIO DI GRADO)

Ha mantenuto la promessa, l’ha onorata nel modo migliore. L’aveva annunziato da tempo, che con la sua scomparsa sarebbe scomparso Montalbano. E quel romanzo definitivo lo tenevano nel cassetto, da Sellerio. Eccolo, dunque, “Riccardino”.

Ma la mia non è una recensione. È solo il resoconto d’una lettura coinvolta, che da un’iniziale delusione è via via transitata verso un consenso ammirato e commosso. Andrea lo conobbi quando non era stato ancora consacrato dalla fama: era a Catania per firmare la regia d’un “L’uomo la bestia e la virtù”, e lo incontrai a cena dalla cara Mariella Lo Giudice. Mi si rivelò (inutile dirlo) persona amabilissima, addirittura vulcanica. Ma forse stanca del proprio mestiere. Aveva scritto, sì, ma senza successo. Quand’ecco che ci capitò tra le mani quel fenomenale, esilarante Birraio di Preston: e fu una scoperta travolgente, fu la scoperta d’uno Sciascia riscritto, e felicemente stravolto, da un Rabelais o da uno Sterne, da un Dossi o da un Gadda; fu la scoperta d’una vena aurifera fino a quel momento sepolta e tanto più dai nostri scrittori siciliani, quasi sempre attardati a elaborare il lutto per la perdita della casa del nespolo.

Quale vena? Quella d’un franco, smagliante, irrefrenabile umorismo; d’una rivisitazione della nostra storia non più querimoniosa ma sardonica, irriverente: che non vuol dire, come parve a qualcuno, rinunzia all’analisi critica ma lettura di quei fatti e misfatti altrettanto polemica e tuttavia più irridente che accorata, più ariostesca che da Inferno dantesco.

Proposi quel Birraio alla giuria del Premio Vittorini (che a Siracusa rinasce – felice coincidenza – proprio nei giorni dell’uscita di Riccardino) e Camilleri fu premiato. Poi venne Montalbano, e il successo assunse dimensioni galattiche: da allora, dovunque io vada a parlare dei nostri scrittori, da Stoccolma a Città del Messico, alle mie proposte (De Roberto, Brancati, Vittorini, Sciascia) si risponde seccamente: Camilleri, vogliamo Camilleri. Vogliamo Montalbano.

Ma dicevo, nella mia avventura di lettore, d’una iniziale delusione. Ma come, il solito Montalbano? Ancora questioni di corna, di “femmine” vogliose e maschi insaziabili? Ancora Catarella che sbatte rumorosamente la porta, ancora Fazio che si rivolge al commissario con un “vossia” più obsoleto dello ius primae noctis, ancora quelle intemperanze gastronomiche – anzi “lupigne” – che a leggerle ti fanno invidiare i digiuni di Pannella? E invece…

E invece scopriamo che da tempo, a nostra insaputa, quel furbo d’un commissario passava le sue imprese a “n’autore locali”, che ne ricavava romanzi di successo e ancor più fortunati sceneggiati televisivi, nei quali campeggiava un Montalbano aitante e piacente, brillante e ingegnoso al punto da far soffrire il “vero” Montalbano, quello in carne ed ossa, d’un mortificante complesso di inadeguatezza e, addirittura, d’una “camurria di sdoppiamento”. E già, perché il vero Montalbano, un Montalbano (per dirla con Soriano) “triste y solitario y final”, si è invece decisamente stancato e a quest’ultima inchiesta si dedica malvolentieri (“Vossia non mi persuade. Mi pare cangiato” gli confessa Fazio).

E così Camilleri scrive mentre Montalbano indaga; si contestano e correggono a vicenda; altercano e si tendono sleali tranelli, in un meta-romanzo ricco di trovate geniali, con un Montalbano stremato dalla lotta col suo “doppio” televisivo e un Camilleri palesemente infastidito da una critica che ancora lo relega nel limbo della scrittura “di genere”, e di intrattenimento. Si è fatto il nome fin troppo ovvio, lanciando il libro, di Pirandello; e si sa quanto Camilleri amasse il grande suo conterraneo: ma anche da questa ipoteca l’autore di “Riccardino” andrebbe liberato, per quanto è lontano dal sofistico rovello e dal nichilismo ontologico pirandelliani.

Tante, si diceva, le trovate, tante le “mosse del cavallo” in questo romanzo che è frutto d’una felicità inventiva, narrativa, linguistica che non ha altari da onorare, né icone da intitolare a un Pirandello o a un Brancati o uno Sciascia pur ben assimilati. Tra queste invenzioni, come non segnalare l’intelligentissima scaramuccia, travestita da intervista giornalistica, tra il vescovo e il commissario? O la trovata che conclude, anzi estingue (non voglio dir altro) il romanzo e ci congeda da Montalbano? Una trovata, quest’ultima, non più esilarante ma anzi amara e perfino – da parte dell’autore – autocritica, e perciò compassionevole nei confronti di quel personaggio che tanto gli ha dato.

Ma c’è e come, un Camilleri “diverso” e anzi drammatico: solo che è nascosto, e Andrea lo rivelò solo agli amici, inviandoci anni fa l’edizione clandestina d’un bellissimo “Parla, ti ascolto”, inibito al pubblico per non scontentarlo, per non contraddire e deludere una ricezione finora serena e incoraggiante dell’opera del vecchio veggente.
Quello era il vero testamento dello scrittore Camilleri, come “Il cavaliere e la morte” lo fu di Sciascia. E non a caso all’amato Sciascia, a tanti finali delle sue detective-stories, rimandano (ripeto: non dirò altro) il finale di “Riccardino” e il commiato di Montalbano.

C’è solo da augurarsi che le disposizioni del Maestro ne autorizzino la libera circolazione. Ma… fiat voluntas sua.

Dal quotidiano “La Sicilia” del 19/07/2020.

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