Dalle edizioni clandestine Perap, curate dal sempre più cinico Gaetano Testa nel suo bunker condominiale, alla collana “Il contesto” di casa Sellerio (quella, per intenderci, che allinea i titoli di Pietro Grossi e Francesco Recami, punte di diamante della narrativa italiana contemporanea). È il grande salto compiuto dal musicista palermitano Nino Vetri (sax tenore e basso elettrico nel gruppo La banda di Palermo), che si presenta ai lettori con un libricino dal titolo surreale e canzonatorio, Le ultime ore dei miei occhiali (2007).
Le ultime ore dei miei occhiali
Un’opera prima smilza, che non è un giallo (in Sicilia la cosa fa notizia), e manco un romanzo: si tratta invece di un taccuino di appunti bizzarro, di un diario ironico e smilzo. Che dell’antisistematicità, della stravaganza, della divagazione ironica fa i suoi punti di forza. A fare da collante è la memoria, che nel padre della voce narrante è sfocata riguardo al presente, mentre non perde un colpo in relazione al passato remoto (si ricorda benissimo infatti dei bombardamenti, della fame del dopoguerra, dello sbarco degli alleati). Il nonno, invece, straordinario personaggio, con una sua tridimensionalità e una impertinenza degne di un romanzo vero, è lucidissimo: i suoi ricordi non fanno una grinza, anche se è in ballo l’attualità più pressante.
Prende così corpo, pagina dopo pagina, una narrazione pendolare, aforistica, a tratti anche epigrammatica, che si sposta dalle amnesie del padre di chi dice io alla perfetta messa a fuoco del nonno. In mezzo, ci stanno tante cose: la scuola, la voglia di mettere su una band, le prove, i primi concerti, le riunioni per decidere il nome del gruppo. I pensieri procedono in ordine sparso, con una fluidità sorprendente, anche se le prime pagine partono in sordina. Si ha quasi l’impressione, a tutta prima, di trovarsi di fronte a un ormai logoro e fuori moda minimalismo urticante.
Una scrittura rinsecchita e a margine, che chiosa eventi laterali, perimetrando un’esistenza grigia, senza eroismi né entusiasmi. Ma si tratta solo di un malinteso: cammin facendo, infatti, Vetri svela la sua vera anima, che è di scrittore inglese (c’è qualcosa di sterniano in queste pagine), umorista in prima battuta. Ed è un humour che agisce lentamente, ma che a un certo punto viene iniettato come un veleno per il quale non esiste antidoto.
“Oggi tuo padre (è la madre del protagonista a parlare) è uscito per comprare il pane. È tornato dopo venti minuti ed ha chiesto: cos’è che dovevo comprare?”. E il figlio risponde: “Capita”.
Poco dopo:
“Questa notte” mi dice mia madre, “tuo padre ha fatto la pipì dal balcone. Non trovava il bagno e non mi voleva disturbare, mi ha detto”. “È stato gentile, dico”.
E ancora più avanti:
“Oggi tuo padre ha comprato tre volte il pane”, dice mia madre. “Surgelalo, dico io”.
Da un lato, dunque, lo sbigottimento della madre; dall’altro, il figlio che minimizza, che giustifica. Il tutto, sullo sfondo della casa di campagna del nonno (“nascosta dagli alberi e lontana dalla strada, era posta sulla sommità di una piccola collina. Te la trovavi davanti quasi improvvisamente alla fine di un viale alberato e non asfaltato”), dove si coagula la vita famigliare del protagonista, che prende corpo in bozzetti esilaranti. In questi momenti, la scrittura di Vetri si vivacizza, specie se di scena c’è il nonno, scampato alle campagne di Albania, Jugoslavia e Grecia.
Uomo tutto d’un pezzo, che quando si svegliava la mattina “la prima cosa che faceva era sparare con la pistola lancia razzi dal suo balcone. Alzava il braccio e sparava”. Ci vuole poco a capire che questo effervescente vecchietto ha avuto un passato da fascista, addirittura da avanguardista: ne è prova la “stanza segreta” della sua magione, zeppa di cimeli del regime e soprattutto di armi (mitragliatori, fucili, pistole, bombe a mano). Armi al centro di uno dei tanti episodi umoristici raccontati da Vetri: quello che vede i nipoti del nonno, a sua insaputa, alle prese con gli ordigni:
C’erano delle sfere di metallo. Delle bombe a mano. Cominciammo a passarcele di mano in mano eccitatissimi. Le bome! Le bombe! Poi posammo tutto. Più tardi, giù, nel salone col camino, ci accorgemmo che la più piccola dei nipoti giocava con qualcosa di metallo in mano… Mia cugina più grande sussurrò con la mano sulla bocca ha una bomba! Ha una bomba!
Come va a finire la storia lo scoprirà il lettore da solo. Il racconto va avanti guadagnando mano a mano verve e smalto. Irresistibili gli elenchi che sciorinano i nomi possibili da dare al gruppo: una band trasgressiva ed eterodossa, che quando arriva il momento dell’esecuzione sul palco, incrocia le braccia e ripone gli strumenti.
I Poeti, I Renitenti, I Contanti, I Presidenti, I Trombettieri dell’Apocalisse, Gli Scarichi Urbani… Passammo molto tempo così nel box a decidere il nome del gruppo: I Dimagriti, I Dimagranti, I Feroci, I Gogol’, I Cappotti, Le Cavallette… I Nasi… Le Brigate Rotte, I Plutocratici, I Pluridecorati… Ci serviva un nome definitivo. Scegliemmo di chiamarci Gli Ultraporci. La nostra prima incisione, l’avremmo intitolata L’invasione degli Ultraporci.
E tra una prova nel box e la decisione di marinare la scuola, tra la rievocazione di un passato in bianco e nero e un pensiero su come fino a poco tempo fa si stava al mondo, tra i banchi di scuola e in famiglia (“in confronto alle mie figlie, penso a volte, mi sento di aver ricevuto l’ultima educazione risorgimentale”), si arriva alla fine del racconto: che la dice lunga sul fatto che una persona che credi di conoscere, un familiare che magari adori e idolatri, può nascondere nel sottofondo dell’anima uno scheletro imbarazzante. Qualcosa di impensato, che però può far brutti scherzi: una sorta di ritorno del rimosso.
novembre 2007
