(di CLAUDIA RUGGIA)
“E ora dammi le parole” (p. 5): con questa invocazione si apre la protasi di Memoria del vuoto, ultimo romanzo del sardo Marcello Fois che, con questo testo, si propone come cantore delle vicende del bandito Samuele Stocchino, suo conterraneo.
Si tratta di un incipit fortemente suggestivo che introduce a una lettura elaborata del testo, dove a toni elevati ed eleganti si combinano inflessioni e registri tratti dalla quotidianità del mondo pastorale rappresentato e dall’uso del dialetto sardo che non viene mai tradotto, nemmeno in nota, in italiano.
La trasposizione romanzata della vita di un uomo sardo qualunque – benché sia rimasto nella memoria della gente come una sorta di eroe – viene fuori dalla penna di Fois come una narrazione che va oltre la semplice biografia e assume, per molti versi, le caratteristiche stilistiche e le forme di una particolare tragedia.
Questa scelta di genere viene messa in risalto sin dalla lettura dell’indice che dà un’indicazione grafica importante dell’essenza stessa del libro: diviso in cinque parti e altrettanti attacchi, l’autore mette in scena la vita di Stocchino come una rappresentazione teatrale con tanto di coro che con ritmo spezzato e assai musicale eleva le sue voci all’unisono, e di corifeo che si rivolge direttamente al lettore-spettatore riflettendo sul valore dell’uomo, attore e maschera fissa che recita la sua parte nel teatro della vita.
Difatti, se quello che emerge da questa scrittura è una strategia teatrale, l’alternarsi di diversi registri fa pensare a una tragicommedia, intesa alla maniera plautina, ovvero “una commedia con un misto di tragedia”, come dichiara il Mercurio dell’Anfitrione.
Proprio le divinità intervengono direttamente nelle vicende umane di questo pezzo di Sardegna dei primi del Novecento e tessono i fili dell’esistenza di Samuele Stocchino, come se si trattasse di una vita già scritta che si rivela con una serie di segni e di premonizioni che non lasciano quasi spazio al libero arbitrio.
Le pagine sono pervase da riferimenti biblici che conferiscono un tono alto e creano un’atmosfera languida – che, in qualche modo, contrasta con l’aspetto ruvido dell’ambientazione – come nella scena dell’apparizione della Madonna alla madre di Samuele, a cui predice la gravidanza di un figlio difficile. Essa le parla con estrema dolcezza e con la comprensione di chi ha vissuto umanamente il dolore, come di “spade che trafiggono”, richiamando alla mente un passo tratto dal Vangelo di Luca (2,34):
Io ci sono, dice la Vergine, e fra l’immenso numero delle anime imploranti ho scelto proprio te, Leporeddu Antioca in Stocchino. E ti ho scelto per dirti che ancora tre spade ti trafigeranno. E per dirti che questo figlio che porti in grembo sarà il tuo penare e il tuo gioire (p. 29).
L’autore, inoltre, in maniera originale e toccante, rende saldo il legame tra le due madri facendo pronunciare a Maria frasi in lingua sarda, sottolineando in tal modo la vicinanza tra due esperienze di vita penose e ugualmente faticose:
Creaturedda iscaminada / in su bentu ‘e su destinu, / a ti torrare in caminu / deo pro custu so falada, recita la Vergine che, perennemente infiammata dalla Pentecoste, sa parlare tutti i linguaggi parlabili (p. 29).
Dio, poi, agisce direttamente nella storia: è lui che consegna agli esseri umani un cuore particolare, segnando il destino di ciascuno, in particolare quello di Samuele Stocchino fatto di solitudine e vendetta: il suo è un cuore a forma di testa di lupo, quello spigoloso degli assassini, come rivela Anníca Tola che ha il dono di leggere dentro la gente:
Dio sparge i cuori a forma di testa di lupo, di scimmia, di pesce dentro ai petti di certi umani, perché sono cuori senza scelta, col destino scritto. Delinquente, pazzo, minorato. Così a tutti gli altri, quelli che hanno il cuore a forma di pugno, risulta chiaro quanto fortunati siano a poter scegliere. Poi a qualcuno Nostrusegnore gli dà la maledizione del cuore a forma di brocca che è quello peggiore di tutti, quello che raccoglie e versa, quello che contiene ma non può star chiuso (p. 39).
Samuele, dunque, è un predestinato. Già dall’età di sette anni, durante la notte di Santu Sebaste, la sua vita viene segnata dal rifiuto di un sorso d’acqua, a lui e al padre, durante il cammino. Questo torto viene vissuto come l’origine di una rottura insanabile: il padre lascerà incisa con uno scarpone una “S”, proprio sul terreno antistante l’uscio della casa del bottaio che aveva rifiutato di aprire la porta ai due viandanti. Questo segno rappresenta il marchio indelebile del destino di solitudine, rabbia e vendetta del protagonista che culminerà nella notte dell’eccidio del 20 gennaio 1920, in cui verrà brutalmente massacrata la famiglia dello stesso bottaio.
La vicenda di Stocchino e le sue gesta vengono rilette da Fois alla luce della descrizione di momenti significativi della sua vita in particolare di quelli in cui era bambino e poi ragazzo. Molti degli episodi che appartengono all’infanzia e all’adolescenza del protagonista, infatti, non risultano essere altro che figura di ciò che accadrà nella fase matura della sua esistenza, come se ogni avvenimento rivelasse, come una premonizione, eventi successivi.
È il caso, ad esempio, dell’episodio della caduta dal cielo dell’agnello, segno interpretato, dal mondo agreste che circonda il bambino, in maniera negativa e considerato presagio di morte, come quella del padre di Luigi Crisponi, amico di Samuele. Lo stesso segnale, ovvero la caduta di brandelli di agnelli scoppiati a seguito di una bomba, sarà poi in una fase successiva della sua vita un avvertimento di morte dello stesso Luigi, che il protagonista incontrerà in maniera casuale tanti anni dopo:
Certo che esplosioni ne ha viste, e ha visto anche corpi solidi dissolversi durante il volo, ma non ha mai assistito all’avverarsi di un segnale. Mai ha pensato che nel corso furioso degli avvenimenti potesse esserci tempo per una replica, per un memento. È questo a spaventarlo (p. 115).
I segni e le premonizioni fanno, dunque, da cornice alla narrazione e avvolgono la storia di Samuele Stocchino in una dimensione leggendaria che lo rende un eroe soprannaturale capace di sfuggire la morte in maniera prodigiosa e di guardarla in faccia con la freddezza di uno spietato assassino.
Egli partecipa giovanissimo alla guerra di Libia, dove impara ad uccidere accogliendo i nemici con la baionetta come in un grande abbraccio, e alla Grande Guerra, durante la quale conosce la dura esperienza della trincea. Lì indurisce il proprio carattere, ormai pronto alla grande vendetta ad Arzana, contro tutti coloro i quali tentano di mettersi contro di lui e la sua famiglia.
Stocchino passa così dalla figura dell’eroe di guerra, orgoglio della Nazione, a quella del latitante sulla cui testa il Duce pone la taglia più alta, mai fissata per un ricercato. Nell’esercito Samuele è un piccolo sardo che combatte per una Patria che – come avviene per tanti altri soldatini isolani che parlano una lingua incomprensibile ai continentali a tal punto da sembrare silenzio – quasi non riconosce e sente estranea rispetto alla situazione storica e politica della propria terra:
– Ma a noi, – insiste lui, – che eravamo diventati italiani chi cazzo ce l’ha detto, eh?
Che la cosa non fa molto piacere da sentirsi dire, ma c’ha la sua verità:
– Bella cosa, – conferma Mariani di Orune, – fare i cani da guardia in terra arzena dopo che si è ceduta la propria terra.
Ma a Samuele questi discorsi gli sembrano cose dell’altro mondo. Non perché non capisca i suoi commilitoni e, sotto sotto, non sia d’accordo […] E quello che era chiarissimo, anche a Bengasi, era che dovunque si voltasse poteva vedere o sentire un sardo. E che quel sardo, lui compreso, in effetti, non aveva alcuna ragione per trovarsi là (p. 72).
Ad Arzana, Stocchino è invece l’uomo che riesce a ingannare tutti con le leggende sulle sue tante morti, è il terrore di quei compaesani che hanno la sventura di incrociarlo e di ostacolare il suo cammino, di tutti i signorotti prepotenti che hanno tentato di sottrargli i suoi averi e l’amore per Mariangela, la donna che sin da bambina gli rimane fedele. È un tipo solitario e silenzioso, che non riesce ad esprimere a parole il tumulto di pensieri e di sentimenti contrastanti che lo assalgono: il magma incandescente di questi stati d’animo sfocia, soltanto, nella rabbia cieca della violenza e nella ferocia della lama del suo coltello che ha “sapore di notte” (p.62).
Il protagonista parla, spesso anche in prima persona, nel corso di tutta la narrazione ma a conti fatti non riesce a spiegare fino in fondo la molla che scatta all’interno della sua mente: “E le parole spesso mancano, ma resta dentro una memoria che è vuoto” (p. 102).
Proprio le parole, infatti, hanno una valenza speciale in questo romanzo corale: all’alternarsi della prima persona con cui Stocchino si racconta e della terza con cui Fois narra, si unisce infatti la voce della Sardegna.
L’autore propone, infatti, una vera e propria prosopopea dell’isola nel momento in cui tenta di ricostruire la figura del protagonista attraverso le parole di una voce senza nome, in un capitolo, non a caso intitolato “voci e altre voci” (p. 162), che esordisce con l’affermazione “Io l’ho visto Stocchino, quando tutti dicevano che era morto”. Il tono risoluto con cui vengono pronunciate queste parole sembra rivelare una certezza che, in fondo, altro non è che la verità relativa di una leggenda.
Fois gioca con questo scambio di voci e di piani narrativi e inserisce, nella parte centrale del libro, un capitolo in cui si susseguono cinque leggende che riguardano Stocchino, proprio per sottolineare come non soltanto egli stenta a riconoscere se stesso, ma anche come lo sguardo esterno della popolazione sarda, tra agiografia popolare e mitologia del banditismo, modifichi la sua immagine.
Per tutti Stocchino è un uomo senza paura, “la tigre dell’Ogliastra”, un balente. E se nei territori circostanti alla Barbagia e alla stessa Ogliastra, zone interne della Sardegna, il termine sardo assume un carattere negativo, qui invece diventa una virtù.
Fois dunque ci consegna – con una scrittura raffinata che colpisce per la delicatezza dei toni e la semplice eleganza dello stile – il ritratto di un sardo divenuto mito in una terra che vive in prima persona il dolore, la rabbia e la paura dei suoi figli. Samuele Stocchino in questo romanzo – crocevia tra realtà e finzione, biografia e invenzione narrativa – rappresenta, in sostanza, una metafora della gente di questa terra: i sardi, come rileva lo stesso scrittore in un’intervista a P. Pilia, hanno infatti “la capacità di essere onestissimi e delinquenti insieme, esaltati e depressi, tristi e felici”.
