(di CRISTIANO GIGLIO)
Presentato nel 1995 nella Sala degli Specchi del Teatro Valle a Reggio Emilia, Woobinda sembra rispondere a quella, tanto attesa, fuga dal grigiore della lingua letteraria che, due anni dopo nel primo e ultimo numero della rivista La Bestia, Nanni Balestrini saluterà entusiasticamente:
Non più schiavi del fascino dei mass-media e delle merci, delle tecnologie e delle subculture, i giovani scrittori si appropriano disinvoltamente dei loro linguaggi e li utilizzano come semplici materiali verbali per rappresentazioni grottesche, ironiche, tenere e feroci. Forse grazie a loro, per la prima volta nella sua storia, la narrativa italiana si avvia a disporre di una lingua in grado di parlare immediatamente a un pubblico grande e molteplice, senza la pretesa di elevarlo al sublime (Nanni Balestrini, La Bestia, cit., p. 7).
La centralità tematica attribuita al mondo delle merci è palesata già nella struttura stessa della raccolta: i racconti sono divisi in gruppi di cinque o sei, ciascuno dei capitoli è denominato Lotto, seguito dal numero in successione progressiva. Non più di sei racconti per un totale di otto Lotti. I protagonisti raccontano in prima persona di esperienze che li hanno coinvolti come consumatori e spettatori televisivi. Le voci narranti di Woobinda appartengono, di volta in volta, ad una tipologia di personaggio che Giulio Ferroni ha definito “umano-subumano” (Giulio Ferroni, Storia e testi della letteratura italiana. Verso una civiltà planetaria (1968-2005), cit., p. 554). Sono personaggi irrimediabilmente devastati dall’azzeramento culturale, che portano alle estreme conseguenze l’immaginario massmediatico. La fascinazione per il marchio, ammantato di pathos dalla comunicazione pubblicitaria, è il motivo centrale del racconto più celebre della silloge: Il bagnoschiuma. “Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal. […] ma io uso Vidal e voglio che tutti in casa usino Vidal” (Aldo Nove, Il bagnoschiuma in Superwoobinda, Einaudi, Torino 1998, p. 7), è l’incipit che apre significativamente l’opera. Qui la merce fa il suo ingresso non con la semplice denominazione dell’oggetto, bensì con il suo marchio. La marca del prodotto è eletta a valore assoluto nell’immaginario deviato del protagonista, una mitizzazione tale da legittimare l’omicidio: “Provatevi voi a essere colpiti negli ideali” (ibidem), asserisce il protagonista prima di raccontare le dinamiche dell’azione omicida. Non mancano nello stesso racconto i riferimenti ad altri oggetti di consumo, tutti elencati dal protagonista con le rispettive marche: il supermercato Esselunga, i biscotti Mulino Bianco, la carta igienica Scottex. Seppur prive di quella portata ideologica assegnata al bagnoschiuma Vidal, le marche sono imprescindibili dall’universo domestico raccontato dal giovane omicida.
Il racconto I Programmi dell’Accesso è un evidente atto d’accusa al mezzo televisivo, responsabile dell’alienazione mentale dello spettatore e degli atti omicidi ai quali è indotto. Il protagonista Andrea Garano si qualifica al lettore riferendo il proprio nome ed età nell’incipit del racconto, in maniera conforme a tutti gli altri protagonisti di Woobinda, e subito dopo informa sul proprio status di consumatore asserendo: “possiedo uno stereo” (Aldo Nove, I Programmi dell’Accesso in Superwoobinda, cit., p. 42). Già dalle prime righe è palesata una totale identificazione del protagonista con le merci in suo possesso. La rivendicazione del possesso, lungi dal porre Andrea in una posizione di superiorità e dominio sui beni di consumo di cui usufruisce, è la premessa alle estreme conseguenze di quel processo di identificazione che lo renderà succube e vittima dei programmi televisivi.
La mia mente è malata perché i Programmi dell’Accesso ci sono entrati dentro […] Perché quando do fuoco alla porta della mia vicina di casa non sono responsabile di averle bruciato giù tutto. A impormi di comportarmi così sono gli uomini che parlano della tubature delle fogne che ci sono In Pakistan durante i Programmi dell’Accesso (ibidem).
Il potere coercitivo delle immagini televisive diventa l’alibi che giustifica le azioni vandaliche. Ma da quanto viene riferito dallo stesso Andrea sul contenuto dei programmi televisivi sotto accusa, si tratta di messaggi che in nessun modo evocano azioni violente. Vengono annoverati i più disparati esempi di approfondimento televisivo: interrogazioni parlamentari, lotta alla sclerosi multipla, diritti delle lavoratrici statali. A ben vedere, tutti contenuti che qualificherebbero trasmissioni di tipo educativo e informativo. L’autore si serve consapevolmente di questo paradosso per svelare gli effetti devastanti di una comunicazione che solo apparentemente si presenta come innocente. Il contenuto dei programmi in sé è irrilevante, quel che pone in evidenza il racconto è la confusione di messaggi eterogenei, senza alcuna gerarchia, senza alcun nesso logico, generati tutti da quell’unico calderone denominato Programmi dell’Accesso. Se è facile riconoscere nel titolo stesso Programmi, volutamente al plurale, un riferimento alla totalità della programmazione televisiva, il complemento dell’Accesso, rimane di ambigua decifrazione. La confusione generata dai programmi televisivi si riverbera nella mente del protagonista, che come un automa transcodifica voci e immagini in moniti a compiere delitti. Ai programmi televisivi Andrea si riferisce utilizzando la maiuscola, come a sottolineare un timore reverenziale, ma non manca di sottolineare l’assurdità di questa miscellanea surreale:
Ho anche provato a cambiare televisione ma trasmettono sempre allo stesso modo i Programmi […]. Quando cammino per strada nessuno mi guarda e inizia a parlare della sclerosi multipla tra i bambini che hanno meno di sei anni, nessuno si presenta dicendo che è membro di una bocciofila torinese che si interessa anche di ragazzi emarginati della società. Questo succede solo quando ci sono i Programmi dell’Accesso (Aldo Nove, I Programmi dall’Accesso in Superwoobinda, cit., p. 43).
Seppur in grado di ammettere l’insensatezza generata dai Programmi dell’Accesso, che affiancano con nonchalance bocciofili e sclerosi multipla, Andrea non riesce a privarsi della loro visione. La teleutenza è descritta come un rituale religioso che prepara la mente del giovane protagonista ad azioni violente: “Io li ascolto fino a che inizio ad ondeggiare come una canna di bambù avanti e indietro sul tappeto […] e allora la musica che ho detto continua a sentirsi nella parte centrale del mio cervello mi spinge a uscire di casa a commettere degli omicidi” (ibidem). Quanto emerge da questo breve racconto non è unicamente un’implicita accusa al mezzo televisivo, reo di produrre immagini di una realtà dominata dal non senso in grado di alterare le percezioni di una psiche fragile come quella del nostro protagonista. L’Accesso a cui il titolo fa riferimento può essere letto come metafora di quel codice espressivo standardizzato di cui la televisione si serve. Un linguaggio impoverito, fatto di slogan, di parole che si accavallano troppo velocemente sullo schermo per lasciare un segno apprezzabile nella mente del telespettatore. Tommaso Ottonieri, uno dei primi critici ad essersi approcciato all’opera di Nove, nel suo saggio La plastica della lingua identifica l’Accesso come metafora di “quella zona di comunicazione dove tutto può farsi televisione, lei stessa si fa tutto, surrogato di società reale” (Tommaso Ottonieri, La plastica nella lingua, cit., p. 58). Un codice espressivo le cui ripercussioni sul telespettatore generano afasia: Andrea narra delle sue azioni con un vaneggiamento speculare a quel vuoto che l’Accesso, così come inteso da Ottonieri, produce. Un deficit linguistico oltre che cognitivo. Si realizza quel che il critico teorizza come la plastica della lingua:
Così la plastica della lingua è: Inespressivismo. Grado-zero della comunicazione che rende tutto così immediatamente accessibile a tutti, anche l’Accesso. Ma anche, questo inespressivismo è Deterioramento. La sintassi così standard che risuona in questo spazio ha qualcosa di malfunzionante e pure di letale, che dice la sua appartenenza al presente vero e ottuso in cui le merci hanno occupato tutto lo spazio (Aldo Nove, I Programmi dell’Accesso, cit., p. 61).
Nove in questo racconto affronta il tema del trionfo delle merci non solo nell’immaginario collettivo ma anche, a livello più profondo, nel linguaggio di chi ne usufruisce. Se risultano utili le interpretazioni critiche di Ottonieri riguardo l’Accesso e le sue ripercussioni nelle (mancate) modalità espressive del protagonista, non mancano all’interno del testo stesso termini carichi di valore metaforico, la cui individuazione rende leggibile l’epilogo del racconto che ad una prima lettura può risultare criptico. Così Andrea conclude la propria narrazione:
Prendo la lametta da barba mi taglio le mani ascolto il presentatore che mi dice di stare ad ascoltare quelle parole come nei dischi dei Black Sabbath rovesciate per farmi esplodere il cervello per arrivare a un’esplosione tale che non c’è altro che sangue che scorre dai canali della televisione e dalle mie mani (ivi., pp. 43-44).
Il sangue che sgorga dal televisore sono le stesse parole del presentatore, che nella mente del protagonista gli impongono atti autolesionisti, l’osmosi tra corpo e schermo è tale da provocare una deflagrazione simultanea: l’azione cruenta coinvolge entrambi perché subdolamente provocata, in prima istanza, dalle parole trasmesse dallo schermo prima ancora che da Andrea. Il canale, metaforicamente inteso come strumento che convoglia e instrada il flusso delle parole, viene a coincidere con quello che si è definito come l’Accesso. Dal corpo di Andrea sgorga così lo stesso codice espressivo che scorre dal canale. Ma non c’è parità tra il ragazzo e l’Accesso: Andrea rimane succube e vittima di quel linguaggio che mima.
In altri racconti le merci e la televisione hanno un valore gratificante e consolatorio per i protagonisti. Nel racconto I Protagonisti si alternano brevi racconti a più voci, elencati uno di seguito all’altro. I narratori non sono spettatori passivi dei programmi televisivi sono protagonisti, o meglio, si illudono d’essere protagonisti del programma dall’omonimo titolo. Nel racconto non viene mai specificato in che modo gli spettatori diventano soggetti attivi dall’altra parte dello schermo: i sei protagonisti si limitano ad indicare l’orario di inizio del programma televisivo e a descrivere come l’attesa del suo inizio susciti un’eccitazione tale che ogni accenno alla loro vita, prima delle fatidiche 19, è carico di disprezzo. Ambiguità intenzionalmente adoperata dall’autore che affronta il motivo dell’interscambiabilità tra realtà e finzione generata dal mezzo televisivo. Ad aprire la rassegna di entusiasti spettatori, elevati al ruolo di intrattenitori televisivi, è Matteo:
Fino a poche settimane fa la mia vita scorreva come qualcosa di estraneo. Per questo andavo male all’università. Per questo non riuscivo a trovare una ragazza. Ora guardo sempre Protagonisti. Va in onda ogni giorno alle 19. Pubblico che ti guarda e nient’altro. […] Protagonisti è il vettore attraverso il quale ogni giorno il mio successo si incunea nel cuore delle gente (Aldo Nove, I Protagonisti in Superwoobinda, cit., p. 127).
L’utente televisivo ha la possibilità di capovolgere le parti: lo spettatore diventa spettacolo. Matteo si dichiara appagato dalla presenza di un pubblico che “guarda e nient’altro”, dall’essere oggetto del voyeurismo di spettatori anonimi, può così lasciarsi alla spalle un recente passato di insoddisfazioni sentimentali e lavorative. Di seguito leggiamo come Protagonisti sia responsabile del rinnovato spirito patriottico di Monica:
Protagonisti mi ha fatto riconciliare con l’Italia. […] Colgo gli sguardi del pubblico l’attenzione che a me sola è data. Capisco che non devo più andarmene perché solo in Italia ci sono programmi così (ivi, pp. 127-128).
L’approvazione del pubblico garantisce riscatto sociale anche a chi esibisce comportamenti ritenuti moralmente sanzionabili al di fuori dell’arena televisiva. È il caso di Ignazio, elettricista segretamente omosessuale con la passione per il travestitismo:
Guardo la gente che mi guarda e mi sento donna, sono la francesca dellera del mio palazzo sono quello che non posso mai essere che realmente sono mi tocco. Tocco i miei fianchi ancheggio. Una marea di applausi mi travolge (ivi, p. 129).
Gli applausi posticci, provocati a comando negli studi televisivi, danno così l’illusione di una uguaglianza sociale che accetta ed elogia ogni devianza all’interno del palco riservato ai Protagonisti. La sicurezza che i personaggi ostentano fieramente rivela da un lato l’effetto placebo che una certa spettacolarizzazione televisiva perpetua nell’immaginario collettivo, dall’altro il procedimento antifrastico che sottende l’intera opera di Nove. I Protagonisti sono l’archetipo, seppur grottescamente enfatizzato, di un individuo sopraffatto dal mondo dello spettacolo che ha appiattito la propria coscienza sugli stereotipi di felicità e benessere che il buonismo di certa programmazione televisiva perpetua. Nove, mettendo in scena personaggi i cui desideri si modellano sulla realtà illusoria del mezzo televisivo, rielabora e assimila un dibattito sociologico che considera il mezzo televisivo come lo strumento privilegiato per l’elaborazione ideologica dei processi di creazione del consenso che caratterizzano gli ultimi decenni del Novecento. Fulvio Senardi, nel suo saggio dedicato allo scrittore di Woobinda, suggerisce che l’elaborazione del tematica della invasività del mezzo televisivo e delle merci, poggi su un sostrato di riflessioni sociologiche e filosofiche che hanno preceduto il suo esordio editoriale:
Ponendo l’accento sugli aspetti antropologici dell’età televisiva , gli giunge utile Baudrillard e quella galassia di riflessioni suscitate da La società dello spettacolo di Guy Debord. […] Il punto di vista da cui Nove “descrive” la realtà è tutt’altro che culturalmente disarmato, si nutre anzi di un plancton di spunti critico-polemici la cui provenienza va dettagliatamente esplicitata se non vogliamo lasciarci sfuggire l’amplio ventaglio di implicazioni morali ed intellettuali di Woobinda (Fulvio Senardi, Aldo Nove, Fiesole, Cadmo, 2005, pp. 25-28).
Alle riflessioni condivisibili di Fulvio Senardi, in merito ai dibattiti di natura socio-antropologica, si può aggiungere che a soli quattro anni di distanza dalla pubblicazione di Woobinda, No Logo (Cfr. Naomi Klein, No Logo: economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini & Castoldi (trad. it. Equa Trading e Serena Borgo), 2001), il saggio della giornalista canadese Naomi Klein incentrato sulle strategie del capitalismo atte a potenziare il potere attrattivo delle merci mediante il marchio, diventerà non solo il testo manifesto del movimento anti globalizzazione, ma anche un bestseller in tutto l’occidente. Segno che le riflessioni sulle subdole macchinazioni di chi gestisce la produzione e la vendita di beni di consumo sono da tempo radicate nelle coscienza di ogni individuo mediamente informato. Non stupisce allora che lo stesso No Logo sia diventato a pochi mesi della sua pubblicazione un libro cult, alla stregua di quegli stessi marchi che aborrisce, così come il profetico Nove è stato etichettato con Woobinda nel novero degli autori cult degli anni Novanta.
