Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) nel 1925 e da anni ormai vive a Roma. Regista, autore teatrale e televisivo, ha scritto saggi sullo spettacolo. Negli anni 1945-50 ha pubblicato racconti e poesie. Ha insegnato Istituzioni di Regia all’Accademia d’Arte drammatica. Sin dal 1949 lavora come regista e sceneggiatore; in queste vesti ha legato il suo nome ad alcune fra le più note produzioni poliziesche della TV italiana, come i telefilm del Tenente Sheridan e del Commissario Maigret, e a diverse messe in scena di opere teatrali. Col passare degli anni ha affiancato a questa attività quella di scrittore: del 1978 è l’esordio nella narrativa con Il corso delle cose (Lalli). Nel 1980 esce da Garzanti Un filo di fumo (riedito poi, come il primo, da Sellerio), primo di una serie di romanzi ambientati nell’immaginaria cittadina siciliana di Vigàta, a cavallo fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Ma è nel 1992, con l’apparizione (sempre per i tipi di Sellerio, che pubblica la gran parte delle sue opere) de La stagione della caccia, che Camilleri diventa un autore di grande successo. Di seguito, vedranno la luce La bolla di componenda (Sellerio, 1993), La forma dell’acqua (ivi, 1994), Il gioco della mosca (ivi, 1995), Il birraio di Preston (ivi, 1995), Il cane di terracotta (ivi, 1996), Il ladro di merendine (ivi, 1996), La voce del violino (ivi, 1997), La concessione del telefono (ivi, 1998), Un mese con Montalbano (Mondadori, 1998), La mossa del cavallo (Rizzoli, 1999), Gli arancini di Montalbano (Mondadori, 1999), La gita a Tindari (Sellerio, 2000), La scomparsa di Patò (Mondadori, 2000), Montalbano e Montalbàn (Frassinelli, 2000), Biografia del figlio cambiato (Rizzoli, 2000), L’odore della notte (Sellerio, 2001), Il re di Girgenti (ivi, 2001), Racconti quotidiani (Libreria dell’Orso, 2001), La paura di Montalbano (Mondadori, 2002), Storie di Montalbano (ivi, 2002), Le inchieste del commissario Collura (Libreria dell’Orso, 2002), La presa di Macallè (Sellerio, 2003), La prima indagine di Montalbano (ivi, 2004), Romanzi storici e civili (ivi, 2004),
La pazienza del ragno (Sellerio, 2004), Privo di titolo (Sellerio, 2005), La luna di carta (Sellerio, 2005), Il diavolo tentatori/innamorato (Donzelli, 2005), Il medaglione (Mondadori, 2005), Privo di titolo (2005), La pensione Eva (ivi, 2006), La vampa d’agosto (Sellerio, 2006), Maruzza Musumeci (Sellerio, 2007).
La presa di Macallè
A tutta prima, leggendo La presa di Macallè (Sellerio, 2003), è l’inarrestabile trasfigurazione grottesca a colpire; una trasfigurazione che preme essenzialmente sul pedale della lingua, e che trascina il lettore in un vortice di parole, risucchiandolo in una specie di gorgo linguistico che via via toglie quasi il respiro. E poi l’ossessione del sesso, un vero e proprio invasamento: tanto da sospettare, quasi subito, che attraverso i simboli sessuali, così invasivi nella pagina, Camilleri cerchi di far parlare qualcosa d’altro.
Il risultato ottenuto è oltremodo fastidioso, quasi molesto, per niente consolatorio, al punto tale da rendere questo romanzo per lo più indigesto. Il fatto è che, per la prima volta, Camilleri ha separato il sesso dal riso, da sempre profondamente uniti, come ci insegna l’antropologia. Se, nel corso della lettura, qualche risata fa capolino, in verità si tratta essenzialmente di smorfie.
Il traliccio narrativo di La presa di Macallè è quanto mai lineare: è la storia di un bambino di appena sei anni, Michelino, col quale Priapo è stato oltremodo generoso: e l’abbondanza miracolosa dei suoi attributi genitali sarà un motivo di fondo della storia, suscitando un continuo sbalordimento in chi avrà modo di farne esperienza. La maestosa epifania priapica che si insinua tra le pieghe della quotidianità, nella Vigàta del ’35, suscita dapprima raccapriccio e desolazione, per poi diabolicamente insinuare irritanti elementi grottesco-caricaturali, che quasi richiamano alla memoria, per dirla con Italo Calvino, “la tradizione sessuofobica della predicazione ecclesiastica e le visioni erotico-mostruose della tentazione dei Santi”.
E Santo è Michelino, bambino paradossalmente innocente sino al martirio finale, al sacrificio estremo, suo malgrado esposto alla inesorabile violenza della propaganda fascista, che si manifesta, ora subliminalmente, ora in maniera evidente, nei balordi suggerimenti, nei rudimenti blasfemi della santa madre chiesa, il cui incenso era diviso tra Cristo e Mussolini.
Romanzo della fornicazione universale, La presa di Macallè è un continuo stridere, sfrigolare, per gli accostamenti che producono incessanti cortocircuiti: infanzia e violenza, puerizia e sesso sfrenato, fanciullezza e pedofilia. La sacrestia della chiesa di Vigàta è una sorta di bottega del sesso, il confessionale è il luogo della manipolazione e della creazione del consenso, il catechismo è una sorta di dopolavoro fascista, in cui si idolatra il duce e si giustificano i conflitti. “Mussolini è l’uomo della Provvidenza”, ripete con ardore il parroco, padre Burruano, il quale al dio trino preferisce il dio caprino, e quando può posa gli occhi concupiscenti sulla madre di Michelino.
La donna, si sa, è mobile, e tra una confessione e una benedizione, c’è sempre il modo di donarsi anima e, soprattutto, corpo. In questo microcosmo di perversione quotidiana, di illibata violenza, non c’è posto per i comunisti: peggio degli animali, più incivili degli abissini:
“I comunisti sono genti tinta assà – insegna il padre a Michelino – … pàrono come a noi, inveci sono diversi. Non cridino a Dio, alla Madonna, a Gesù, non cridino alla Patria, insultano il Re e Mussolini e ci vogliono vidiri tutti morti a noi fascisti, appisi ai lampioni”.
Non sarebbe meglio, suggerisce Michelino al padre, far fuori prima loro? Ma Michelino, balilla perfetto e milite di Cristo, è subito divorato da un dubbio angosciante: E’ peccato uccidere un comunista? “Un comunista non è un omo – incalza subito il padre – ma un armalo e pirciò se s’ammazza non si fa piccato”. Michelino non se lo fa ripetere due volte e, armato del moschetto regalatogli dal padre, al quale lui pazientemente aveva affilato la punta, tra una lezione privata e un film al cinematografo, infilza Alfio Maraventano, suo coetaneo, figlio del sarto comunista. Michelino, bambino di Dio e di Mussolini, diventa un assassino.
A questo punto viene alla mente una pagina del Garofano rosso, uno dei più riusciti esempi di romanzo di formazione della letteratura italiana:
“C’era dietro a lei il negozio di un armaiolo e intanto che essa parlava le lunghe canne scintillanti dei fucili in vetrina mi affascinavano. Un fucile c’era, appeso al muro, ma arrugginito, nella vecchia casa di campagna di zio Costantino, e arrivavo a toccarne l’estremità del calcio se mi arrampicavo sulla spalliera del divano. Lo toccavo, poi mi mettevo in un angolo, quieto, a meditare un assassinio. Crescevo così, ed ero in grembiule, aspettando un giorno in cui avrei potuto staccare quel fucile dal muro e sparare fuori dalla finestra su qualcuno”.
Già Elio Vittorini, prima di Camilleri, aveva lasciato felicemente intuire in che modo, in pieno periodo fascista, un liceale innocente potesse trasformarsi inopinatamente in un assassino.
L’anti-romanzo di formazione di Camilleri guida per mano il lettore in una discesa agli inferi, e di diavoli se ne incontrano davvero, negli incubi notturni di Michelino, il quale si immagina i comunisti con tanto di “corna e di forconi”, in mezzo a fiamme luciferine. C’è da dire però che ogni tanto lo scrittore empedoclino alleggerisce questa sua turpe materia narrativa, sottoponendola alla forza della germinazione fantastica: una germinazione che trova nutrimento nelle ossessioni sessuali, nelle farneticazioni della carne.
Ma l’effetto a volte non è quello sperato: tra un amplesso quasi animalesco e un incontro clandestino, il lettore non vede l’ora di arrivare al quid della narrazione. Un quid che per certi versi è rallentato, proposto quasi alla moviola: è forse la prima volta che il montaggio messo in atto da Camilleri ogni tanto si inceppa. Certo, qua e là si leggono pagine che ci riportano al Camilleri che conosciamo: quelle dedicate alla messa in scena, realizzata nello spazio del campo sportivo, dello scontro tra l’esercito di Mussolini e gli abissini.
Una farsa immonda, “una minchiata solenne”, che la dice lunga sul grado di fanatismo e di esaltazione collettiva. E La presa di Macallè, tra impennate felici e inabissamenti improvvisi, si rivela per quel che è: storia di un’iniziazione al sesso, di una consacrazione alla violenza, e della benedizione dell’anticomunismo.
Il tutto, però, senza apparentemente compromettere in alcun modo l’innocenza di Michelino: che concupisce con la cugina, fidanzata di guerra, la quale lo abbindola, propinandogli come venale il peccato mortale; che infilza una colomba, per verificare la pericolosità del suo moschetto; che scuoia un cucciolo, ai suoi occhi mezzo indiano e mezzo abissino; che trafigge il suo coetaneo e compagno Alfio, colpevole di aver imbracciato la falce e non il moschetto; che dà fuoco alla cugina e al padre, sorpresi sull’alcova del peccato.
Camilleri racconta la terribilità del vivere di ogni giorno, tra le perversioni del compagno di banco, le depravazioni dei pedofili che in ogni paese riscaldano quotidianamente la poltrona del cinema, la propaganda indecente della chiesa cattolica, che con la mano destra toglie un chiodo a Cristo crocifisso, per piantarlo, con la mano sinistra, nel cuore degli abissini, meglio ancora dei comunisti. Ne viene fuori, come ha scritto nella bandella di copertina Salvatore Silvano Nigro, “una parabola grottesca, che va fabulando la tragicità e la normalità abnorme della violenza”.
“Non leggete La presa di Macallè come un romanzo politico”: più o meno così risuonava l’appello lanciato dallo scrittore nel giorno dell’uscita del libro. Perché mai, ci chiediamo oggi? È sempre meglio diffidare delle invocazioni e degli inviti degli scrittori, specie se riguardano direttamente le loro opere. Se infatti il romanzo di Camilleri lo si legge anche alla lente della politica, allora alla fine i conti, non diciamo che tornano, ma quanto meno che il passivo si riduce, eccome.
Questo romanzo, così anomalo, è il parto di un Camilleri che, alla veneranda età di quasi ottant’anni, vuole rinnovarsi ancora, decide di cambiare pelle, di innalzare un’impalcatura narrativa diversa. Ecco: l’autore de Il re di Girgenti, in questi ultimi anni, ha saputo mettersi continuamente in discussione, in favore di una sempre nuova sperimentazione, da Il birraio di Preston a La concessione del telefono, dalla La scomparsa di Patò al Re di Girgenti. Per arrivare a questo ultimo libro, che resta fuori dai suoi due filoni narrativi: quello della ricostruzione storica, e quello poliziesco del commissario Montalbano. La presa di Macallè è un romanzo di completa invenzione, anche se lo sfondo storico è quanto mai veritiero.
Certo, il prodotto finale lascia un poco perplessi: forse anche per via dell’impasto linguistico. Questo romanzo, infatti, è stato scritto subito dopo Il re di Girgenti, senza soluzione di continuità: da qui le complicazioni linguistiche che presenta, l’amalgama bizzarro che lo compone. Forse Camilleri non è tagliato per il romanzo di scrittura? Può essere: ma il problema è un altro. A furia di stare in attesa del tanto atteso capolavoro (a noi bastano Il birraio, La concessione, La mossa del cavallo), molti lettori non riescono a mettere ben a fuoco le pagine dell’ultimo Camilleri, collocando tra il loro sguardo e le opere di quest’ultimo un diaframma ingannevole.
La pazienza del ragno
La pazienza del ragno (Sellerio, 2004), comincia laddove Il giro di boa finiva. Sono appena trascorsi venti giorni da quando il commissario Salvo Montalbano è stato ferito a una spalla, in un conflitto a fuoco col trafficante di bambini extracomunitari Jamil Zarzis, ma è come se il tempo si fosse fermato al momento preciso dell’esplosione del colpo. Ogni notte, infatti, alle tre, ventisette primi e quaranta secondi, nella testa di Montalbano uno strano ingranaggio fa tac, e addio al sonno. Tutto quello che sta attorno a lui viene risucchiato da un beffardo fermo immagine, e gli incubi lasciano il posto a qualcosa di più agghiacciante. Per fortuna che accanto a un Montalbano in convalescenza c’è Livia, che lo assiste senza però eccedere nelle premure. Perché il nostro commissario, dal giorno del ferimento, si commuove in un istante, anche per motivi banali, persino di fronte a un piatto di cuscus preparato con otto tipi di pesci:
“Basta un nenti a portarlo, a tradimento, sull’orlo della commozione. E di questa situazione di fragilità emotiva si vrigogna, s’affrunta, è costretto a elaborare complesse difese pirchì gli altri non se ne adunino”.
Certo, c’entra anche la vecchiaia incalzante. Ma il fatto è che, dopo le vicende narrate nel Giro di boa, Montalbano è cambiato parecchio: dapprima una disaffezione montante nei confronti del suo mestiere e del mondo intero, e ora il faccia a faccia con la morte. Nella parte proemiale de La pazienza del ragno Camilleri mostra tutta la sua capacità di smontare e rimontare il congegno romanzesco con grande abilità, ricomponendolo alla fine con un avvicendamento dei tempi narrativi davvero efficace. Non tanto, dunque, la progressione, ma l’altalena dei ricordi, il pendolo delle emozioni e delle paure.
Lo scrittore empedoclino è andato però oltre, volendosi cimentate in un giallo anomalo, senza omicidi. È come se a un direttore di orchestra togliessero di mano la sua buona bacchetta: ma Camilleri non si intimidisce, anzi ci mostra fino a dove è lecito spingersi. Questa volta, infatti, Montalbano è alle prese con un sequestro a tutta prima anomalo, dal momento che la famiglia di Susanna, la ragazza rapita, non tiene un euro. Il titolare delle indagini è il collega Minutolo, è vero, ma il nostro commissario non si mette certo di lato, dando subito avvio alla sua indagine, quasi privata. Le ricerche, intanto, non danno grossi risultati, e i rapitori non tardano ad avanzare le loro richieste, servendosi anche delle televisioni locali, e quindi adottando certe strategie che ci riportano a ben altri sequestri, mediatici anch’essi, ma tragicamente veri. I conti, a tutta prima, non tornano: i sei miliardi richiesti dai carcerieri a Salvatore Mistretta, il padre di Susanna, geologo caduto in disgrazia con la moglie in fin di vita, sembrano quasi una provocazione. Montalbano non ci vede chiaro e comincia la sua personale indagine nei meandri degli odi, dei rancori e degli interessi famigliari.
E così viene fuori una storia di imbrogli e di appalti truccati, al centro della quale si trova lo zio di Susanna, imprenditore che ha fatto dell’illegalità l’unico credo, e che vorrebbe scendere in politica, manco a dirlo “tra le fila di quelli che stavano rinnovando l’Italia”. In questa discesa agli inferi, Montalbano si troverà costretto a guardare ancora una volta in faccia la morte: non la propria, ma quella della madre di Susanna. “Un corpo morto non gli faciva ’mpressione, era l’imminenza della morte che lo stravolgeva dal profondo, o meglio, da una profondità abissale”. E di nuovo la sua testa fa tac: lo scatto della molla inceppata dà la stura al panico che lo attanaglia. Il nostro commissario è diventato vulnerabile, sempre più esposto com’è agli attacchi di una paura quasi ancestrale.
Ma per fortuna, la sua lucidità non si annebbia, il suo cervello è ancora ben oleato. E così, come gli capita spesso, a un tratto “alcuni dati apparentemente incollegabili tra loro improvvisamente si saldano e ogni pezzo s’assistema al posto giusto nel puzzle da comporre”. Basta un niente, come una ragnatela sul rametto di un cespuglio selvatico: “Una costruzione geometrica sbalorditiva”, “una trintina di fili a cerchi concentrici”, una “tessitura dei fili a cerchi tenuta e scandita da fili radiali che si partivano dal centro”. Montalbano la guarda, e pensa alla pazienza del ragno nel realizzarla così perfetta. O quasi, visto che “la distanza tra una filama e l’altra non era regolare”. Come non è del tutto perfetto il piano tramato all’oscuro che sta dietro al rapimento. Ma ora che sa come sono andate le cose, il commissario deve affrontare il vero problema:
“Era solo un omo che aviva un pirsonale criterio di giudizio supra a ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. E certe volte quello che lui pinsava giusto arrisultava sbagliato per la giustizia. E viceversa. Allura, era meglio essiri d’accordo con la giustizia, quella scritta supra i libri, o con la propia cuscenza?”.
A questa domanda, Montalbano sa bene cosa rispondere, sentendosi alla fine “riposato, sereno, affrancato”. E questi tre aggettivi non sono altro che una citazione, ricavata dal Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia (pubblicato nel 1963, e non nel ’66 come si legge nel romanzo), dove sono riferiti alla persona dell’abate Vella nel momento in cui prende la decisione di rivelare la sua impostura. Ma quello narrato da Camilleri è un inganno costruito sull’odio, un odio vero che, come l’amore, “non s’arresta manco davanti alla disperazione e al chianto di chi è ’nnuccenti”. Un odio che però, quasi inopinatamente, può trasformasi alla fine in “estrema capacità d’amare”. Ed è quello che succede in questo nuovo, ossimorico romanzo di Camilleri, in cui la soluzione del giallo classico viene quasi sostituita dalla catarsi della tragedia greca.
Privo di titolo
Realtà e finzione letteraria si inseguono spesso nelle pagine di Andrea Camilleri. Si confondono, si alternano. Per poi alla fine amalgamarsi in un impasto tragicomico, farsesco. I suoi romanzi storici, ambientati in un brumoso Ottocento quanto mai contiguo alla nostra realtà politica, sono lì a testimoniarlo, dalla Bolla di componenda alla Concessione del telefono. E in questo filone si inserisce anche l’ultimo libro dell’autore empedoclino, Privo di titolo (Sellerio, 2005), ambientato questa volta nel secolo scorso. Sono gli anni in cui va forte l’olio di ricino. Gli anni in cui una manganellata non la si nega a nessuno, specie se bolscevico. A dare la stura alla fantasia di Camilleri due fatti di cronaca, che in questi giorni sono rimbalzati da un giornale all’altro, ancor prima che il romanzo venisse fuori.
Da un lato, la morte di Luigi Gattuso, detto Gigino, attivista fascista di Caltanissetta ucciso a diciotto anni il 24 aprile 1921, e la conseguente condanna del presunto assassino, il comunista nisseno Michele Ferrara; dall’altro, la colossale beffa di Mussolinia, la città fantasma dedicata al duce e mai eretta. Ci sono insomma tutti gli ingredienti per trasformare il romanzo di Camilleri in un caso politico e ideologico. Ma atteniamoci al racconto del padre del commissario Montalbano. Un racconto impeccabile nel montaggio: ad apertura, una sorta di premessa, che prende le mosse dai ricordi dell’autore, e precisamente dalla “grande adunata giovanilfascista che si sarebbe svolta a Caltanissetta” il 21 aprile del 1941.
Adunata alla quale partecipa il giovane Camilleri. Di poi si passa alla presentazione dei personaggi della vicenda narrata, da Calogero Grattuso (nella realtà Gigino Gattuso) a Michele Lopardo (al secolo Michele Ferrara) a Antonio Impallomèni (Santi Cammarata). Dalla galleria dei ritratti si passa al “fermo immagine”, ossia alla moviola di montaggio, che “serve a bloccare un fotogramma” e a “studiare ogni particolare che vi è impresso”, come spiega lo stesso autore. Si tratta di un vero e proprio pezzo di bravura, nel quale il Camilleri regista e uomo di teatro ricostruisce e smonta con abilità straordinaria il fattaccio, cioè la rissa che poi degenerò causando la morte di Grattuso. La dinamica della zuffa prende corpo lentamente, e pagina dopo pagina la scena viene occupata da tutti gli attori, che sono quattro: Grattuso, in compagnia dei camerati Impallomèni e Titazio Sandri, e Lopardo. Prima le pedate e le bastonate, poi gli spari.
E ci scappa il morto, Grattuso appunto, subito elevato agli onori dell’altare fascista. I suoi funerali sembrano quasi la festa del patrono, e l’odio in camicia nera monta sino al parossismo: “Non ci potrà mai essere concordia fino a quando gli assassini comunisti saranno liberi di esistere e d’ammazzare”, proferisce il barone Talè di Santo Stefano davanti al “tabbuto”, che “pare galleggiare supra un mare di bandiere, gagliardetti, cappelli e vastoni gettati ’n terra o persi nel fui fui generale”. Il compagno Michele Lopardo, sbattuto subito in cella, non si capacita: non era sua intenzione ammazzare Grattuso, i due colpi da lui esplosi dovevano solo allontanare gli aggressori. I quali dal canto loro forniscono una diversa versione dei fatti: gli sporchi comunisti avevano dato l’abbrivio alla rissa, e le cose poi degenerarono. Il tenente dei carabinieri Pellegrini, che assomiglia alla lontana al commissario Montalbano, vuole fare chiarezza, in mezzo alla giungla della burocrazia isolana e alle violente ebollizioni di un movimento antibolscevico che sta per essere trasformato in partito.
A questo punto Camilleri inframmezza il racconto con referti, rapporti, lettere, fonogrammi, verbali, trascrizioni di interrogatori, necrologi, articoli della stampa di allora: il ritmo leggiadro della scansione narrativa fa venire in mente quello impeccabile della Concessione del telefono. Le dichiarazioni dei vari testimoni non coincidono, e nella falla della ricostruzione ufficiale Camilleri inietta il veleno della sua penna, rileggendo tutta la storia da un’altra specola. Ed ecco il risultato: la vicenda si ribalta, e la storia dell’unico mito del fascismo rivoluzionario nisseno e della Sicilia intera si trasforma in una spregevole impostura, in una “solenne mistificazione che sostituiva la realtà con una realtà virtuale, inesistente”. Molto simile a un’altra clamorosa falsificazione che in quel giro di anni si consuma in Sicilia, e nella fattispecie nel bosco di Santo Pietro a pochi chilometri da Caltagirone: l’ascesa di Mussolinia, la città forestale dedicata al duce che in teoria, una volta realizzata, avrebbe dovuto accogliere “duemilacinquecento famiglie di viddrani”, e che in pratica non fu mai costruita, se non nella finzione di un fotomontaggio. “Gigino – conclude Camilleri – fu il protomartire di una realtà stracangiata con violenza dalla volontà politica, dai giornali accomodati a quella volontà politica, dalla cosiddetta opinione pubblica orientata dal potere”.
E Mussolinia fu la prova di come quella “realtà stracangiata” fosse solo una beffa, una bolla pronta ad esplodere. Ma su tutto, domina nelle pagine di Camilleri un’amara parafrasi cristologica: quella che investe Michele Lopardo, martire vero nella pantomima del fanatismo.
La luna di carta
Dopo avere letto La luna di carta (Sellerio, 2005), con al centro ancora una volta le avventure del commissario Salvo Montalbano, viene alla mente un passaggio, fondamentale, della Voce del violino: quello che fa riferimento alla vicenda di Edipo, protagonista, suo malgrado, di “una bella storia gialla”. Dalla tragedia, infatti, lo scrittore di Porto Empedocle era riuscito a ricavare una sorta di paradigma indiziario esemplare, in forza del quale ogni investigazione, in fin dei conti, può rivelarsi alla stregua di uno sprofondamento nei meandri più impenetrabili della coscienza.
Per averne una prova, basta rileggere La pazienza del ragno (2004), dove ad avere la meglio, alla fine di una storia di torbidi interessi, era proprio la catarsi, tipica del teatro greco. Col nuovo romanzo, Camilleri si spinge ancora più in avanti, costringendo il suo antieroe a misurarsi pericolosamente con l’horror vacui. Un antieroe, va detto, sempre più consapevole del fatto che la vecchiaia avanzi minacciosa e subdola, e quasi rassegnato a cedere le armi. Montalbano, da qualche tempo, è diventato più fragile, il suo fianco ora è definitivamente esposto alle incursioni della paura e dell’angoscia, la sua memoria si inceppa e fa i capricci.
Ma c’è soprattutto un pensiero ricorrente, che si affaccia al risveglio, e che terrorizza il commissario e sadicamente lo tortura: “Quanno viene il jorno della tò morti…”. La signora nera e ossuta, armata di falce, e incappucciata fa visita al commissario di Vigàta, alle prime luci dell’alba, per far tintinnare il suo inquietante “memento”. Montalbano cerca di correre ai ripari, sistemando sul comodino una sveglia, il cui scatto della molla gli consente di non lasciarsi sorprendere. A farsi cogliere alla sprovvista dalla morte è invece Angelo Pardo, un informatore medico-scientifico, il cui cadavere viene rinvenuto orrendamente mutilato e oscenamente atteggiato. Una fine oltraggiosa, la sua, con un carico di mistero a tutta prima impenetrabile. A complicare la faccenda, ci pensano due donne: Michela, la sorella del morto, apprensiva e asfissiante sino all’inverosimile, dal fascino sinistro e inquietante, e Elena, l’amante, sinuosa come una “gattoparda”, bella e intelligente, sempre in agguato sulla sua preda. Tra l’incudine della prima, pronta a fare carte false pur di non infangare la memoria del fratello, e il martello della seconda, sensuale a tal punto da far sudare pure una statua, il commissario Montalbano non ha vita facile.
Per non parlare poi di alcuni cadaveri eccellenti, quelli di un ministro e di un avvocato molto in vista, appartenenti all’area politica della maggioranza, rispettivamente stroncati da due infarti, per la cronaca, e invece uccisi da due partite di cocaina tagliata male. Ci sono, come al solito, due vicende parallele, che scorrono all’interno del romanzo, e che sono destinate a incrociarsi. Nel frattempo, Montalbano si trova costretto a fare i conti con strani codici, nascosti nel computer di Angelo Pardo, e con lettere minatorie probabilmente apocrife; con le reticenze di Michela, introversa e timida apparentemente, ma capace di sfuriate, cui dà la stura quasi sotto possessione, e le vicissitudini di Elena, provata dalla droga e dalla vita. Questa volta il caso è davvero complesso, l’indagine maledettamente complicata, un vero e proprio “gnommaro”, per dirla con Gadda. E non è facile, in una situazione del genere, distinguere la verità dalla menzogna, leggere tra le righe delle diaboliche apparenze. Da qui, il titolo del romanzo:
“Quann’era picciliddro – ricorda Montalbano – una volta so patre, per babbiarlo, gli aviva contato che la luna ‘n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva cridutu. E ora, maturo, sperto, omo di ciriveddro e d’intuito, aviva nuovamente criduto come un picciliddro a dù femmine, una morta e l’altra viva, che gli avivano contato che la luna era fatta di carta”.
Ma quando Montalbano capisce che non è cartacea la luna, quando si trova faccia a faccia con la verità, lo spettacolo che gli staglia di fronte è quasi insostenibile. Inaccettabile.
Il lago viola e profondo degli occhi di Michela, nel quale tutti i maschi vorrebbero tuffarsi, si trasforma in un’immonda palude, nelle sabbie mobili di una vita famigliare torbida, in cui l’amore può trasformarsi, empiamente, in incesto (e qui torna Edipo). In cui l’innocenza più sfacciata può celare, sinistramente, minacciose zone d’ombra. Montalbano, consapevole dei guasti che la vecchiaia si diverte a disseminare sul suo corpo e sul suo animo, si specchia nelle acque limacciose di questo sudicio stagno, e l’immagine riflessa quasi lo atterrisce. C’è, sempre, nelle pagine di Camilleri, una compassione simenoniana, una sorta di stizzita pietà per le vittime, spesso indifese anche se apparentemente armate sino ai denti. Ma insieme, c’è anche lo sgomento, per aver intrapreso un viaggio dritto all’inferno, in quella terra desolata da cui ben pochi riescono a fare ritorno.
La vampa d’agosto
Salvo Montalbano, ormai alla sua decima avventura, smania sempre più d’insofferenza, di nirbùso, di càvudo. La “vampa d’agosto”, come recita il titolo del nuovo romanzo di Andrea Camilleri (Sellerio, 2006), non gli concede tregua: diventa foco diavolisco, che mette in stallo malignamente la sua lucidità, facendo pesare ancor di più al commissario di Vigàta la vecchiaia che incalza impietosa.
Ad arroventare ulteriormente un agosto infuocato, ci pensa una casa stregata: quella in cui vanno a villeggiare gli amici di Livia, fidanzata storica del commissario, sempre più acida e permalosa. Casa prima invasa da orrende blatte (elevate agli onori dell’altare letterario da Landolfi); poi dai topi e infine dai ragni. Viene alla mente, a questo proposito, Casa di Matrjona di Solgenitsin, racconto ambientato in una fatiscente magione infestata da topi e scarafaggi. Si tratta dell’irruzione dell’inatteso, del rimosso. Segno di qualcosa di orribile che sta per accadere. Disgustosa epifania di un sottosuolo che viene a galla, portandosi appresso le scorie immonde della coscienza. E l’impensabile non si fa del resto attendere: questa volta si tratta di un cadavere, quello di una ragazza, rinvenuto nel pianoterra del villino, sapientemente occultato perché abusivo.
E tutto il romanzo diventa una sofferta discesa agli inferi, una claustrofobica catabasi: a Montalbano, a un certo momento, comincia a mancare il respiro. E anche se i cortocircuiti della sua mente sono sempre più lenti, le illuminazioni meno frequenti, il commissario di Vigàta è l’unico a percepire che attorno a lui si fa formando “un ambiente cupo, viscido, privo d’aria, maligno. Un luogo, anzi un non luogo, dove ogni orrore, ogni infamia” è possibile. Manco a dirlo, quel pianterreno nascosto, coperto dalla terra battuta, è per metonimia, la Sicilia, un’isola dannata a un’oscurità senza fine. A un’abiezione infernale.
La parte per il tutto, dunque: il giallo dismette le vesti del divertimento enigmistico, per traghettare il lettore in una palude immonda. Fatta di parentele perigliose, di collusioni tra mafia e politica, tra mafia e imprenditoria, tra politica e banche, tra banche riciclaggio e usura. “Che balletto osceno! Che foresta pietrificata fatta di corruzione, imbrogli, malaffare, indegnità, affarismo!”. E fatta di abusivismo, piaga storica della Sicilia occidentale: se da questo romanzo si dovesse ricavare il solito sceneggiato televisivo, lo scenario di Ragusa Ibla e di Scicli sarebbe del tutto fuori luogo.
Meglio, di certo, Porto Empedocle e Agrigento. “Commissario mio – dice Spitaleri, il geometra che ha progettato il villino degli orrori, rivolgendosi a Montalbano – l’abusivismo da noi direi che è doveroso per non passare da imbecille agli occhi degli altri. Lo fanno tutti!”. Spitaleri è il cognato del sindaco di Vigàta e paga in parti uguali il pizzo tanto ai Cuffaro quanto ai Sinagra, le due famiglie mafiose della città: ecco perché riesce a vincere il novanta per cento degli appalti comunali. Al geometra piace la carne fresca, va matto per le fanciulle in fiore: su di lui si concentrano i sospetti di Montalbano e compagni, che però non tralasciano nessuna possibile pista: da qui gli interrogatori dei muratori, impegnati nel seppellimento del pianterreno abusivo, e del capocantiere.
Alla fine, solo un’intuizione di Montalbano fugherà le tenebre del dubbio e dell’impotenza, facendo quadrare i conti di un romanzo dal congegno perfetto, da allineare ai titoli migliori di Camilleri: dalla Forma dell’acqua al Cane di terracotta.
20 maggio 2007
Maruzza Musumeci
Come Pinocchio, che un bel giorno si sveglia accorgendosi di non essere più un burattino di legno, ma un bimbo in carne e ossa, così Andrea Camilleri, autore di polizieschi e di romanzi storici, col suo nuovo libro da oggi in uscita, Maruzza Musumeci (Sellerio 2007), abbandona paradigmi indiziari e documenti (anche se spesso apocrifi), per inoltrarsi, almeno apparentemente, nel sentiero tortuoso della letteratura fantastica. Prima infatti che su questo suo nuovo romanzo, “le metamorfosi” di Ovidio e di Apuleio, due delle fonti principali della letteratura italiana di tutti i tempi, hanno direttamente agito sul padre del commissario Montalbano, il quale, all’età di ottantadue anni, ha deciso ancora una volta di cambiare pelle.
E dunque, per venire alla materia dell’opera in questione, dopo l’archeologa inglese gobba che si trasforma in ninfa tra i templi d’Agrigento, come narra Guido Gozzano nel suo racconto intitolato Alcina, ci si imbatte ora, nelle pagine di questo Camilleri metamorfico (di cui da poco ha visto la luce per i tipi di Mondadori Voi non sapete, il libro sui pizzini di Bernardo Provenzano), in una sirena particolarissima, guarda caso in contrada Ninfa, nella solita Vigàta, tra il 1895 e il 1943.
Sirena che ha alle spalle, come giustamente mette in rilievo Salvatore Silvano Nigro nella bandella di copertina, La verità sul caso Motta di Mario Soldati e Lighea, il bellissimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa in cui un giorno, all’ellenista Rosario La Ciura che declama i versi degli antichi poeti, appare dalle acque del mare di Sicilia una bellissima sirena, Lighea appunto, figlia di Calliope. Ma ci sarebbero anche il messinese Giovanni Alfredo Cesareo, che in alcune sue pagine descrive una sirena “mezza ignuda”, “bella e severa come una dea greca di marmo” che sta su una conchiglia fiorita, e l’avanguardista Filippo Tomasi Marinetti, il quale però non fa emergere dalle acque la sua creatura, come accade invece nelle pagine di Lampedusa, ma se la crea lui stesso per demiurgica volontà mediterranea, facendo il bagno a Capri.
Al centro della storia raccontata da Camilleri, del suo “cunto” (un cunto multiplo, dotato di forza genetica, un po’ come accade nelle Mille e una notte) ci sta Gnazio Manisco, che torna nel suo paese originario, Vigàta, dopo venticinque anni trascorsi in America. Nel fazzoletto che gelosamente nasconde, c’è un bel gruzzolo di soldi coi quali vuole acquistare un po’ di terra e coltivarla: di piante e alberi se ne intende parecchio, avendo fatto il bracciante e il giardiniere. Gli si presenta un giorno l’occasione: le dieci salme di contrada Ninfa. Con due aggravanti, però: che il mare circonda quella lingua di terra da tre lati (“Contrata Ninfa è diversa, nun è né terra né mari”; “I piscatori e i marinari dicino che contrata Ninfa galleggia supra il mari e che sutta c’è sulo acqua”) e che il proprietario precedente, Cicco Alletto, è uscito di senno per avervi sentito un lamento. Gnazio Manisco ha infatti per l’acqua salata una vera e propria repulsione, una sorta di atavica paura, ma alla fine si decide: la terra è sua. La assaggia palmo a palmo (“A ogni passo si calava, pigliava ’na pizzicata di terra tra il pollice e l’indice e se la mittiva supra la lingua sintennone il sapore”), ne estirpa le erbacce, per piantarvi alberi, verdura e frutta. Passano gli anni nel frattempo, e Gnazio Manisco rimane scapolo.
In America, nonostante le profferte di vicine e amiche eccessivamente premurose, non volle prender moglie: lui, anti-ulisside per antonomasia, aveva un’idea fissa in testa: tornare definitivamente in Sicilia. Della presenza così vicina e minacciosa del mare, in contrada Ninfa, il protagonista del romanzo se ne fa pian piano una ragione, soprattutto quando conosce la Maruzza del titolo, che invece senz’acqua non può campare. Maruzza è una ragazza dalla bellezza ammaliante, ma ha una stranezza, che a Gnazio confida la gnà Pina, un’anziana donna “giarna comu la morti” e “sicca” che conosce le proprietà taumaturgiche delle erbe e che, all’uopo, combina matrimoni. Maruzza infatti si crede d’essere un pesce. “Un pisci?!” chiede Gnazio sbigottito: “Pisci pisci, no”, risponde la gnà Pina. “’Na sirena”. Gnazio non sa cosa sia una sirena, e allora la gnà Pina glielo spiega:
È una vestia marina. La parti di supra, fino al viddrico, è di femmina cu dù beddri minne, la parti di sutta è a cuda di pisci. Infatti la sirena non pò caminare, ma nata.
A Maruzza basta abitare vicino al mare: nei giorni in cui pensa di essere sirena, si immerge nell’acqua salata, per una sorta di irresistibile pulsione biologica. Gnazio è titubante, non sa che fare: ma non appena la gnà Pina gli mostra la foto di Maruzza, le perplessità svaniscono d’un tratto. “La vogliu”, dice senza mezzi termini. Si predispone dunque tutto per l’incontro: lui rimane folgorato.
La sua bellezza lo immobilizza in tutti i sensi, visto che Gnazio rimane immobile, sul ciglio della strada, in preda a una specie di colpo della strega. Saranno le conseguenze dello strapazzo per il duro lavoro dei campi, pensa lui: ma forse è il primo, inquietante, segnale di qualcosa di perturbante e diabolico. Ma fino a un certo punto, le pagine di Camilleri non presentano incrinature della realtà: non ci sono botole che inopinatamente si aprono e che immettono in una dimensione misterica. C’è l’oggettività del racconto, lambita ogni tanto da dicerie apparentemente farneticanti, da sospetti spiazzanti.
A poco a poco però la situazione precipita: Maruzza si reca in casa di Gnazio in compagnia della nonna quasi centenaria: creatura sinistra e demoniaca, dalla voce sinuosa. La sua epifania dà la stura a tutta una congerie di fatti strani, anche se non inspiegabili. Sparizioni, morti sospette, allusioni inquietanti. Viene celebrato un matrimonio notturno (viene alla mente un certo Landolfi), che anticipa le nozze canoniche. Il rito che prende forma mette in confusione il povero Gnazio. Il quale, però, riesce a obliterare le sue preoccupazioni, procurate dalla condotta poco ortodossa della moglie (la quale, tra le altre cose strane che fa, ciclicamente si immerge in due cisterne, ogni qual volta si sente sirena), in forza di una irresistibile attrazione per Maruzza, il cui corpo, levigato come quello di una statua, lo mette in scacco.
A questo proposito, la presenza della sirena potrebbe subliminalmente esprimere la pulsione inconscia del desiderio sessuale. Ma lasciamo il campo minato della psicanalisi, per inoltrarci invece in quello del mito: Camilleri infatti in certe occasioni fa parlare in greco antico Maruzza e sua nonna, e qua e là inserisce riferimenti, allusioni all’Odissea, in cui le sirene, com’è noto, vengono sconfitte dallo scaltro Ulisse, incatenato all’albero maestro. Hanno dunque da vendicarsi, queste creature terrestri e acquatiche insieme. E lo fanno, uccidendo prima un certo Aulissi Dimare (nomen omen direbbero i latini), e poi facendone scomparire il figlio, colpevole di assomigliare troppo al padre: almeno così pare di capire.
Si vendicano, dunque, le terribili sirene, ma sanno anche amare irresistibilmente, soprattutto se l’uomo in questione è Gnazio Manisco, che di ulissiaco non ha un bel niente. La vita matrimoniale scorre via felice, corredata dalla nascita di tanti figli. Le stranezze non finiscono, certo, ma il protagonista del romanzo oramai non si impressiona più. Peccato però che gli eventi della Storia, con l’avvento del Fascismo e la guerra, mettono in scacco la favola di Gnazio e Maruzza: una favola che fa incontrare terra, mare e cielo. Che assembla mitologia e astronomia, verità (l’apparizione a Vigàta di persone vestite con la camicia nera col distintivo del teschio, che tengono in mano un manganello e che si salutano alzando il braccio) e finzione (la casa di Gnazio che ispira Walter Gropius).
Come spiega lo stesso Camilleri nella nota conclusiva, alla base di tutto ci sta la storia del contadino che sposa una sirena, raccontatagli quand’era bambino dal mezzadro del nonno. Quella favola, dunque, passata al setaccio di una lingua sempre più implicata nel dialetto, e di una fantasia sempre meno imbrigliabile, ha partorito questo romanzo, di certo il più struggente e poetico di Andrea Camilleri.
