Come Pinocchio, che un bel giorno si sveglia accorgendosi di non essere più un burattino di legno, ma un bimbo in carne e ossa, così Andrea Camilleri, autore di polizieschi e di romanzi storici, col suo nuovo libro da oggi in uscita, Maruzza Musumeci (Sellerio 2007), abbandona paradigmi indiziari e documenti (anche se spesso apocrifi), per inoltrarsi, almeno apparentemente, nel sentiero tortuoso della letteratura fantastica. Prima infatti che su questo suo nuovo romanzo, “le metamorfosi” di Ovidio e di Apuleio, due delle fonti principali della letteratura italiana di tutti i tempi, hanno direttamente agito sul padre del commissario Montalbano, il quale, all’età di ottantadue anni, ha deciso ancora una volta di cambiare pelle.
E dunque, per venire alla materia dell’opera in questione, dopo l’archeologa inglese gobba che si trasforma in ninfa tra i templi d’Agrigento, come narra Guido Gozzano nel suo racconto intitolato Alcina, ci si imbatte ora, nelle pagine di questo Camilleri metamorfico (di cui da poco ha visto la luce per i tipi di Mondadori Voi non sapete, il libro sui pizzini di Bernardo Provenzano), in una sirena particolarissima, guarda caso in contrada Ninfa, nella solita Vigàta, tra il 1895 e il 1943.
Sirena che ha alle spalle, come giustamente mette in rilievo Salvatore Silvano Nigro nella bandella di copertina, La verità sul caso Motta di Mario Soldati e Lighea, il bellissimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in cui un giorno, all’ellenista Rosario La Ciura che declama i versi degli antichi poeti, appare dalle acque del mare di Sicilia una bellissima sirena, Lighea appunto, figlia di Calliope. Ma ci sarebbero anche il messinese Giovanni Alfredo Cesareo, che in alcune sue pagine descrive una sirena “mezza ignuda”, “bella e severa come una dea greca di marmo” che sta su una conchiglia fiorita, e l’avanguardista Filippo Tomasi Marinetti, il quale però non fa emergere dalle acque la sua creatura, come accade invece nelle pagine di Lampedusa, ma se la crea lui stesso per demiurgica volontà mediterranea, facendo il bagno a Capri.
Al centro della storia raccontata da Camilleri, del suo “cunto” (un cunto multiplo, dotato di forza genetica, un po’ come accade nelle Mille e una notte) ci sta Gnazio Manisco, che torna nel suo paese originario, Vigàta, dopo venticinque anni trascorsi in America. Nel fazzoletto che gelosamente nasconde, c’è un bel gruzzolo di soldi coi quali vuole acquistare un po’ di terra e coltivarla: di piante e alberi se ne intende parecchio, avendo fatto il bracciante e il giardiniere. Gli si presenta un giorno l’occasione: le dieci salme di contrada Ninfa. Con due aggravanti, però: che il mare circonda quella lingua di terra da tre lati (“Contrata Ninfa è diversa, nun è né terra né mari”; “I piscatori e i marinari dicino che contrata Ninfa galleggia supra il mari e che sutta c’è sulo acqua”) e che il proprietario precedente, Cicco Alletto, è uscito di senno per avervi sentito un lamento. Gnazio Manisco ha infatti per l’acqua salata una vera e propria repulsione, una sorta di atavica paura, ma alla fine si decide: la terra è sua. La assaggia palmo a palmo (“A ogni passo si calava, pigliava ’na pizzicata di terra tra il pollice e l’indice e se la mittiva supra la lingua sintennone il sapore”), ne estirpa le erbacce, per piantarvi alberi, verdura e frutta. Passano gli anni nel frattempo, e Gnazio Manisco rimane scapolo.
In America, nonostante le profferte di vicine e amiche eccessivamente premurose, non volle prender moglie: lui, anti-ulisside per antonomasia, aveva un’idea fissa in testa: tornare definitivamente in Sicilia. Della presenza così vicina e minacciosa del mare, in contrada Ninfa, il protagonista del romanzo se ne fa pian piano una ragione, soprattutto quando conosce la Maruzza del titolo, che invece senz’acqua non può campare. Maruzza è una ragazza dalla bellezza ammaliante, ma ha una stranezza, che a Gnazio confida la gnà Pina, un’anziana donna “giarna comu la morti” e “sicca” che conosce le proprietà taumaturgiche delle erbe e che, all’uopo, combina matrimoni. Maruzza infatti si crede d’essere un pesce. “Un pisci?!” chiede Gnazio sbigottito: “Pisci pisci, no”, risponde la gnà Pina. “’Na sirena”. Gnazio non sa cosa sia una sirena, e allora la gnà Pina glielo spiega:
È una vestia marina. La parti di supra, fino al viddrico, è di femmina cu dù beddri minne, la parti di sutta è a cuda di pisci. Infatti la sirena non pò caminare, ma nata.
A Maruzza basta abitare vicino al mare: nei giorni in cui pensa di essere sirena, si immerge nell’acqua salata, per una sorta di irresistibile pulsione biologica. Gnazio è titubante, non sa che fare: ma non appena la gnà Pina gli mostra la foto di Maruzza, le perplessità svaniscono d’un tratto. “La vogliu”, dice senza mezzi termini. Si predispone dunque tutto per l’incontro: lui rimane folgorato.
La sua bellezza lo immobilizza in tutti i sensi, visto che Gnazio rimane immobile, sul ciglio della strada, in preda a una specie di colpo della strega. Saranno le conseguenze dello strapazzo per il duro lavoro dei campi, pensa lui: ma forse è il primo, inquietante, segnale di qualcosa di perturbante e diabolico. Ma fino a un certo punto, le pagine di Camilleri non presentano incrinature della realtà: non ci sono botole che inopinatamente si aprono e che immettono in una dimensione misterica. C’è l’oggettività del racconto, lambita ogni tanto da dicerie apparentemente farneticanti, da sospetti spiazzanti.
A poco a poco però la situazione precipita: Maruzza si reca in casa di Gnazio in compagnia della nonna quasi centenaria: creatura sinistra e demoniaca, dalla voce sinuosa. La sua epifania dà la stura a tutta una congerie di fatti strani, anche se non inspiegabili. Sparizioni, morti sospette, allusioni inquietanti. Viene celebrato un matrimonio notturno (viene alla mente un certo Landolfi), che anticipa le nozze canoniche. Il rito che prende forma mette in confusione il povero Gnazio. Il quale, però, riesce a obliterare le sue preoccupazioni, procurate dalla condotta poco ortodossa della moglie (la quale, tra le altre cose strane che fa, ciclicamente si immerge in due cisterne, ogni qual volta si sente sirena), in forza di una irresistibile attrazione per Maruzza, il cui corpo, levigato come quello di una statua, lo mette in scacco.
A questo proposito, la presenza della sirena potrebbe subliminalmente esprimere la pulsione inconscia del desiderio sessuale. Ma lasciamo il campo minato della psicanalisi, per inoltrarci invece in quello del mito: Camilleri infatti in certe occasioni fa parlare in greco antico Maruzza e sua nonna, e qua e là inserisce riferimenti, allusioni all’Odissea, in cui le sirene, com’è noto, vengono sconfitte dallo scaltro Ulisse, incatenato all’albero maestro. Hanno dunque da vendicarsi, queste creature terrestri e acquatiche insieme. E lo fanno, uccidendo prima un certo Aulissi Dimare (nomen omen direbbero i latini), e poi facendone scomparire il figlio, colpevole di assomigliare troppo al padre: almeno così pare di capire.
Si vendicano, dunque, le terribili sirene, ma sanno anche amare irresistibilmente, soprattutto se l’uomo in questione è Gnazio Manisco, che di ulissiaco non ha un bel niente. La vita matrimoniale scorre via felice, corredata dalla nascita di tanti figli. Le stranezze non finiscono, certo, ma il protagonista del romanzo oramai non si impressiona più. Peccato però che gli eventi della Storia, con l’avvento del Fascismo e la guerra, mettono in scacco la favola di Gnazio e Maruzza: una favola che fa incontrare terra, mare e cielo. Che assembla mitologia e astronomia, verità (l’apparizione a Vigàta di persone vestite con la camicia nera col distintivo del teschio, che tengono in mano un manganello e che si salutano alzando il braccio) e finzione (la casa di Gnazio che ispira Walter Gropius).
Come spiega lo stesso Camilleri nella nota conclusiva, alla base di tutto ci sta la storia del contadino che sposa una sirena, raccontatagli quand’era bambino dal mezzadro del nonno. Quella favola, dunque, passata al setaccio di una lingua sempre più implicata nel dialetto, e di una fantasia sempre meno imbrigliabile, ha partorito questo romanzo, di certo il più struggente e poetico di Andrea Camilleri.
novembre 2007
