Mag 17

Valentina Gebbia

Valentina Gebbia è nata nel 1958 a Palermo. Laureata in giurisprudenza, è stata conduttrice radiofonica e poi bancaria. Nel 1999 ha pubblicato il romanzo A qualcuno piace caldo (ed. Leopardi), seguito da Il mistero della città perduta (ed. Condaghes) e Erba celeste – La verità è rivoluzionaria (ed. Viaggidicarta). Con l’editore e/o ha pubblicato i noir L’estate di San Martino (2003), selezionato dalla giuria del Premio Scerbanenco e Per un crine di cavallo (2005).

 

L’estate di San Martino

Con L’estate di San Martino (edizioni e/o 2003), la Sicilia conferma la sua vocazione al delitto e all’intrigo. Una vocazione che in questi anni ha preso prepotentemente corpo nei romanzi nazional-popolari di Andrea Camilleri, in quelli sofisticati e scritti a suon di blues di Santo Piazzese, nei calibratissimi gialli “ministeriali” di Domenico Cacopardo.

Vocazione ultimamente confermata dal poliziesco di Piergiorgio Di Cara, Isola nera (Edizioni e/o), ambientato tra Palermo e Linosa. Ma va detto che già prima del commissario di polizia palermitano, Franco Enna (il suo vero cognome era Cannarozzo) non solo aveva ambientato gran parte dei suoi gialli in Sicilia, ma addirittura aveva scelto come teatro di macchinazioni per il suo romanzo La grande paura l’isola di Lampedusa. Dopo Linosa, dunque, e Lampedusa, oggi tocca all’isola di Ustica, dove Valentina Gebbia mette in scena un giallo divertente e ben costruito, una specie di “giallo per il giallo”, senza implicazioni intellettualistiche di sorta, che prende le mosse nel quartiere caotico e vociante di Borgo Vecchio, col suo pittoresco e variopinto mercato sempre in movimento. L’azione è messa in moto dalla disperazione della signora Provvidenza, la quale nel cuore della notte, tirandosi i capelli e muovendo la testa a destra e a manca, irrompe nell’appartamento della coinquilina, la signora Mangiaracina, per metterne al corrente i figli Terio e Fana della disgrazia che si è abbattuta sulla sua casa. Il fidanzato della nipote, infatti, il bel Tindaro, è il principale sospettato dell’omicidio di un uomo rinvenuto morto sul ponte della nave che da Palermo salpa per Ustica. Ad incastrarlo, il suo yo-yo, di colore arancio a stelline gialle e viola, trovato intorno al collo della vittima. Ma chi sono Terio e Fana? Il primo, il cui nome per intero è Litterio, è un perito nautico a spasso, che odia Palermo per il caos, il caldo, il traffico, e che si sente male se solo si nomina la parola mare. La sorella, il cui nome per esteso è Epifania, non fa nulla per nascondere i suoi chili di troppo, ha i capelli ricci senza forma, le orecchie a sventola, e un occhio “fàvuso”, ossia semichiuso. Però è sveglia, ha una risata travolgente e riesce sempre a mettere nei guai il fratello, con la complicità della madre. I due sono titolari di una fantomatica agenzia investigativa: o meglio, mamma e figlia hanno messo in giro la voce.

Dopo alcune divertentissime scaramucce, Terio e Fana decidono finalmente di partire alla volta di Ustica, per risolvere lo strano “busillis”. L’isola si presenta a Fana “come una caramella ripiena da scartare con emozione”, sprigionando subito il suo fascino, i suoi odori di malva, rosmarino, timo, salvia, lavanda, e soprattutto i suoi misteri; col suo dedalo di viuzze e le case colorate, Ustica conquista pian piano anche il recalcitrante Litterio. L’indagine parte a rilento, e Fana ha pure il tempo di innamorarsi del bel Diego, idolo del Palermo calcio; ma quasi subito ci si fa l’idea che il povero Tindaro non c’entra un bel niente: il caso è quanto mai intricato, e i due investigatori dilettanti, dotati però di un ottimo fiuto, cominciano a fare luce, raccogliendo indizi e testimonianze dei passeggeri della nave e degli abitanti dell’isola: prima i capperi, trovati nella bocca della vittima, poi una parrucca, e ancora tanti pettegolezzi e un giro sospetto di scommesse e partite di calcio truccate. Un altro omicidio sul traghetto fa scattare il corto circuito logico che condurrà alla soluzione i due investigatori, aiutati anche dalle foto scattate sul traghetto da Ludovica La Placet, donna altera e affascinante.

Il metodo investigativo di Fana, mille miglia distante dal rigore anglosassone, si avvicina un po’ a quello di Maigret: frequentare i luoghi, conoscere gli indiziati, comprendere le ragioni del colpevole. Fana ha il cervello “conformato ad artigianale computer”: raccoglie dati su dati e poi, improvvisamente, le diventa tutto chiaro.

Il romanzo fila liscio sino alla fine: la scrittura è ammiccante, e non risente della zavorra di filtri letterari superflui; l’ambientazione è quasi impeccabile, i dialoghi risultano vivaci e ricchi di humour, insaporiti, con parsimonia però, da alcuni divertenti termini dialettali (l’eterna funzione Camilleri agisce anche qui). E Valentina Gebbia si rivela subito una giallista sui generis, quasi un’anti-Piazzese: per l’ambientazione popolana del libro, con tanto di bancarelle di formaggi, carrettini con lo sfincione, cd e cassette pirata; per la sottrazione di fascino cui sono sottoposti i protagonisti della storia: come dire, ecco l’altra faccia della medaglia di Palermo, metropoli post-moderna, ricca di pub in cui si suona musica sofisticata, e città tipicamente meridionale, affollata e caotica all’inverosimilie.

A venire fuori dal romanzo di Valentina Gebbia, in tal modo, è una specie di godibilissima lode alla pigrizia e al sovrappeso, e soprattutto un atto d’amore per una città, Palermo, dalla forte carica noir, che però, invece di sfoggiare pub e locali in cui si suona musica sofisticata, è invasa dalle macchine, dai cortei di manifestanti, e soprattutto dai vicini di casa che non si fanno mai gli affari propri. Certo, nelle pagine della Gebbia c’è tanto colore locale, ma proprio in abbondanza: dagli arancini (il cibo è una vera e propria ossessione per i siciliani, specie se giallisti: vedi Camilleri, Cacopardo, e ora Valentina Gebbia), sino ai capperi di Ustica, alle olive schiacciate, ai pomodori secchi sott’olio, passando per tutta una fenomenologia della vita di quartiere e di conseguenza della “palemitanità”, vituperata con grazia da Litterio, il quale odia la sua città, il traffico, l’afa, la maleducazione, i rumori, l’idea di isola, e soprattutto i palermitani, che gli ricordano “un gregge di pecore che una volta aveva visto a mare a Punta Raisi”. Ma questa componente folclorica spesso sembra consustanziale ai personaggi, alle vicende, narrate con disinvoltura dall’autrice, la quale è riuscita a confezionare un giallo che, pur nel rigore della trama, aspira a diventare ben presto il pretesto per raccontare una Sicilia diversa, una Palermo osservata dalla specola del quartiere popolare.

 

Per un crine di cavallo

Tutto comincia con l’apparentemente inspiegabile omicidio di una capra. Freddata con un colpo di pistola. Un delitto sui generis, certo, per il quale vengono scomodati due improbabili ma divertentissimi investigatori, Terio e Fana Mangiaracina. Veri e propri antieroi, creati dalla penna di Valentina Gebbia, la quale in questo suo nuovo romanzo, Per un crine di cavallo (Edizioni e/o 2005), li ficca dentro una storia a tutta prima grottesca, quasi caricaturale. La vicenda è ambientata nel quartiere popolare palermitano di Borgo Vecchio, col suo policromo, vociante campionario di varia umanità. Teatro straniante di un giallo atipico, che da un lato sembra voler percorrere il solco tradizionale della narrativa poliziesca, e che dall’altro però addita una strada nuova, un’alternativa rispetto a un genere sempre più inquietantemente segnato dalla saturazione.

Il percorso che Valentina Gebbia vuole battere infatti è quello della voluta ridicolizzazione, dello svuotamento delle regole ferree del noir, attraverso la contaminazione tra serio e faceto, in una mescolanza convincente, che rende succulenta la narrazione. Si diceva dell’efferato delitto iniziale: quello ai danni di una capra inerme, compagna e fidata amica di Umfredo, stallone di chiara fama, richiestissimo per le sue prestazioni, il quale però, privato della sua inopinata partner, appare sempre più turbato e inquieto. Cosa che potrebbe compromettere i facilie abbondanti guadagni del suo padrone, Egisto Lo Curto, allevatore col pallino delle citazioni poetiche. Da qui, dunque l’avvio, della trama: scoprire l’autore del misfatto e far luce su eventuali vendette trasversali. Dapprima Terio recalcitra, proprio alla stregua del povero Umfredo, ma col tempo si lascia incuriosire dalla strana vicenda. Le indagini cominciano a rilento, ma ecco che, proprio nella notte di San Silvestro, un altro assassinio viene a sconvolgere la vita apparentemente tranquilla del quartiere: questa volta la vittima è un bipede, un lattoniere incensurato il cui cadavere viene rinvenuto in mezzo a una pozza di sangue, con la gola squarciata e in mano un ferro di cavallo.

Intanto Terio si fa un’idea, grazie all’aiuto del cugino brigadiere, dei loschi interessi che mettono in moto l’universo sommerso degli allevatori di cavalli, imbattendosi nelle figure di un bieco veterinario, della nipote di Lo Curto, giovane e affascinante dalla voce d’usignolo, di uno stalliere balbuziente e di un amico del proprietario di Umfredo, che sembra nascondere qualcosa. Nel frattempo ci scappa un altro morto: stessa modalità (gola tagliata), stessa simbologia, quel ferro di cavallo che sembra mettere in collegamento accadimenti in apparenza agli antipodi. Questa volta, a differenza del precedente romanzo L’estate di San Martino, è Terio il vettore narrativo: una sorta di Maigret in sedicesimo, dotato di un innegabile sesto senso e in grado di leggere anche gli indizi più insignificanti.

Anche se, invece della nebbia e dei bistrot, nelle pagine della Gebbia imperversa lo scirocco (una sorta di soffio filosofico ed esistenziale) e pullulano le friggitorie e i venditori ambulanti di cd pirata. La storia fila liscia sino all’ultimo, quando viene fatta finalmente luce sugli omicidi. E come spesso accade, la soluzione del caso lascia quasi l’amaro in bocca: le potenzialità narrative, i guizzi e le irrequietezze della fantasia, le digressioni debordanti vengono strozzati in ragione di un finale serioso e plausibile. Rimane però, nella scrittura dell’autrice, l’efficacia della rappresentazione, il gusto della boutade, la forza di uno sguardo analitico.

17 maggio 2007

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