Nov 16

“La casa madre” di Letizia Muratori

(di VINCENZA D’AGATI)

Dietro l’apparente struttura di un dittico costituito da due racconti indipendenti, La casa madre di Letizia Muratori offre ai lettori due storie così intimamente congiunte tra loro e complementari – per affinità strutturali profonde – da rappresentare le due facce diverse ma inscindibili della stessa medaglia. Nonostante il mutare dei personaggi, delle vicende e delle coordinate spazio-temporali, entrambe le narrazioni propongono infatti uno schema sorprendentemente similare che si fonda sull’assolutizzazione della dimensione ludica e immaginativa, costantemente messa in atto dai giovani protagonisti e vissuta come un altrove compensativo rispetto alla dimensione frustrante della realtà. In entrambi i racconti, l’esperienza totalizzante del lusus comporta anche la costante adozione di un punto di vista anomalo, inaffidabile e gravido di continui fraintendimenti: i ragazzini sono protagonisti e voci narranti al tempo stesso e tendono a narrare i fatti ricorrendo al filtro deformante della loro inarrestabile fantasia, una fantasia ancorata ad alcuni ben noti stereotipi edonistici della società dei consumi, come le irresistibili bambole americane, gli ipnotici cartoni giapponesi e la devozione al fantasy. La polarità tra le due dimensioni, la reale e l’immaginaria, si concretizza nel corso delle due storie attraverso un insanabile conflitto tra il mondo dei genitori, dolorosamente reale, e quello dei figli, immaginario e consolatorio; e la necessaria separatezza tra questi due mondi paralleli viene chiaramente teorizzata da Luca, il giovanissimo protagonista del secondo racconto:

L’incantesimo dei genitori, che non credono ai poteri fatati e non possono varcare la soglia del mondo magico, serviva perché i regni dei padri e quelli dei figli dovevano restare separati, distanti, quasi nemici, fino al giorno della grande pace silenziosa in cui le sette spade di diamante avrebbero tagliato in minuscoli pezzi, senza fare rumore e dolore, tutti gli esseri viventi, di ogni età, razza, dimensione, fatti di carne, roccia o vegetali per costruire un pezzo solo, liscio, soprattutto nuovo. Il grande uovo che ricomincia il ciclo perché dentro ha un pallino rosso dell’universo intero. (pp. 80-81)

Il racconto eponimo inizia quando Irene, la protagonista, riceve il suo attesissimo dono natalizio, un unico regalo al posto delle solite “schifezze utili”, un regalo tanto più agognato perché già posseduto da quasi tutte le sue facoltose compagne di scuola (e quindi indispensabile anche per una più felice integrazione al gruppo delle coetanee): si tratta di una “Cabbage Patch Kids”, una bambola americana avvolta in una confezione a forma di cavolo e proveniente dalla Casa Madre. La cabbage si presenta subito come un oggetto straordinariamente perturbante per il suo aspetto sgradevole e proprio in virtù di tale peculiarità risulta ancor più adorabile, inoltre richiede le cure e le attenzioni di una figlia vera e induce non solo la protagonista ma tutte le giovanissime proprietarie ad una costante simulazione – consapevole e delirante al tempo stesso – del ruolo genitoriale, a partire dalla postura del travaglio, meticolosamente presa a modello da Irene nelle pagine iniziali. Dopo il “parto”, la protagonista è subito cosciente dell’infelicità inevitabile che incombe su sua “figlia”:

Davanti a un pezzo di pandoro, mi resi conto che Peppina era nata il 25 dicembre del 1984. Come Gesù bambino. Niente regali di compleanno, ma sempre tutto insieme a Natale. Per quel che ne sapevo io, avevo appena partorito la figlia più sfortunata del mondo. (p. 17)

Per Irene e le sue coetanee la cabbage, una bambola realmente commercializzata in tutto il mondo nel corso degli anni Ottanta,  non è semplicemente un giocattolo: considerarla tale è un’eresia e arrivare a danneggiarla equivale ad un sacrilegio, come nell’episodio in cui la maestra Rosso viene accusata di voler “fare la strage di Erode” dopo avere ordinato alle allieve di riporre le bambole all’interno degli zaini, esponendole così “al rischio di soffocamento”. La cabbage si configura come lo strumento indispensabile per edificare una realtà parallela e per tramutare il gioco in quell’esperienza preponderante capace di eclissare tutti gli altri aspetti della vita reale. Al di là di un intreccio colmo di peripezie fanciullesche, volutamente costruite a misura di bambino, e dell’adesione ad un registro stilistico anch’esso conforme al punto di vista infantile adottato, il fascino della racconto risiede prevalentemente nell’ambiguità di questa costante simulazione messa in atto dalle giovani protagoniste: al lettore rimane infatti incerto nel corso dell’intera narrazione – ed è proprio questa incertezza ad incuriosire e catturare – quale sia il confine sicuro tra delirio e consapevolezza, finzione e verità, gioco e realtà.

Solo nel tragico epilogo, segnato dal suicidio della madre malata e infelice, tale realtà sembra irrompere violentemente nella vita di Irene, rendendo inevitabile l’incontro col doloroso mondo degli adulti:

Ogni cosa che vedevo era più nitida, come le sagome vuote sull’album da disegno in attesa del colore. Ero finita nella casa nuova di una bambina che non era ancora tornata da scuola e giocava nel tempo dove nessuno le rispondeva. (p. 74)

Protagonista del secondo racconto – Il segreto – è Luca, un giovane cultore di “dragologia”, anch’egli inserito in un contesto familiare problematico, figlio di un avvocato insoddisfatto e scostante e di una madre del tutto assente. Ad innescare il passaggio ad una dimensione prepotentemente ludica è stavolta la ferrea convinzione che le belle ragazze che dimorano in una vicina pineta (in realtà delle prostitute straniere) siano le fatate Winx “in carne e ossa”.  Un tale equivoco non può che ricondurci – e verrebbe da chiedersi se ciò avvenga per una consapevole scelta dell’autrice – ad un ben noto episodio letterario di matrice crepuscolare: mi riferisco all’analogo innamoramento di un bambino per una “cocotte” nell’indimenticabile poesia di Guido Gozzano. Anche allora l’incontro con una “cattiva signorina”, sua “vicina”,  innesca un moto di fascinazione e sublimazione, con l’identica metamorfosi della “cocotte” in entità fatata:

[…] Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l’Isole Felici…
Co-co-tte… le fate intese a malefici
con cibi e con bevande affatturate…
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici! […]
(Guido Gozzano, Cocotte)

Dopo questa inevitabile suggestione, tornando al testo della Muratori, si tratta di un racconto che ripropone, come il precedente, la netta divaricazione tra il piano della realtà e quello della finzione ma con effetti meno sfuggenti, poiché il protagonista appare ancor più tenacemente e schematicamente ancorato alla sua immaginosa certezza. Tuttavia, a rendere accattivante la narrazione sono i frequenti ammiccamenti alla complicità dei lettori, indotti a sorridere di fronte all’ingenuità del ragazzino e al moltiplicarsi infinito dei suoi fraintendimenti, tutti legati all’equivoco originario.

A conclusione di un processo inarrestabile di trasfigurazione del vero per mezzo del paradigma magico, l’incontro/scontro con la realtà è ancora una volta confinato nell’epilogo. E’ qui, infatti, che Luca si imbatte inaspettatamente nel padre recatosi nella pineta delle “fate” per ragioni che, ancora una volta ben chiare al lettore, sfuggono tuttavia all’ingenuo bambino.  Tuttavia a questo punto la scrittrice preferisce smorzare l’effetto drammatico dell’incontro inopportuno tra padre e figlio rendendo ancora una volta insicura l’acquisizione di una più matura consapevolezza da parte di Luca: il mito compensativo dell’altrove risulta pertanto, rispetto alla precedente storia, scalfito ma non irrimediabilmente distrutto. Non a caso, quando il protagonista viene invitato dal genitore a mantenere il “segreto” – quel segreto presente già nel titolo – riguardo al loro incontro, rimane incerta sino alla fine la sua piena cognizione del vero e, di conseguenza, incompleta anche la sua Bildung.

Novembre 2011

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