Gianni Riotta è nato a Palermo nel 1954. Ha studiato Logica all’Università di Palermo e giornalismo alla Columbia University di New York, dove è stato mentor dei laureandi. Ha lavorato per vari giornali da Roma, poi da New York come commentatore del “Corriere della Sera”. Nel 1993 ha condotto la serie tv Milano, Italia. Ha pubblicato: Cambio di stagione (Feltrinelli, 1991), Ultima dea (ivi 1994), Ombra (ivi, 1995), Principe delle nuvole (Rizzoli, 1997), N. Y. Undici settembre (2001) e Alborada (Rizzoli, 2003).
Cambio di stagione
Nelle opere di Gianni Riotta è la Storia la vera protagonista, col suo corredo di ideologie e di dottrine. Accanto ad essa troviamo i destini, le esistenze di quegli uomini che cercano di forgiare la Storia, o di cambiarla; e poi, inevitabilmente, il motore mobile di cui la Storia ha bisogno per andare avanti, ossia la guerra, le battaglie, i conflitti, in una parola la violenza cieca scatenata dall’uomo, e tutto ciò che da essa deriva. E questo arrovellarsi continuo di Riotta sulla Storia ci induce a una riflessione: non c’è rilevante protagonista nel panorama letterario isolano, da De Roberto a Pirandello, da Brancati a Lampedusa, da Sciascia a D’Arrigo, a Consolo e a Bufalino, che non si sia espresso riflettendo fortemente e dubitando sulla Storia, o, come ha scritto una volta Domenico Porzio, “su un’ipotesi di storia personale, di esperienza vissuta” (Sicelides Musae 1988).
Nato a Palermo nel 1954, giornalista e corrispondente del “Corriere della sera”, Riotta ha esordito come scrittore di racconti pubblicando nel 1991 Cambio di stagione (Feltrinelli 1991). Una raccolta nella quale l’autore, dimostrando subito di saper far sua la misura del racconto, ha preso di mira le ragioni di vita di personaggi lacerati, il cui alto livello di coscienza li porta inevitabilmente a interrogarsi sul proprio destino, sulle bizzarre leggi del caso, sul crollo delle ideologie, sulle offese della Storia, sui guasti che essa provoca, sulle ferite e sulle cicatrici di chi con la Storia alla fine fa i conti.
Riotta è uno scrittore che tormenta i suoi personaggi, mettendone in mostra più che le viscere i meccanismi celebrali, i cortocircuiti logici. Come accade nel primo racconto di Cambio di stagione, nel quale Johann Gottfried Seume, il protagonista, quasi per suffragare la propria claudicante esistenza, cerca una stampella salvifica nelle pagine degli autori da lui frequentati, chiedendosi, ad esempio: “Che cosa diavolo avrebbe fatto Orazio, se si fosse trovato nella mia situazione?”, oppure: “Che consiglio mi darebbe Ovidio Nasone?”.
Gli antieroi di Riotta sono condannati a fare esperienza dei propri errori, a scontare sulla propria pelle le illusioni, i progetti velleitari, i sogni infranti della loro vita. Si tratta in sostanza di un campionario di umiliati e offesi, di sconfitti i cui vittoriniani “astratti furori” non possono che infrangersi a contatto con la violenza della storia e del mondo. “Ricordiamo i morti – si legge nel racconto intitolato Ethica, ordine politico demonstrata – di un giorno per dire ai vincitori di un altro che l’unica vittoria possibile è accogliere lo sconfitto. Agli sconfitti diciamo: non disperate. Se le vostre ragioni sono solide, prevarranno. Anche oltre la vostra vita”. In questo capovolgimento di destini, di ragioni ultime, è da cercare il senso delle pagine di Riotta, le quali sembrano tutte attraversate da un solo, cruciale interrogativo: “E’ dunque perduta la sua vita?”.
È questa la domanda radicale sulla quale si arrovella l’autore, mettendo in scena eventi e vicende pronte a deflagrare, a sbriciolarsi nell’urto con la crudeltà e la sopraffazione. Una domanda alla quale lo scrittore cerca di rispondere, ponendo sotto gli occhi del lettore i meccanismi inceppati di esistenze in bilico tra speranza e disillusione. “Lo sa che la saggezza si trova dentro i vulcani? – chiede Ramirez (uno dei protagonisti del racconto intitolato Pirandello a Bonn) a una signorina – L’antico filosofo greco Empedocle, cercandola, fu inghiottito e per sprezzo il monte sputò solo un suo calzario.” Ecco, i personaggi di Riotta, perennemente alla ricerca della saggezza, sono condannati a essere inghiottiti dai vulcani sui quali di volta in volta si inerpicano per trovare il senso della loro vita, la verità tanto agognata.
E probabilmente l’unica via d’uscita sembra essere quella dell’annullamento della memoria, del ricordo, la cancellazione di qualsiasi reminescenza, come si legge alla fine dell’ultimo racconto di Cambio di stagione:
Ognuno di noi può immagazzinare sapere, sia pure in differenti quantità, ma chi mai riesce, per quanti sforzi faccia, a cancellarlo del tutto e non serbarne una minima traccia, un sedimento pur sottilissimo, che rischia di affiorare nel momento meno atteso? Il computer e i suoi dischetti godono di questa Virtus…
Alla fine, come ha notato Michele Perriera, “il fondamento instabile di questo narrare è una specie di frantumazione dell’anima, il cui destino sembra in tutto simile a quello dei corpi così spesso dilaniati dalle pistole e dai coltelli” (La spola infinita, Sellerio 1995). Una frantumazione dell’anima che diventa una sorta di correlativo oggettivo della frantumazione delle certezze, delle ideologie, della Storia.
Ultima Dea
A tre anni di distanza da questa raccolta, Gianni Riotta pubblica il suo primo romanzo, Ultima Dea (Feltrinelli 1994), nel quale l’autore mette nuovamente a fuoco i temi a più lui cari, in una sapiente mistura di atmosfere e linguaggio hard-boiled e di schema da romanzo di idee, come ha notato Filippo La Porta (La nuova narrativa italiana. Travestimenti e stili di fine secolo, Bollati Boringhieri 1999). Al centro del libro troviamo Thomas Diognetus, professore sessantacinquenne, uomo tranquillo, ex comunista, sognatore col tempo disilluso, e il fratellastro Graham Ramsey, uomo spregiudicato, trafficante d’arte, cinico e ricattatore: si tratta di due protagonisti diametralmente opposti, di due facce dell’unica medaglia della vita. Il romanzo si apre con la decisione di Thomas di prendersi finalmente una vacanza e di tornare nell’isola della sua infanzia, come trascinato da una forza misteriosa. Lì troverà il fratellastro, alle prese coi suoi loschi traffici, una setta carismatica che invoca il padre defunto, celebre matematico in odore di santità, come patrono, un Vescovo del Vaticano che vorrebbe impossessarsi delle carte del genitore, e poi due ragazzi incontrati per caso coi quali Thomas entrerà in armonia e intimità.
Riotta, che con un occhio guarda ai maestri del poliziesco americano, nella fattispecie Dashiell Hammett e Raymond Chandler, immerge questa materia incandescente nelle tipiche atmosfere da spy story internazionale, trasmettendo alla trama un ritmo convulso, che a tratti lascia il lettore col fiato sospeso. Ha scritto in proposito Enzo Siciliano: “Riotta è siciliano, e in lui l’arma dialettica passa dai paradossali, astratti ragionamenti a un gioco di incastri positivi, per dare linfa a una narrativa d’azione”.
A volte sembra quasi di trovarsi di fronte a un romanzo filosofico vergato con la penna del più scaltrito giallista: e quello che all’inizio potrebbe apparire come un accostamento blasfemo e stridente, alla lunga rivela la felicità di una scelta che conduce Riotta a fare i conti con problemi metafisici, con rovelli ontologici, sempre però minacciati da un forza contraria, maligna, una zavorra che trascina i buoni propositi, facendoli precipitare negli abissi della colpa.
Anche qui ritorna il confronto tormentato tra l’uomo e la storia: “Tu credi ancora nella Storia, Giusto e Sbagliato. Non capisci che viviamo per caso? Gli storici sono letterati incapaci di inventarsi una trama: si attaccano alle date, per arrangiarsi”. Vivere per caso: ecco la tremenda verità dalla quale i personaggi di Riotta sembrano voler fuggire, una verità da confutare o capovolgere. Ma c’è anche un tormento metafisico in questo romanzo di Riotta, che affiora dalla lettura dei diari del padre del protagonista:
Nella mia vita si fa sera, Signore, non ho al mio fianco nessun compagno, e Tu non mi appari, perché non so vederti. Ti cerco allora, come fossi a Emmaus, in ogni viandante. Se solo potessi prendermi cura di chi mi hai affidato e non delle mie ambizioni. Allora, ti avrei già trovato, Padre”. Il figlio, lette queste parole, stenta a riconoscere in quest’uomo “tormentato” il padre dei suoi ricordi, “scherzoso, simpatico, mai troppo preso dal lavoro.
Il romanzo di Riotta, come ha scritto ancora Filippo La Porta, è “espressione di un sapere relativistico, postmoderno, scettico, catastrofista e nostalgico”, nel quale i protagonisti cercano affannosamente di recuperare in sé o negli altri le vite non vissute, i percorsi falliti, gli appuntamenti mancati. Una ricerca di salvezza, quasi di redenzione, la speranza di un ancora possibile cambiamento, in un mondo che però non fa nulla per rendere facile tutto ciò.
La verità, sempre lambita, è un fantasma pronto a scomparire, a far perdere le sue tracce e a lasciare un senso di inquietudine e di irredimibilità.
Principe delle nuvole
Col terzo romanzo, Principe delle nuvole (Rizzoli 1997), Riotta “sembra dare forma più compiuta alle numerose sollecitazioni esistenzialistiche emerse nei racconti di Cambio di stagione” (Giuseppe Saja). Il protagonista della storia, il colonnello Terzo, teorico dell’arte militare, è convinto che la guerra sia governabile con gli strumenti della ragione, e di conseguenza passa in rassegna tutte le grandi battaglie del passato per trovare una regola, un preciso metodo “per decidere come comportarsi anche nella vita di ogni giorno”, per stabilire se la guerra e la vita siano dominio del Fato. Ma c’è un timore che rode Terzo, che lo attanaglia e lo logora, quello di imbattersi una volta per tutte nelle “inutili rovine” della sua vita. Ma lui cerca in ogni modo, attraverso lo studio della guerra, di poter prevedere e capire ogni cosa, di rendersi invulnerabile al dolore e al fato.
Terzo, nelle sue affannose e maniacali ricerche, non fa che porsi due interrogativi: “Perché si vince?”, “Perché si viene sconfitti?”. Sulla base di queste domande, il colonnello costruisce teorie, porta avanti le sue analisi, rendendosi conto ogni giorno di più di quanto sia “effimero il confine tra vittoria e sconfitta”. “Ogni battaglia – confida Terzo al suo discepolo – contiene un simbolo”: decifrare questo simbolo, decodificarlo significa soprattutto entrare in possesso del segreto della vita. Per fortuna, Terzo ha un amico, il collega Campari, meno sicuro di lui, sprovvisto di certezze inossidabili, il quale ogni tanto invita il colonnello a guardare il mondo a testa in giù: “Come sono le strategie adesso? Il vincitore perde e lo sconfitto vince”.
Ecco che si affaccia nuovamente nelle pagine di Riotta il capovolgimento di ruoli, di vaga memoria bufaliniana, tra vincitori e vinti, tra trionfatori e sconfitti. Un capovolgimento che realmente si verificherà nel romanzo, quando Terzo sarà costretto dalle circostanze a mettere in pratica le sue teorie, a verificarne la bontà. E una volta stretto tra destino e strategia, Terzo proverà l’amaro disincanto della ragione. A un certo punto, il protagonista non potrà che ammettere:
“Io, nel mio niente, ho inseguito la chimera di un Manuale perfetto di vita e di guerra, un modo per vincere sempre, senza mai commettere errori, un criterio razionale per tirarsi fuori dalle situazioni più drammatiche. E mentre mi preparavo a ogni battaglia, con una strategia invincibile, la vita mi è passata accanto, ignorandomi”.
Anche se alla fine del romanzo è come se Terzo consegnasse ai posteri un “algoritmo nascosto” che potrà permettere di non perdere, pur sconfitti, e di non diventare arroganti, pur vincendo; la strategia infatti che il colonnello cerca di teorizzare è basata sulla vita e non sulla morte, visto che in guerra vince chi è capace di soffrire di più.
La strategia che pretende di vincere, sembra concludere Terzo, non esiste. Il caos, sempre in agguato, può sconfiggerci in ogni istante, ma in ogni istante ci si può salvare.
In ultima analisi, il perché del combattere diventa per Terzo il perché della vita. Solo così si possono trovare risposte esaurienti alle “grandi domande” poste all’inizio del romanzo, di sicuro il libro migliore di Riotta.
Alborada
Nell’ultima opera dello scrittore palermitano, Alborada (Rizzoli 2003), ritorna lo spettro della guerra, leit motive della narrativa di Riotta; guerra che influenza vita e destini degli uomini, che piega gli animi, che strazia e tormenta. Guerra come forza viscida, alienante, in grado di rodere come un tarlo certezze, idee, anime.
Alborada è il romanzo della fuga, del ripiegamento, della disfatta, ma anche del ritorno di vittoriniana memoria: da una parte troviamo Nino Manes, soldato siciliano che di mestiere fa il logico matematico, e che alla fine della guerra mondiale evade da una prigione Usa e intraprende un viaggio sulle tracce di un amore, per una fidanzata che ha inaspettatamente deciso di sposare il suo vecchio professore. Ma Nino Manes non è solo, visto che accanto a lui troviamo un compagno di fuga, il capitano di corvetta Athos Pollini, comandante di sommergibili, specialista di sabotaggi, che si fa credere un pericoloso nazista pronto a collegarsi con assaltatori tedeschi sbarcati sulla costa atlantica per un’azione spettacolare.
Dall’altra parte ci stanno gli inseguitori, il capitano Cheever, specialista di antisabotaggio e decrittazione di codici, e il maggiore Cafard dell’Office of Strategic Services.
Tutto il romanzo, di conseguenza, è sapientemente costruito su questa caccia, sulla fuga e sul pedinamento, in un abile alternarsi di spazi e in un incalzare crescente dei tempi narrativi. E mentre di dipana la vicenda dei fuggiaschi e degli inseguitori, Riotta è come se, a sua volta, inseguisse le vere ragioni che inducono le nazioni al conflitto, che creano i presupposti per l’odio e la violenza che ad ogni istante sono sul punto di deflagrare. Come è stato notato, c’è in Alborada qualcosa di struggente che ha a che fare con un sentimento di sconfitta.
Sentimento che però alla fine è come se fosse smentito dall’autore:
Egoismo e paura ci perderanno. La compassione, la forza e la solidarietà difenderanno non quel che c’è di ingiusto nel nostro mondo, ma quel che c’è di meglio: la ragione, la generosità, la libertà, la verità.
Alla fine, si ha l’impressione che questo libro avventuroso di Riotta, in cui Hemingway sembra dare la mano a Chandler, sveli la sua vera natura di romanzo problematico, un romanzo di formazione “generazionale”, in cui si agglutinano tutti i temi e i motivi cari all’autore, in una combinazione che consente di riflettere sulla guerra, sui destini dei vincitori e degli sconfitti; un romanzo, come ha scritto Franco Brevini, che racconta “l’eterna marea di speranza e fallimento, ribellione e sconfitta” (“Panorama” n. 51 – 2002).
17 maggio 2006
