Mag 25

Senzaterra di Evelina Santangelo

Fuori il paese è immerso in una cappa d’afa. Anche le grandi foglie del ficus al centro della villa comunale paiono imbalsamate, tanti grossi pipistrelli verdi aggrappati ai rami. (p.17) 

Gaetano corre sull’ultimo tratto d’asfalto, fratturato e innervato d’erbe infestanti che neanche la frescura della sera riesce più a rianimare. Sente il paese incombergli alle spalle – un blocco riarso di cemento e sassi – , poi disperdersi nel paesaggio che pian piano gli s’allarga intorno a perdita d’occhio.[…] Guarda il rudere del monastero in cima alla scarpata, come sorretto dall’ammasso stesso di sterpi e rovi aggrappati alla roccia.[…] Guarda il paese, una modesta chiazza grigia di case cieche incuneate tra terra e cielo, e come abbandonate là, sotto quella distesa rosata. […] Guarda quell’occhio rosato e vitreo spalancato sulla volta in rovina. […]
-Chi russu…- mormora zia Concetta, seduta vicino alla finestra aperta contro un cielo fiammato, irreale. Sofferma lo sguardo sui silos che irrompono azzurri tra i tetti delle case nuove, sui cubi grigi di eternit mimetizzati tra le tegole, nell’ammasso informe delle case vecchie. […] Poi s’incanta a osservare l’orizzonte, la sagoma monca del Calvario appena toccata dal sole che sbuca da un angolo in basso, il profilo nero della croce conficcato nel cielo e come segato in segmenti esatti dai cavi dell’elettricità. (pp.44-45) 

Vanno, uno dietro l’altro, trascinando i piedi sullo sterrato come avessero sassi alle caviglie. In una mano, un piccolo sacchetto di plastica con dentro una bottiglia d’acqua che dondola, nell’altra un cartoccio bruno, color terra. Sei sagome d’uomini che paiono ancora più sottili nella luce arancio-violacea del tramonto. Il sole alle spalle, che s’inabissa sulla striscia di mare all’orizzonte in un uniforme crepuscolo. Procedono in silenzio lungo una distesa di serre, una geografia esatta di capanni di plastica che divorano etti di terra.[…] Alì si gira, affonda lo sguardo tra i profili scuri dei campi che s’impennano in colli ripidi, si spezzano in creste frastagliate a picco su parvenze di mare, declinano morbidi verso l’ultimo stentato chiarore del cielo. (pp.82-83) 

Ruotando piano la maniglia della porta a vetri, esce sulla terrazza. Abbassa gli occhi verso il caotico ammasso di tetti e cavi volanti e pensiline abusive, punteggiato di cisterne bluastre e grigie. Ne scorge una abbandonata proprio sotto la terrazza, su una copertura, qualche metro più in là: il bordo sfilacciato, le maglie d’amianto ridotte a una ragnatela inerte. – Eternit beviamo, – mormora a fior di labbra. Poi allunga lo sguardo verso il profilo nero del Calvario che si staglia in lontananza e incombe come un grosso dente aguzzo, sconciato in cima da un focolaio di carie. – Ma che terra è? Che paese è? Che gente siamo? – (p.94)

C’è un chiarore che pare levarsi direttamente dal mare e infiltrarsi sotto il velo d’umidità che confonde il profilo dell’orizzonte, quando Gaetano torna a sollevare la testa, i capelli aggrovigliati sulla fronte, impastati di salsedine, la stoffa della camicia appiccicata alle braccia e alla schiena. […] Si fa lo stradone del lungomare, tra bancarelle ricoperte di teli cerati, col motore al minimo, alzando di tanto in tanto gli occhi alle decorazioni di luce sospese tra i pali come improbabili scheletri o fossili rimasti intrappolati in uno sputo d’aria. Anche il paese, con le sue strade deserte e cave, sembra una cosa lasciata lì a vegetare da chissà quanto tempo, se non fosse per quei lampioni d’acciaio stilizzati con quelle ali smaltate bianche che paiono uno sberleffo stampato nel cielo. (p.129) 

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