Mag 20

Giuseppe Bonaviri

Giuseppe Bonaviri è nato a Mineo (Catania) nel 1924. Ha seguito il corso dei suoi studi a Catania, dove si è laureato in Medicina a Catania nel 1949 e successivamente specializzato in Cardiochirurgia. Primo di cinque figli é vissuto a lungo con la zia Agrippina (prima sorella della madre) e con lo zio Michele Rizzo. Esordisce nel 1954 con il romanzo Il sarto della stradalunga, pubblicato nel 1954 da Einaudi, nella prestigiosa Collana dei Gettoni diretta da Elio Vittorini. Tra le sue pubblicazioni, Il fiume di pietra (Einaudi, 1964), La divina foresta (Rizzoli, 1969), Notti sull’altura (ivi, 1971), L’isola amorosa (ivi, 1973), L’enorme tempo (ivi, 1976), Il dire celeste (Editori Riuniti, 1979), Novelle saracene (Rizzoli, 1980), O corpo sospiroso (ivi, 1982), L’incominciamento (Sellerio, 1983), E un rosseggiare di peschi e albicocchi (Rizzoli, 1983), L’asprura (Edizioni della Cometa, 1986), Il dormiveglia (Mondadori, 1988), Il re bambino (Mondadori, 1990), Ghigò (ivi, 1990), Silvinia (Mondadori, 1997), L’infinito lunare (ivi, 1998), Vicolo Blu (Selleiro, 2004), I cavalli lunari (Scheiwiller, 2004), L’incredibile storia di un cranio (Sellerio, 2006). Candidato al Premio Nobel fin dal 1984, è entrato in diversi anni nella cinquina finale. Nel 2003 gli è stato assegnato il Vittorini per il Vicolo blu.

 

Vicolo blu

Ci sono certi luoghi che, come scrisse una volta Leonardo Sciascia, hanno avuto quella certificazione di esistenza in vita che solo la letteratura riesce a dare. Racalmuto ad esempio, oppure Comiso. Ma c’è anche Mineo, il paese in provincia di Catania dove quasi ottant’anni fa nacque Giuseppe Bonaviri, teatro del suo romanzo più famoso, Il sarto della strada lunga (1954), tenuto a battesimo da Elio Vittorini. Un paese, Mineo, che nelle pagine di Bonaviri diventa una sorta di ombellico del mondo, un universo incantato ed epico-avventuroso, che rimane nella memoria del lettore per via del “senso delicatamente cosmico”, per dirla con l’autore del Garofano rosso, con cui Bonaviri lo rappresenta. Un universo al centro anche delle successive opere dello scrittore catanese, da La contrada degli ulivi (1958) a Il fiume di pietra (1964), per arrivare a L’incominciamento, nel 1983. E a Mineo Bonaviri è tornato col suo ultimo romanzo, Il vicolo blu (Sellerio, 2003), col quale quest’anno si è aggiudicato il premio Vittorini. Un romanzo picaro, per le gesta della banda di monelli che caccia serpi, scorrazza per la campagna, e che si presenta come una summa dei temi cari all’autore, una sorta di ricapitolazione della memoria. In esso Bonaviri rivive gli anni della fanciullezza, trascorsi accanto alle sorelle Maria e Vincenza e al fratello Salvatore.

Una fanciullezza raccontata nella voce del vento, nel canto notturno di un uccello, nel succedersi delle stagioni, nelle fatiche del mondo contadino. Il romanzo si apre con il viaggio della famiglia Bonaviri, dal paese alla volta della casa di campagna: e il viaggio, per l’autore di Novelle saracene, ha sempre un significato profondo, allusivo, di iniziazione, di catabasi nella natura e nella memoria.

Partivamo quando l’aurora nasceva con un color di rosa fra i fichidindia. Come in tutti i contadi, il paese era sveglio, e le campane già vi suonavano perdendosi per anfratti e grotte, o nei piccoli corsi d’acqua che ne tremavano.

L’incipit del romanzo già ci immerge nell’atmosfera incantata di una Sicilia arcaica, in cui ad ogni angolo sono in agguato spiriti pronti a “soffiare leggero leggero sulle palpebre” e a rubare la forza; una Sicilia fitta di odori di piante dai nomi rari, di olezzi che ubriacano le menti, nella quale anche un sassolino può contenere in modo concentrato il tempo delle stelle. Bonaviri riesce benissimo a rendere vicina questa lontana dimensione indefinibile, dove si consumano strani riti, come quello della raccolta delle placente, e in cui ci si nutre di credenze tramandate oralmente dalla notte dei tempi. Quella di Bonaviri è una terra di stratificazioni antropologiche, un mondo che è insieme materialistico e magico, nel quale i vivi si rapportano massicciamente con i morti, dei quali l’essenza vitale, ossia lo spirito, è intesa come essenza ancora pensante, in grado di far male al vivente.

In poche parole, Vicolo blu è tutto attraversato da essenze misteriose e invisibili, che pullulano nei vicoli bui, nelle stanze dove non arriva la lingua del lume a petrolio. Ma quello che più conta, in questo romanzo di Bonaviri, è la vita intesa come un niente, alla stregua di “una grande nuvola di nebbia”. La vita concepita come un rito preparatorio alla morte, una sorta di momento propedeutico, trascorso il quale ci si può avventurare nell’oscurità del sonno eterno. Significativo, a questo proposito, il finale del romanzo: è notte, ragazze e ragazzi, tra cui il nostro autore, ricoperti da una caligine bluastra e immersi in un’aura cenerognola, si tengono per mano mentre osservano gli astri e i pianeti. Ad un tratto, una voce maschile, dopo tante voci in un arruffio di suoni diversi, dice: “C’è il nulla, solo il nulla”.

 

L’incredibile storia di un cranio

“Per disposizioni legislative in molti paesi era invalso ormai l’uso di liberarsi dai vecchi, malati o no, perché essendo cresciuta demograficamente l’umanità, erano in molti a superare, anche se nevrotici o rimbecilliti, l’età di ottanta anni”. Queste parole, ricavate dal nuovo romanzo di Giuseppe Bonaviri, L’incredibile storia di un cranio (Sellerio, 2006), sembrano quasi ironicamente riferite dall’autore, oramai ottantaduenne, a se stesso. Parole però smentite dal libro in questione, che di certo non è stato scritto da un Bonaviri “rimbecillito”. Anzi, pare proprio che, col trascorrere del tempo, lo scrittore di Mineo ringiovanisca: a tal punto la potenza immaginativa della storia lascia il lettore trasecolato.

“Sono vecchio oramai più che ottuagenario nell’anno che corre dell’era cristiana …, e pur giovane di cuore forse meglio che nol fossi mai nella combattuta giovinezza, e nella stanchissima virilità”: si tratta dell’incipit di Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, che ben si attaglia al caso di Bonaviri, romanziere e poeta stimatissimo in Europa dai critici e dai lettori, tradotto, tra le altre lingue, in francese, tedesco, bulgaro, russo, svedese, polacco, arabo, giapponese, rumeno e candidato al premio Nobel sin dal 1984. Dal suo lontano esordio, nel 1954, con Il sarto della stradalunga, tenuto a battesimo da Vittorini, Bonaviri negli anni ha fatto sua una poetica di sottile sensibilità naturalistica, in cui materiale folklorico, influenze della cultura araba, spinte metamorfiche e imprese meravigliose si sono fuse in una materia narrativa originalissima. Nelle sue ultime poesie, poi, il Bonaviri visionario ha preso per mano il Bonaviri medico-chirurgo: a venirne fuori, soprattutto per la massiccia presenza di termini tecnici desunti dalla scienza medica, un tessuto linguistico insolito, dalla mirabolante forza sperimentale.

Come quello del nuovo romanzo dell’autore de L’incominciamento: romanzo dell’utopia, per certi versi contiguo alle opere di Huxley, Bradbury, Orwell: un’utopia in forza della quale troviamo la giovane biologa catanese Porporina all’opera, in un centro biologico del Massachusetts, assieme al ricercatore cretese Jehova (nomen omen), alla studiosa di innesti di fiori Iside, all’ornitologo israeliano Levis, allo scienziato cattolicissimo Samuel Newton, per la realizzazione di un progetto audace che prevede clonazioni, innesti inauditi (siamo nella stessa temperie di “Cima delle nobildonne” di Stefano D’Arrigo). Clonazioni e innesti che consentirebbero la nascita di esseri ibridi e arborescenti, che fanno venire in mente l’Apollo e Dafne di Bernini: alberi-bambini, alberi-uomini, alberi-donne frondosissimi. Queste strane creature, una volta invasa la terra, potrebbero narcotizzare le passioni smodate del genere umano, intorpidire gli empiti distruttivi (tra cui il “programmato terrorismo”), ma anche gli slanci amorosi, la capacità di commuoversi. Si tratta, a ben vedere, di un’utopia negativa, in grado di ridurre gli uomini “ad appiattite ombre senza sentimenti, senza conflitti, senza una inquietante forza creatrice”.

Il fantastico che sostanzia questo nuovo romanzo di Bonaviri è di carattere futuribile: si ha l’impressione, quasi la paura, che quanto è narrato dall’autore, un giorno possa davvero avverarsi. Come il progetto di Iside di far rinascere, da un “teschio” recuperato da un campo di battaglia, Toto, soldato siciliano, per via di clonazione. Siamo in presenza di una farneticazione fantascientifica, certo, che però, in questo nostro inferno quotidiano, da un momento all’altro potrebbe benissimo realizzarsi. Questo romanzo, dunque, si può leggere come una sorta di visionario “redde rationem”, di mirabolante richiamo alla responsabilità. Un invito a riflettere sulla norma autocorrettiva della scienza e della ricerca, su un ipotetico limite di espansione. E dal futuribile, Bonaviri passa, quasi alla fine della storia, all’apocalittico. Dando voce al rimorso di Jehova, al senso di colpa che l’attanaglia per aver preso parte al progetto insensato: un progetto contro Dio, che sia cristiano o islamico poco importa, e contro gli uomini.

E mettendo in scena lo sconvolgimento della terra, la rivolta quasi del globo terracqueo, con il mare che comincia a finire filtrando al centro del globo, e con l’esplosione del pianeta, un’immensa deflagrazione così preconizzata dagli scienziati: “Sbrindellatasi la terra in pezzi fatti di una mistione di acque, di piante, di esseri viventi fusi con nichel e ferro, ad altissima temperatura, i frammenti, esplosi nell’area del nostro cielo, sarebbero stati attratti dagli altri pianeti”. Cosa che fa venire in mente la pagina conclusiva della Coscienza di Zeno di Italo Svevo: “… Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”. Ma è solo alla fine che il romanzo di Bonarivi si spalanca su scenari catastrofici: a dominare, infatti, dalle prime pagine, è un senso creaturale, quasi lucreziano della vita, una compenetrazione con tutti gli elementi. La visione straniante, fantasmagorica di Bonaviri sembra attingere direttamente agli insegnamenti di Empedocle: “Io fui fanciullo, fanciulla, albero e muto pesce del mare”. Ai presocratici: a tal punto da legare queste pagine ai versi del “Poema fisico”. Bonaviri è uno scrittore siciliano anomalo: per lui non contano tanto Verga, De Roberto, Pirandello. I suoi numi tutelari sono direttamente Democrito, Epicuro, per il quale la luna era un assembrarsi di uccelli che vorticano nel cielo. Con lo scrittore di Mineo si va alle origini della cultura occidentale, alle scaturigini del pensiero filosofico, medico, scientifico. Ma anche a una sapienza aurorale, fatta di racconti ancestrali.

20 maggio 2007

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