(di SALVATORE FERLITA)
Gaetano Testa è nato a Mistretta nel 1935. Vive e lavora da sempre a Palermo. Ha esordito con alcuni testi poetici inseriti nell’antologia Quattro poeti (1961), che ha aperto le porte all’avanguardia letteraria isolana. Ha preso parte alle riunioni del Gruppo 63, assieme a Michele Perriera e a Roberto Di Marco, i tre della Scuola di Palermo. Ha pubblicato il capitolo S.p.a. nel volume collattaneo La scuola di Palermo (Feltrinelli, 1963), il romanzo Cinque (Feltrinelli, 1968), L’idea del consumo (con Elio Piazza, Flaccovio 1973), Per approssimazione (Flaccovio 1978), Borno (con Francesco Gambero, Perapp 1990), Azzonzo (Perapp 2001) e Kleenex (con Francesco Gambero, Flaccovio 2003).
Cinque
Il primo romanzo di Gaetano Testa, Cinque (Feltrinelli), vede la luce nel 1968, e risulta direttamente collegato al volume collettivo La scuola di Palermo, edito cinque anni prima, con cui la triade costituita da Roberto Di Marco, Michele Perriera e lo stesso Gaetano Testa suggellava la vocazione sperimentale di una terra come la Sicilia, dove però conservatorismo e innovazione da sempre hanno ambiguamente convissuto, provocando a volte frizioni non indifferenti.
Ora, le pagine che Testa aveva pubblicato nell’antologia La scuola di Palermo appaiono qui incorporate, con qualche vistoso taglio, nel primo capitolo di questo romanzo-inchiesta. “Nel nostro trio – ha scritto Alfredo Giuliani – Gaetano Testa fa la parte del compiuto eversore, dell’esplosivo che scatena ‘il fuoco della modificazione’” (A. Giuliani, Prefazione a Aa. Vv., La scuola di Palermo, Feltrinelli, Milano 1963, p. 17). È lui il sovversivo e l’estremista della letteratura palermitana di quegli anni. Ma, come vedremo, si tratta di una rivoluzione di primo livello, che coinvolge essenzialmente le scelte stilistiche, le esigenze di montaggio narrativo. In questa sua opera, infatti, Testa mette a punto un assemblaggio caotico, disorganico, che procede vertiginosamente per accumulo.
La sua è una sorta di coazione ad accatastare istanze di tutti i generi, nella ferma convinzione che il romanzo possa sopravvivere solo nel momento in cui esso si rivela in grado di accogliere tensioni perennemente contrastanti. Ma la verità è che, alla fine, Testa sa come raggiungere la reductio ad unum: facendo uso del filtro del proprio corpo, trasformando il proprio palpitante e instancabile organismo in un setaccio straniante di sentimenti, avversioni, malumori e idiosincrasie. Ecco dunque il collante di tutti gli elementi narrativi che caoticamente danno forma alle pagine di questo romanzo, dall’autore sapientemente orchestrato in tre diversi momenti: il primo, intitolato appunto Società per azioni, già antologizzato nel volume collettivo della Scuola di Palermo, consta essenzialmente di materiale diaristico, vergato in vent’anni di scrittura “matta e disperatissima”. Ma accanto alla massa autobiografica di ricordi, impressioni, emozioni e sfoghi, nelle pagine di Testa trovano spazio anche i lacerti della comunicazione di ogni giorno, stralci ricavati da lettere, frammenti di dialoghi.
Certo, c’è un “io” narrante rintracciabile tra le righe del testo, che però viene continuamente sopraffatto, quasi soggiogato da un flusso di coscienza snervante e anche dai “bruschi richiami dell’ambiente” (A. Briganti, Documenti per l’avanguardia: la “scuola di Palermo”, in Aa. Vv., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Ediprint, Siracusa 1985, p. 138). Richiami dell’ambiente circostante che si fanno, pagina dopo pagina, sempre più imperiosi, cogenti, a tal punto che il critico Sebastiano Addamo, sulla scorta delle osservazioni già fatte da Walter Siti, in un suo saggio sulla narrativa siciliana degli anni Sessanta, parlò dell’esigenza, avvertita dai neoavanguardisti palermitani, di un “nuovo realismo”. Il tentativo di entrare nella realtà, di far tutt’uno con essa, “senza alcuna intenzione sistematrice o classificatoria, bensì per farla saltare in aria” (S. Addamo, I chierici traditi: interventi sulla letteratura contemporanea, Pellicanolibri, Catania 1978, p. 72). E davvero in aria salta la realtà nell’opera di Testa: la sua penna, più che nell’inchiostro, sembra intinta nella polvere da sparo. E i bersagli dei colpi esplosi dall’autore sono tanti: la successione cronologica, il rapporto causa-effetto.
Avendo in cuore – si legge a pagina 10 – di scrivere una narrazione, il romanzo sembrerebbe la qualità più idonea all’opera. Le svariate categorie espressive – l’azione; le leggi; l’alea del mercato – conciliate per assenza di decoro, agganciano un esito – sia pure puntiforme – che soddisferebbe finalmente a se stesso. Un errore dietro l’altro: con disinvoltura.
Ed è proprio puntiforme l’esito cui perviene Testa con la sua narrazione sbilenca e labirintica. Più avanti si legge: “Parecchie possibilità mitopoietiche da sfruttare”. Viene alla mente un intervento di Testa inserito nel volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Palermo 1965 (Feltrinelli, Milano 1966):
Se è autentica la necessità di dare evidenza ad un romanzo che smetta di essere edificazione sentimentale, il discorso deve necessariamente estendersi e incriminare tutta quella zona fluida di strutturazioni intermedie che attualmente stringono più da vicino che per il passato poesia e romanzo, forme della poesia e forme del romanzo; il romanzo sperimentale e la poesia novissima esistono soltanto qui, in soluzioni più o meno ma sempre parziali. Da qui, a mio parere, bisogna partire: dai limiti, dai confusi limiti; svolgendo un dibattito “improbabile”. Esempio: nel montaggio che io faccio dei miei pezzi narrativi mi giovo continuamente, o tento continuamente di giovarmi, di strutture poetiche (e, tra queste, quelle cronologicamente coetanee) e uno dei miei problemi centrali è quello di conciliare tali strutture con quelle del narrare, del mio narrare. È un problema che continuamente non risolvo e non riesco a risolvere (o cos’ mi pare) ma che tuttavia mi ostino a ritenere nevralgico, essenziale, da morirci dentro (almeno per ora). Suppongo che il senso vero della mia vera impotenza stia nelle contraddizioni obiettive che insidiano tanto il romanzo quanto la poesia, relative alla destinazione e all’uso della medesima… E noi, qui, non abbiamo parlato né di destinazione né di uso.
Si tratta di una dichiarazione di intenti, come è solito nel costume di Testa, involuta e quasi criptica, ma che veicola una vera, pressante esigenza: quella di contaminare strutture romanzesche e strutture poetiche, o meglio quella di non distinguere più tra le une e le altre, ma di accoglierle all’interno di una sacca narrativa in grado di adeguare la propria forma al materiale che in essa viene di volta in volta introdotto. Nulla di nuovo, s’intende: tutto quanto parte dalla volontà, così manifesta nei componenti del gruppo neoavanguardistico, di abbattere gli steccati che ancora dividono i generi. Nella fattispecie, Cinque di Gaetano Testa contempera sia le urgenze romanzesche che quelle liriche, in un dettato a volte referenziale, a volte fortemente conativo, a volte volutamente sconcertante.
Una Palermo modificante
Andando avanti nella lettura delle pagine di Testa, meglio si comprende l’idea che l’autore ha della sua città, Palermo, teatro delle sue oltransistiche farneticazioni: “Voi tutti – scrive Testa – dovreste meditare come Palermo sia modificante”.
La Palermo di Testa è infatti una metropoli proteiforme, cangiante: con i palazzi rutilanti di Via Libertà e i quartieri degradati del centro storico, con le aperture mentali e le accelerazioni del pensiero, e con la zavorra di un passato invasivo e castrante.
Non è certo facile riassumere i fatti raccontati da Testa, e anche tutte quelle cose che fatti non sono, che non sono proprio nulla, che sono probabilmente aria fritta: e che però lo scrittore palermitano sa come propinare con sarcasmo al lettore.
E però ci sono alcuni snodi centrali della prosa fiume di Testa: come quello che riguarda il rapporto tra letteratura e biologia:
Le lunghe scadenze – cit.; la morte improvvisa di Albert Camus; la vecchiaia di Goethe e di Manzoni; la detenzione di Antonio Gramsci; l’orario d’ufficio; ecc. – sono fatti biologici immediati, quelli che assimilo più lentamente. Ciò che è provvisorio sarebbe, in fondo, estesa eversione. La tentazione di comporti il futuro secondo le qualità delle mie faccenduole attuali rimane l’occupazione tenace, arrogante, delle mie ragioni… è questo il più intenso degli aspetti ipotetici dell’essere presente. Non ne godo; né mi protegge dagli eccessi possibili, anzi… circa il suo sviluppo fisiologico, Lucia smise di essere discreta quando capì.
Più in là l’autore cerca di spiegarsi ancora meglio: “Le doti dell’organismo attive in un’ideologia estranea alla cosa che si andava dando”. E ancora: “Mi dichiaro vinto dopo una moltitudine di percezioni”.
La scrittura del corpo
Va in tal modo prendendo sempre più forma quella che giustamente è stata definita la scrittura del corpo di Testa, da lui praticata con entusiasmo e irriverenza; una scrittura che ci riporta addirittura a Freud, il quale in parte l’ha svelata, in cui si raccontano appartenenze sociali, sintomi, gusti, umori, fantasie, e che sembra aver fatto proprie le provocazioni di Duchamp, di Yves Klein, di Piero Manzoni.
Ma lasciamo parlare ancora Testa:
Anche per Nicolino la qualità più dispettosa è il tempo. Ma il suo momento è diverso dal mio. Lui si rammarica della cosa; io la percepisco nei miei organi.
L’unica organicità ammessa è proprio quella dell’autore: “In questo senso l’aspirazione è togliere alla città ogni caratteristica biologica e apprenderla in ciò che è: dinamismo inorganico, atemporale”. Ed ecco che il corpo dell’autore si espande e diventa esso stesso collettività.
La città cantata da Testa è sì Palermo, ma la sua natura è “oscillante”, la sua fisionomia quasi imprendibile. Oscillante e imprendibile, dunque, ma solo perché tale è lo sguardo di Testa, in continuo ondeggiamento, in perenne fluttuazione sulle cose. E questo perché il suo sguardo, irridente e nevrotico, si nutre continuamente di “umori quotidiani e – insieme – paradossali” (M. Perriera, Gaetano Testa, in La spola infinita, Sellerio, Palermo 1995, p. 144).
Testa ha una voglia insaziabile, ingorda di realismo, sa come calarsi “nel caos di una esistenza usa e getta, in cui il narrante e la realtà narrata partecipano di una stessa frantumazione di punti di vista e della loro reciproca interferenza” (Ibidem). Ed è tutto quello che accade nelle pagine di Società per azione.
Nel secondo capitolo, intitolato 8 luglio 1960, si assiste invece a una registrazione del chiacchiericcio di Villa Sperlinga, una zona palermitana lottizzata e frantumata in un reticolato di vie e in una foresta di cemento; frantumazione che traduce in caos tutto il mondo sociale e fantastico della “mitica e mitopoietica” infanzia dei ragazzi di allora:
Poi la Villa si spopolò. Smise di piovere. Gradatamente, ad uno ad uno senza sollecitudine ma con ordinata precisione i tanti strati di vapore scomparvero; senza tintinnare sulla lamiera ondulata, al bar, dove, sotto, rimase il terriccio dei manovali, misto a calce, che ancora, anche se pianissimo, crepitando, si rigava, moltiplicati i tagli, i fiori e un tanfo di antichissimi tubi di neon sminuzzati dai bambini.
La Villa si spopola, e cominciano i primi lavori municipali, mentre per strada i rivoluzionari scagliano pietre e pezzi di legno contro le persiane sbarrate.
C’è, in queste pagine di Testa, un cicaleccio (arbasiniano?) a volte insensato, è vero, ma c’è anche il tumulto della folla, che va crescendo. Intanto, la catalogazione va avanti, e in essa si alternano voci, impressioni, sensazioni, punti di vista: con disinvoltura si passa dalla terza alla prima persona, in un movimento pendolare e ossessivo.
Con Hep!, il terzo capitolo, l’autore infine mette mano ai suoi materiali onirici, seguendo sempre più la tangente dell’astrazione a ogni costo. A popolare queste pagine, troviamo Fifo l’intellettuale, Fofo il pederasta, Parolone il confusionario, Carol, Loredana, le ragazzette, e altri ancora. C’è una dimensione a tutta prima polifonica, ma che a lungo andare si rivela soggettivistica: tutto passa attraverso “le tecniche del corpo” dell’autore.
E questa è la forza delle pagine di Testa, ma nello stesso tempo ne rappresenta il limite: la fisiologia dell’autore si confonde con quella della città stessa. Si assiste a una sorta di sovrapposizione: alla fine la centralità del soggetto, così vituperata dai componenti del Gruppo 63, cacciata fuori dalla porta della letteratura, ora entra dalla finestra della scrittura organica di Testa. I pensieri, le sensazioni, diventano pulsazioni, sussulti, guizzi e trasalimenti dell’autore stesso, che reagisce di fronte a una città, Palermo, immersa nella storia e nello stesso tempo isolata e tagliata fuori dal mondo.
Più ci si avvicina alla fine del terzo capitolo di Cinque, e più il lettore si sente sfiancato dal meccanismo della scrittura di Testa, che a un certo punto comincia a girare a vuoto. Il minimalismo delle annotazioni si infittisce così tanto da togliere il respiro: le note, gli appunti, le chiose sembrano svilupparsi per partenogenesi: una cosa mette in moto un’altra, quasi all’infinito. A un certo punto, Testa decide di fermarsi: dal canto suo, il tentativo, meglio l’esperimento di dar forma a un’inchiesta che si elabora da sola, è andato in porto.
La letteratura dal vero che l’autore vuole mettere in pratica sembra prendere forma quasi naturalmente. Ma che ruolo svolge, in tutto ciò, l’inquirente? Testa risponde nella pratica, dimostrando che chi conduce l’indagine non può che far parte della realtà che investiga, mettendosi in relazione e spesso in ironico confronto col mondo da analizzare. Anzi, il corpo di chi conduce l’indagine diventa quasi il prolungamento del mondo circostante, e nello stesso tempo il vetrino da laboratorio.
Azzonzo
Da anni ormai Gaetano Testa vive come un esiliato, nella torre d’avorio del suo palazzo condominiale, meta di continui pellegrinaggi da parte di amici e sodali, coi quali ha dato vita a una piccola casa editrice nel 1990, vero e proprio sismografo letterario che nel tempo ha registrato sobbalzi e sussulti della scrittura sperimentale in Sicilia.
E da quel suo osservatorio, Testa continua a guardare la città, a spiarne la vita, dettagliando odori e immagini e non stancandosi mai di compilare meticolosamente pagine di diari intellettuali, di annotare sensazioni e stati d’animo, di scrivere racconti fantascientifici ambientati in una Palermo stralunata ma riconoscibile. E nei confronti della sua città, dal fatidico 1968, anno di pubblicazione per i tipi della Feltrinelli di Cinque, fluviale opera in prosa in cui confluivano elementi diaristici, lacerti della comunicazione di ogni giorno, brandelli di realtà, galleggianti tutti come relitti sulla pagina e sospinti da un autoironico flusso di coscienza, Testa ha sempre rivolto il suo umore sardonico e irriverente, il suo sguardo irridente e glaciale, pronto a cogliere il caos e i rumori della vita quotidiana. Fino ad approntare un Ricettario con foto per stare in buona salute in una città – Palermo – che non esiste.
Una città, Palermo, che ritroviamo nel diario atipico che è recentemente uscito per le edizioni Perap e che si intitola Azzonzo (2001): trascrizione straniante di un vagabondaggio del corpo e della mente per le vie del centro, per i meandri periferici e semivuoti, e resoconto di incontri, chiacchierate, divagazioni, in un continuo sfasamento tra tempo interiore e tempo esterno. Il tutto vergato attraverso una scrittura del corpo, da Testa praticata con entusiasmo e irriverenza, che ci riporta addirittura a Freud, il quale in parte l’ha svelata. Una scrittura in cui si raccontano appartenenze sociali, sintomi, gusti, umori, fantasie, e che sembra aver fatto proprie le provocazioni di Duchamp, di Yves Klein, di Piero Manzoni.
Il vagabondaggio raccontato dall’autore si consuma in una Palermo perennemente battuta da una pioggia implacabile, e immersa in un’atmosfera alla “bled runner”. Sono trascorsi più di trent’anni dalla pubblicazione di Cinque, e Gaetano Testa è ancora convinto che Palermo non sia cambiata, e che anzi continui a essere una città senza specifiche memorie culturali, senza una sua riconoscibile tradizione. È una città che, dentro il caos apparente, assomiglia a tutte le altre città di mare; una città, dunque, che continua a “non esistere”, come lo stesso Testa scriveva nel 1978.
L’ex neoavanguardista palermitano (ma Testa è mai stato un vero neoavanguardista?), nelle pagine del suo diario si fa vessillifero di una sorta di nomadismo esistenziale, un nomadismo della memoria, che sembra essere oggi la fase estrema del sapere e del non sapere. Lo stesso titolo del libro, Azzonzo, indica la condizione di uno che, ovunque vada, non smette di essere se stesso, un organismo ticchettante che prende continuamente atto di quello che sta attorno a lui. In questo aspetto va misurata tutta la particolarità del modo di sentire la città fatto proprio da Gaetano Testa.
Si parlava, all’inizio, di un continuo sfasamento temporale messo in atto dalla scrittura di Testa: “osservo con tono brusco che gli si danno si e no 70 anni. ‘ne ho già fatti 96 in aprile’; “ieri fu venerdì. oggi appunto giovedì. il mio tempo ubriaco”; “di colpo è mercoledì”; “non riesco a fare il conto dei giorni dei mesi delle ore passate”. È una scrittura dello scarto quella di Testa, del continuo disorientamento, del ribaltamento temporale, dell’inversione dei significati e del senso comune. Un istante, per l’autore, può anche durare “27 minuti”; “che strano gli oggetti mi vengono in mente con crescente fatica. a me in effetti il tempo non va. va rispetto a me dilatato. scantona.”: ma non importa, anzi valgono soltanto questi interstizi che Testa crea tra cosa e cosa, tra la città e se stesso, tra il tempo e la memoria.
Si tratta di fenditure di senso, attraverso le quali Testa introduce il non amalgamato, ciò che rimane eternamente disomogeneo. Tutto ciò vale anche relativamente agli spazi della città, alla sua toponomastica, rispetto alla quale Testa oppone il suo netto rifiuto. A un certo punto di Azzonzo, infatti, si legge: “Non so che ci faccio qui”, di chatwiniana memoria. Da tutto ciò, dunque, la convinzione che un qualsiasi autobus possa condurre l’autore al “2315”, che è il numero del suo condominio; che una stradina asfaltata alle spalle del Massimo possa condurre Testa ovunque voglia”. Si ha l’impressione che, ogni qual volta nelle pagine di Azzonzo ci si mette in moto, attraversando strade e vicoli di Palermo, si ridisegni la città, si riconfiguri di volta in volta. “Azzonzo” non indica soltanto un peregrinare senza meta, ma soprattutto una tensione demiurgica, una volontà di stravolgere e di risistemare abolendo sensi unici, divieti di accesso.
Tutto questo attraverso quella che Massimo Onofri ha definito una scrittura “peripatetica”: una scrittura che va a spasso, in giro, che si dilata e si restringe, che si inerpica e si inabissa. “Mi dico che il piccolo nostro tempo di noi umani fa fuori in continuazione lo spazio anche quello infinito”: ecco dunque il binomio tempo-spazio su cui lavora Testa, i pilastri sui quali costruisce una cronologia e una geografia tutte interiori, della coscienza o dell’incoscienza.
Ma l’assillo prioritario di Testa, che prende corpo via via in questo diario, riguarda, come si è accennato all’inizio, la memoria:
E allora penso questo. che un ricordo non c’è mai. che la memoria non è costruita da atomi da vibrazioni ma da onde da riflessi statici-che-possono-diventare-dinamici. la memoria propriamente non c’è. e non c’è neppure questo che io faccio quando ‘scopro una foto di 30 anni fa’. c’è soltanto quello-che-tira. ‘soltanto’ è ovviamente aspra autoironia.
Non esiste, per Testa, una memoria della continuità, ma soltanto una memoria “percettibile”, che funziona ad intervalli, che si nutre di spaziature, di pause continue. In queste sospensioni, che possono durare anche a lungo, è la memoria percettibile che si aziona, e che immette, nel proprio stralunato archivio, suoni, odori, afrori, in ciò coadiuvata dal sensibilissimo olfatto di Testa, e dal suo udito. Una memoria che, alla fine, rielabora tutto in continuazione. Da qui la cancellazione del passato, da qui la Palermo dell’eterno presente di Gaetano Testa. Una Palermo che ha rinunziato al sole, ai colori mediterranei, alla solita scenografia oleografica: in essa gli elementi della natura sono in perenne rivolta.
La pioggia, ma soprattutto il vento nelle pagine di Testa sono presenze costanti: un vento che fa venire in mente quello che scrisse una volta Michele Perriera a proposito del suo ex compagno di strada: “La pagina di Testa – come il pesante silenzio o l’ostinato rumore che le sta sullo sfondo – ha il fascino e la caducità di una lettera molto intima, che ti sfugge di mano in un giorno di vento. La vedi saltare di qua e di là, allegramente, mentre avverti che uno sconfinato abbandono cade tra te e lei”.
Quel vento di cui parlava Perriera è lo stesso che in questo libercolo sembra aver messo in subbuglio l’ordine delle pagine: non c’è nulla di progressivo nell’ordine dato da Testa alla sua materia narrativa. Tocca al lettore immergersi nel caos della scrittura di Testa; caos che è poi quello del mondo, dal quale la sua scrittura ricava umori e sollecitazioni, di cui registra il movimento meccanico degli ingranaggi più nascosti. Ingranaggi sociali, ma soprattutto ingranaggi cerebrali: nelle pagine di Testa tutto si risolve, alla fine, in una situazione mentale.
Alla fine di questo viaggio straniante che l’autore ci ha fatto compiere, che sembra richiamare quello dell’Ulisse joyciano (che si compia in un giorno, come quello di Blomm, o in più mesi, come nel caso di Testa, poco importa: è la durata interiore che sembra coincidere), ci rimane impressa una considerazione dell’autore, trascritta a metà libretto:
le storie e le cronache non descrivono l’inferno del mondo ma per qualche istante trattengono echi astratti che diventano chiazze via via più informi.
Echi astratti, chiazze via via più informi: ecco cosa diventa la scrittura di Testa. I suoi nugoli di parole quasi subito assumono l’aspetto di un grumo verbale, di un coagulo di sensi. Al lettore l’arduo compito di decomporre, in forza di quell’empito epistemologico di cui la scrittura di Testa è ignara latrice.
Kleenex
E dopo meno di due anni dalla pubblicazione di Azzonzo, Gaetano Testa, assieme al sodale Francesco Gambaro, ha dato alle stampe Kleenex (Flaccovio 2003), raccolta di note pubblicate negli anni Ottanta nell’eponima rubrica della rivista “Per Approssimazione”.
Il titolo, che in apparenza indica la transitorietà delle cose scritte, la loro inevitabile caducità, in realtà cela la sua vera natura antifrastica, nel senso che queste note, concepite come divagazioni provvisorie e fugaci, tali non sono se oggi possono essere riproposte e rilette con un certo piacere. Ma in ogni caso il titolo risulta pertinente, se si pensa che queste pagine hanno realmente “assorbito” gli umori e i malumori del decennio in questione, registrando sistole e diastole di un gruppo di sregolati; un decennio che, tutto sommato, non sembra poi così lontano, nel quale la riflessione sulla scrittura, rigorosamente alternativa e sganciata violentemente dalla tradizione, andava di pari passo con una spiccata attenzione sociologica.
Leggere dunque Kleenex, che ha il roboante sottotitolo di Appunti di deontologia letteraria palermitana, significa compiere un viaggio a ritroso in una Palermo inedita, capovolta, beffarda, e scoprire l’altra faccia della letteratura siciliana.
Oggi chi sperimenta – si legge in una nota scritta nel 1982 – non si colloca affatto in una dimensione contestativa dell’ordine costituito. Semplicemente, non scrive per un’idea, per far risaltare l’intelligenza di uno schema. Scrive dal e il suo disagio: non ritrovando coinvolgimento e stimolo nell’attuale paesaggio letterario, sentendo con ottimismo e piacere il mondo che lo circonda e che pure fortemente penalizza il suo lavoro e i suoi spazi vitali.
Scrivere “dal e il suo disagio”: da questa postazione Gaetano Testa e Francesco Gambaro hanno lanciato i loro dardi avvelenati contro la schiera degli scrittori istituzionali, con Sciascia in testa, e a seguire Consolo e Bufalino, “involontari padrini” con la loro scrittura “ultracinquantenne, notarile, sbieca, precoitante”; una scrittura che ha rappresentato, sempre secondo Testa e Gambaro, “l’hortus conclusus della letteratura”.
Le pagine di Kleenex, è facile capirlo, sono tutte attraversate da uno spirito da “bastian contrario”, da uno smaccato atteggiamento snobistico che spingeva allora verso comportamenti eccessivi e che faceva usare “con disinvoltura aggettivi urticanti e storicamente improponibili”, come hanno ammesso gli stessi autori. I quali paragonavano la letteratura, la pratica della scrittura a un “sommergibile atomico”, che “spia la legittimità dell’opera dei succhi gastrici”, e che “solidarizza con le impressioni del portiere del condominio”. Succhi gastrici, impressioni del portiere del condominio: tutte cose che fanno parte di quel “nulla” da raccontare di cui si ha veramente bisogno, stando almeno alle irriverenti indicazioni di Testa e Gambaro, “per cominciare a raccontare”, come si legge in una nota scritta nel 1984 e che funge da vero e proprio manifesto programmatico.
Il recupero di questi appunti critici, poi, dà l’idea della funzione svolta da una rivista come “Per Approssimazione”: vera e propria palestra di attività comunitaria, di percezione e di sensibilità collettive. Palestra nella quale si formeranno scrittori diversi tra loro, come Fulvio Abbate, Carola Susani, Evelina Santangelo, Costantino Chillura, tutti quanti accomunati però da un atteggiamento irriverente nei confronti della tradizione letteraria, e da una marcata apertura nei confronti dei nuovi linguaggi.
