Set 21

“L’amante inglese” di Leda Melluso

(di VINCENZA D’AGATI)

La forma del romanzo storico assai frequentemente corre il rischio di esautorarsi e di configurarsi, all’interno del multiforme genere romanzesco, come “la più antica difficile del mondo” a causa di taluni pregiudizi che ruotano intorno alla sua ricezione di ampio consumo, soprattutto quando ci si imbatte in tentativi maldestri di accostarsi ad una realtà storica il più delle volte fraintesa se non addirittura falsificata.
Ben diverso è invece il caso del romanzo L’amante inglese di Leda Melluso, un’autrice recentemente approdata alla scrittura romanzesca dopo una lunga e – mi permetto di aggiungere – ricca esperienza di insegnamento in un noto liceo palermitano, non senza la pubblicazione di alcuni manuali scolastici.

Il suo scrupolo documentario, già ben ravvisabile nel precedente romanzo, La ragazza dal volto d’ambra, è testimoniato dalla nota conclusiva nella quale la scrittrice, oltre a rivelare l’identità dei personaggi di pura invenzione e a far luce su alcuni aneddoti narrati, non esita a fornire la precisa indicazione bibliografica delle fonti e dei saggi utilizzati per la ricostruzione del quadro storico. E certamente tali frequentazioni di carattere storiografico – alle quali si congiungono svariate sollecitazioni letterarie – offrono alla vena creativa della Melluso innumerevoli opportunità di invenzione narrativa.

Non a caso, accanto alle biografie dell’ammiraglio Nelson e della Hamilton, l’amante inglese messa in rilievo sin dal titolo, fanno la loro interessante comparsa anche l’epistolario della regina Maria Carolina contenente il carteggio con la diplomatica inglese, due testi di Michele Palmieri di Miccichè, che risulta pure gustosamente inserito tra i personaggi del romanzo, e soprattutto l’ampio affresco palermitano del Pitrè, l’infaticabile osservatore degli usi e costumi della Sicilia di un tempo.
Una simile premessa è inevitabile per comprendere al meglio l’essenza – a tratti frivola, cinica, dissoluta e crudele  –  della casta nobiliare descritta con solerte cura dall’autrice. Non si tratta soltanto (e qui mi avvalgo, seppur con parsimonia, di una terminologia manzoniana) del ricorso a quell’interessante utilizzato come mezzo per far leva sugli avidi lettori, poiché i fatti e molti degli aneddoti descritti, anche quelli apparentemente più bizzarri o scabrosi, trovano spesso la loro attestazione nei libri che Leda Melluso generosamente addita tra le fonti consultate. E ad esse si aggiungono, come accennavo, certe suggestioni letterarie dei personaggi stessi, come i riferimenti al Rousseau e agli imprevedibili effetti collaterali del suo romanzo epistolare sulle fanciulle del tempo, ma anche il culto tributato al Goethe e al suo Viaggio in Italia più volte citato, per non parlare di altre svariate reminiscenze meno esibite ma non meno evidenti.

Andando ad indagare la struttura del romanzo, particolarmente riuscita è la scelta di un ritmo narrativo che riesce a tenere desta l’attenzione dei lettori grazie ad un vivace entrelacement, in virtù del quale le vicende dei numerosi personaggi scorrono in modo fluido e avvincente – a tratti parallelamente e a tratti incrociandosi – per poi interrompersi, di capitolo in capitolo, proprio nel momento in cui la tensione è all’acme.

Inoltre, accanto ad un’estrema varietas di temi e di toni, assai ricco appare il sistema dei personaggi, all’interno del quale lady Emma Hamilton occupa una posizione parzialmente egemonica in virtù dello strapotere che riesce ad esercitare grazie al suo innato fascino, arrivando ad adombrare la figura dell’ammiraglio Nelson, ridotto ad un suo pallido satellite, e ad entrare prepotentemente nelle grazie di Maria Carolina d’Asburgo, una donna cinica e dedita ai piaceri.
Ma spiccano pure altri personaggi, come l’intrepida Virginia, quasi una co-protagonista, un’eroina moderna e animata da un sempre più forte impulso vitalistico, che riesce a sottrarsi al destino della monacazione forzata e ad affermarsi come donna attraverso una Bildung ricca di peripezie. E accanto a lei c’è poi Blasco, un personaggio che già a partire dal nome e per svariate suggestioni sembra voler rievocare certe pagine de I Beati Paoli di Luigi Natoli (e non a caso si addentrerà persino nel loro leggendario covo). Egli è un cadetto dalle idee riformiste che tenta di realizzare una più equa ridistribuzione delle ricchezze tra i vari ceti operando all’interno di un gruppo rivoluzionario che ruba agli aristocratici per donare ai più poveri. Tuttavia è soprattutto colui che con lungimiranza avverte i profondi mutamenti sociali in atto, divenendo il portavoce privilegiato della stessa autrice allorché profetizza la futura e travagliata conquista della libertà da parte delle donne:

“Sì, è proprio così. Il nostro mondo, Virginia, è incrinato, pronto a sgretolarsi al primo impatto con nuove idee. Del resto, anche voi gli state sferrando un colpo potente, uno dei tanti che cambieranno la condizione della donna nel corso dei secoli. Secoli, sì, non vi stupite, ci vorrà molto ma molto tempo prima che la donna comprenda il valore della libertà personale. Verrà però un giorno in cui le donne non permetteranno più agli uomini di occuparsi dei loro sentimenti così come fanno con il loro denaro”.  [p. 149]

Non passano inosservati, poi, quei personaggi invischiati in delle situazioni felicemente comiche, come Peter Kamp, un giovane e raffinato ambasciatore austriaco perdutamente appassionato di Goethe, che trovandosi a Palermo per una missione diplomatica si imbatte in un’esilarante escalation di disavventure, ricalcate quasi sulla falsariga di quelle di Andreuccio da Perugia, con tanto di ripetuti furti, aggressioni, immersioni nel concime e persino una fuga rocambolesca per sfuggire all’assalto lascivo dei Turchi. Ad intensificarne il potenziale comico delle peripezie vissute è l’atteggiamento del giovane, costantemente incerto tra l’ossequio ad una raffinata quanto impraticabile educazione letteraria, acquisita presso la corte viennese, e alcuni irresistibili richiami della natura – anch’essi riconducibili ad un edonismo di matrice boccacciana – che vengono inaspettatamente risvegliati dall’aria malsana del quartiere della Kalsa.
Altrettanto ben riuscito è il personaggio del principe Cosimo di Vallelunga, dedito all’astrologia, all’ipnosi e agli esperimenti portati avanti in quegli anni da Franz Anton Mesmer. Egli è ingenuamente fiducioso di poter “riacquistare la salute” della moglie malata attraverso tali pratiche. Successivamente i risultati dei suoi studi vengono progressivamente smantellati dalle insubordinazioni della figlia Virginia, più sensibile ai richiami dell’amore che ad un destino di badessa della Magione, e dal voluttuoso attacco della regina Maria Carolina. Il suo sguardo costantemente rivolto alle stelle, oltre a far sorridere i lettori, sembra essere una parodica deformazione – e verrebbe da chiedersi se consapevolmente perseguita dall’autrice – della passione astronomica di un altro ben noto principe siciliano, don Fabrizio Corbera di Salina.

Tuttavia, giunti a questo punto, mi pare doveroso puntualizzare, a scanso di eventuali equivoci, che accanto agli elementi più gustosamente umoristici non mancano in questo romanzo le grandi tragedie della storia, ben attestate nel corso di una vicenda che si snoda, pur tra frequenti digressioni, tra il dicembre 1798 e l’agosto 1799, in un periodo segnato tanto da violente rivolte popolari quanto da sanguinarie repressioni nobiliari.

E un ultimo breve appunto merita pure la topografia del romanzo con i suoi scanditi andirivieni, sulla scia dei movimenti dei sovrani, tra Napoli-Palermo-Napoli e con alcune ulteriori propaggini. Tra queste mi piace concludere soffermandomi sulla visita di Orazio Nelson ed Emma Hamilton a Villa Palagonia, a Bagheria. All’interno di questa suggestiva cornice, definita “un luogo bizzarro come nessun altro al mondo” e descritta attraverso alcuni espliciti riferimenti – ai limiti di un voluto citazionismo – al Goethe, i due intraprendono la loro illecita e tanto discussa relazione adulterina. Ma non solo. Sollecitato dagli infiniti capricci della “villa dei Mostri”, l’ammiraglio Nelson azzarda qui una sua originale riflessione eziologica intorno alle origini di un simile gusto per il deforme, cogliendone la genesi primaria nella paura della morte che attanaglia gli uomini:

“Forse questi mostri non sono altro che le angosce che tormentano noi mortali. Che cosa sono le nostre paure se non mostri contro cui combattiamo notte e giorno? Paura dell’aldilà, del nulla eterno, della sofferenza fisica, della fine a cui tutti siamo destinati. Più la natura è rigogliosa più forte è la sensazione del nulla eterno. La bellezza della campagna, lo splendore della luce, il profumo dei fiori, tutto qui evoca inevitabilmente la morte…” [pp. 111-112]

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