(di CLAUDIA RUGGIA)
Un libro che “pulsa di vita”, che è capace di parlare, gridare, sussurrare e alle volte di tacere in modo tanto efficace da lasciare sgomenti. È questa la sensazione che si prova alla fine di Alla cieca di Claudio Magris: uno sprigionarsi d’intensità che apre ad una ricchezza di mondi, di vite e -perché no?- di scritture, davvero infinita.
Romanzo, epos, autobiografia, memoria, tragedia, mito, referto clinico, Alla cieca sembra voler superare la logica dei generi, dando vita a un’originalità indiscutibile. Le pagine generano una pluralità di voci – che si intrecciano, si accavallano e poi, subito, si dipanano – la quale sembra, però, essere emessa da un unico interprete. Questa polifonia offre al lettore un fluire di ricordi, avvenimenti e storie che s’intrecciano su diversi piani narrativi e temporali.
La narrazione viene condotta interamente in prima persona, anche se si avvicendano più voci narranti. Il concetto d’identità, attraverso questa tecnica, viene completamente disintegrato e, tra le pagine, si snoda una sorta di gioco virtuosistico con i nomi dei personaggi che raccontano le proprie esistenze.
“Cippico – anche Cipiko, Čipiko – Salvatore” (p. 13) è il narratore principale (comunista che vive l’inferno dei lager nazisti prima e quello dei campi di concentramento jugoslavi poi) rinchiuso per problemi mentali in un ospedale da dove cerca di ricostruire le proprie vicende; Jorgen Jorgensen – re d’Islanda per poco tempo e deportato all’altra estremità del globo per motivi politici – è l’altra voce narrante:
Io, Jorgen Jorgensen, cresciuto nel Palazzo Reale di Copenaghen, navigo, dopo essere sbarcato a Sidney dall’Harbinger, come John Johnson, no, Jan Jansen […] (p. 86)
L’autore dà così vita a un dedalo di vicende, epoche e personaggi, che conferisce al racconto un ritmo narrativo incalzante e un pathos avvolgente in grado di comunicare al lettore la tragedia umana di fronte alla crudeltà del mondo.
Gli scaldi, mi ha spiegato, gli antichi poeti d’Islanda, cantavano il destino e la morte e chiamavano ogni cosa col nome di un’altra. Forse era anche un modo di sfuggire alla morte. Anch’io sono abituato ad avere molti nomi – cadono uno dopo l’altro, ma dopo ognuno ce n’è un altro; se uno è morto, l’altro è vivo e così avanti […] Per questo non mi prenderanno, almeno sino alla fine, quando calerà l’eterna notte artica, quel buio finale in cui muoiono le metafore e dunque anch’io […] (p. 157).
Sembra questo, dunque, un tentativo di eternare se stessi, di rinnovare, attraverso l’espediente del cambio di nome, l’idea di poter avere un’altra possibilità nella storia, di non farsi inghiottire dall’ineluttabilità delle vicende storiche che tutto calpestano e divorano, compresa la dignità umana.
Il senso di disorientamento nella consapevolezza di sé, nell’incertezza del proprio futuro e nella disillusione degli ideali, in cui le voci narranti si perdono, viene sottolineato a livello stilistico dall’accostamento di avverbi opposti (“laggiù, quaggiù”, p. 76), dall’uso quasi ossessivo di frasi negative (“E dopo ancora un po’ non sai nemmeno più se anche tu sei dei nostri o sei diventato dei loro”, p. 95; “Lei – o da uno come Lei, non ricordo […] Lei o un altro, non so […]”, p. 305) e interrogative (“Non mi credete, che io sia andato lassù?”, p. 207).
Tentare di dare un volto a queste numerose voci, di ricostruire le storie dando loro un ordine temporale, diventa un’operazione tanto rischiosa quanto sterile.
Un’ipotesi interpretativa che nasce nel corso di una pagina, può completamente ribaltarsi o semplicemente confondersi con quella delle pagine successive, facendo perdere di vista qualsiasi punto di riferimento.
Cercando comunque di individuare una sorta di filo conduttore, emerge nel racconto un continuo parallelo tra le vicende dei protagonisti e quelle mitologiche e tragiche di Giasone e Medea. Come l’eroe mitico organizza una spedizione a bordo della nave Argo, in viaggio verso la Colchide, per la conquista del vello d’oro che gli avrebbe dovuto assicurare la riconquista del trono usurpato di Iolco, così i protagonisti del romanzo intraprendono un viaggio per mare, allo scopo di raggiungere e “conquistare” una terra. In particolare, Jorgen Jorgensen parte con l’intento di fondare una nuova città, Hobart Town in Tasmania, per donare giustizia ai suoi sudditi, ma si troverà, suo malgrado, “schiavo al remo, marinaio di bassa forza, galeotto” (p. 17), mentre Salvatore Cippico attraversa il mare in nome di una ragione sì politica ma anche ideologica, quella del partito comunista, ma che lo vedrà protagonista dell’esperienza drammatica della schiavitù e degli orrori dei campi di sterminio di Goli Otok.
Entrambi sono affiancati da una figura femminile che incarna l’alter ego di Medea: innamorata, andrà contro tutti per aiutare il proprio uomo, ucciderà il fratello o, in un’ennesima variazione dello stesso tema, lo costringerà al suicidio dopo averlo abbandonato, per permettere e agevolare la partenza del compagno. E come la Medea di Euripide sarà la causa della morte del proprio figlio per una sorta di vendetta nei confronti dell’uomo per cui ha perso tutto e che finisce per abbandonarla:
Mio figlio, nostro figlio, il sole dell’avvenire nel ventre […] Dicono sia stata una guardia, un erzegovinese, a prenderla a calci nella pancia, durante l’interrogatorio, ma che lei l’aveva provocato, sfidato apposta a darle quei calci omicidi (p. 257).
Le vicende dei personaggi e quelle mitiche s’intersecano a tal punto da far pensare che le prime dipendano quasi necessariamente dalle seconde: l’autore affida un’assoluta centralità alle azioni di Giasone e Medea, come se l’esito delle azioni dei protagonisti e i loro destini dipendessero esclusivamente dai loro exempla archetipi:
Se Medea quand’era il momento giusto, avesse preso Giasone per il bavero, più tardi forse non.. (p. 309).
Questa donna viene identificata, alla stregua dei personaggi maschili, con diversi nomi nel corso di tutto il libro (Maria, Mariza, Norah, Marie, Marja, Manganawa), ma è particolarmente interessante evidenziare il parallelo, delineato dall’autore, tra essa e la polena.
Posta sin dall’antichità sulla prua delle navi, questa figura femminile rappresenta lo sguardo perso sui segreti e sui misteri del mare, capace di vedere le insidie, le catastrofi imminenti e di rimanere, nonostante tutto, imperturbabile: un pezzo di legno lavorato, che accompagna la navigazione e ha il ruolo di esorcizzare, con i suoi vuoti occhi, tutte le paure e le incognite di un viaggio per mare.
Infatti, come un inutile pezzo di legno, maria-polena cade in acqua, forse divelta dalla furia della tempesta che affonda la nave, o forse gettata volutamente tra i flutti “per far navigare la nave senza zavorra” (p. 123), ipotesi, quest’ultima, che ammette una precisa responsabilità del novello Giasone. Il libro si snoda, dunque, nella continua alternanza tra stati di tensione, che sottendono un latente senso di colpa, e parti che tendono a giustificare l’inevitabilità di precise scelte.
Maria, “mare in cui sfociano tutti i fiumi” (p. 113), vede consumarsi, dal continuo moto delle acque, il legno; esso si sfalda perdendo totalmente la propria consistenza, cancellando i tratti del viso, le pieghe delle vesti, così come – dall’altro lato del mondo, in Islanda – Jorgen assiste allo scioglimento della polena di ghiaccio, che torna ad essere acqua, “umida fanghiglia” (p. 164), metafora della fine delle attese e delle false speranze.
Da questo punto di vista, un’importanza simbolica fortemente evocativa assume il rapporto tra i protagonisti e il mare o, per meglio dire, tra i personaggi e i mari che li separano dalla loro destinazione, rappresentata sempre da un’isola di approdo. Essa è la meta a cui gli eroi di Magris anelano, è la metafora del raggiungimento dei loro scopi e, allo stesso tempo, la tappa fondamentale per il ritorno a casa: “Nessun viaggio è troppo lungo e periglioso, se riporta a casa” (p. 65).
A questo punto, la riflessione di Magris assume una precisa connotazione morale: la rivoluzione che Salvatore e il re d’Islanda portano avanti è soltanto causa di morte, spargimento di sangue, massacro delle diversità. La conquista, mascherata da scoperta, è una peste che calpesta qualsiasi cosa. La storia, in alcuni passi, richiama infatti alla memoria del lettore alcuni aspetti della brutalità dei conquistadores spagnoli, che nella foga del massacro sparano all’impazzata:
Sul terreno restano cinquanta neri e molti canguri; la colpa – dice il reverendo Knopwood – non è di nessuno, sono cose che purtroppo capitano quando non ci si conosce ancora bene e non ci si capisce (p. 94).
Tra le pagine si nota, però, come con grande intensità si aspiri al superamento di questa visione e il cambiamento morale e storico assuma, di conseguenza, caratteri di vasta portata: la vera rivoluzione sta nel non portarla avanti, nel fermare le navi ancora prima della partenza. La rivoluzione, altrimenti, diventerebbe guerra fratricida e insensata, una lotta in cui gli ordini vengono impartiti a caso e i compagni diventano, improvvisamente, per una sorta di “difetto di vista”, i nemici:
Punta il cannocchiale ma lo accosta all’occhio bendato, non può vedere la bandiera bianca e non fa cessare il fuoco. È così che succedono le catastrofi, un difetto di vista, un equivoco, il timoniere che non vede lo scoglio perché guarda da un’altra parte; la morte è un vecchio pirata guercio, non vede davanti a sé e grida i suoi ordini alla cieca (p. 331).
