Dic 14

Presentazione di Disìo di Silvana Grasso

(di DOMENICA PERRONE)

“Il romanzo è un paradosso, una lancia di Achille, che ferisce e guarisce”. Questa frase di Claudio Magris non può non tornare alla memoria leggendo Disìo di Silvana Grasso. Qui, infatti, ad essere raccontata è la storia di una nevrosi, di una ferita che l’alchimia di una scrittura a grande forza espressiva aspira a guarire. In una intervista televisiva la scrittrice, parlando di “catabasi espulsiva”, di immersione negli inferi della coscienza, citava il binomio malattia-guarigione. Non è un caso che nel romanzo maturi ed esploda, soprattutto nella parte finale, una tensione metamorfica che viene esaltata dalla martellante ripetizione della parola metamorfosi, “metamorfosi è disio”. Eppure non è alla sfera semantica del mutamento e della trasformazione che riconduce la definizione che la scrittrice dà della parola “disìo”?

C’è un passo in cui lei scrive:

Era un marranzano per l’anima, disìo, un’invisibile viscera del suo turcìgghio, una ddraunàra nel feudo selvaggio del cuore che squetava e tramortiva. Era il furore di chi, uomo, voleva concupire dio, ebbro di trinità.

Con questo climax di metafore e di immagini acquista consistenza un impulso, un furore che sconvolge e devasta mentre si eleva a esemplare di un’eterna mancanza da colmare. Tuttavia nel dizionario siciliano del Settecento, il Pasqualino, alla voce “disìo” leggiamo: “macchia o altro segno esteriore nato all’uomo in qualche parte del corpo e che da alcuni si crede nascere da soverchio appetito della madre nella gravidanza, di qualche cibo o bevanda che da quella macchia si rappresenta; voglia; stigma”.

Ecco allora che, da una prospettiva apparentemente lontana da quella esibita dalla scrittrice, si riverbera sulla parola tematica del romanzo una nuova, imprevista, densità espressiva. Se riflettiamo bene, il “disìo” da cui la protagonista è torturata, attanagliata, si configura come uno stigma esistenziale che è, in altre parole, il segno, il lascito doloroso non di un soverchio appetito o della voglia, come suggerisce il dizionario ma, antifrasticamente, di un feroce rifiuto materno.

Ed è ammettendo questa torsione derivata dalla tradizione popolare che il marchio dell’anima si materializza in un vero e proprio corrispettivo fisico, in una efflorescenza tangibile, nei capelli “rosso-diavuli”. Quei capelli invano nascosti, invano “sminnati” nella speranza di sradicarli, con un sottile gioco di slittamenti e inversioni semantiche, sono il marchio non di ciò che è desiderato, come nella tradizione, ma di ciò che è detestabile, indice di esclusione.

Il romanzo inizia con una veglia funebre e, nell’arco di due o tra ore, Memi, ripassa il canovaccio della sua vita in un lungo assolo. Dal libro dei ricordi affiora il grumo doloroso di un’infanzia violata non solo dall’astio, dall’avversione materna, ma anche da uno stupro subìto. Il battito dolente di un bisogno d’amore conculcato si riverbera nell’incipit sapientemente sontuoso. Il racconto, nella prima parte del romanzo, si alterna continuamente tra prima e seconda persona e prende avvio nei modi di una trenodia: è ritmato da iterazioni, da parallelismi, è sostenuto da avvedute strategie retoriche cui dà respiro il proliferare di rigogliose metafore.

La voce degli amati classici greci coniugata con la visceralità del dialetto esita in un mistilinguismo che fa giustizia di quell’ “italietto stitico” in cui la scrittrice si era imbattuta da adolescente. Dalla impostazione alta dello scandaglio interiore della prima parte del romanzo la Grasso muove poi verso un rilevamento del presente e del suo atteggiarsi sociale. La prospettiva individuale si apre ad una prospettiva sociale, dal grido esistenziale si va verso la denuncia civile. A questo punto ci si può chiedere se la scrittrice corra il rischio di una possibile dicotomia. Io credo che abbia superato questo ostacolo e che proprio questa esperienza sia feconda di nuove possibilità narrative.

2006

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