Di seconda mano (Rizzoli, 2004) è il primo “romanzo” di Laura Bocci. Il sottotitolo recita “né un saggio, né un racconto sul tradurre letteratura” e infatti ciò che si propone l’autrice è di raccontare in maniera insolita e profonda “una storia”, o meglio ancora, delle storie di traduzioni e di traduttori. Quella che si presenta agli occhi del lettore è una forma ibrida di romanzo, la scrittrice parla di sé, dei suoi viaggi, della sua esperienza di traduttore ed emerge immediatamente la fitta rete di affinità e di rimandi che vengono a crearsi fra le diverse tematiche.
Il tema della traduzione letteraria attraversa l’intero libro che, tra l’altro, ha il merito di rendere accessibile al vasto pubblico dei lettori quella che normalmente è una problematica per addetti ai lavori. A essere rimarcato non è il “semplice” aspetto di mediazione letteraria tra due diverse culture ma la carica creativa e artistica che un tale lavorio richiede e produce, nei casi migliori, e che lo investe di una vera e propria funzione “materna”:
“Se all’autore, a prescindere dal sesso, si attribuisce in genere la “paternità” del testo, e con essa il ruolo produttivo per eccellenza, il traduttore svolge invece una funzione “riproduttiva”, e dunque femminile per definizione, traducendo potenzialmente all’infinito, ed in infinite lingue, il testo stesso.” (p. 31)
Cosa vuol dire tradurre un’opera letteraria e perché si traduce? La spinta determinante è provocata dalla possibilità di superare i limiti e le barriere linguistico-culturali, di andare oltre, di essere creativi pur seguendo binari tracciati da altri, un desiderio di comunicazione e soprattutto di mettersi alla prova sulla propria lingua.
Una traduzione può appagare in modo più o meno completo la curiosità dei lettori di esplorare mondi e culture diversi, e ciò dipende dalle strategie adoperate dal traduttore. Il testo tradotto può puntare perciò sulla leggibilità, sulla scorrevolezza, e ciò spesso a discapito della possibilità di conoscere aspetti peculiari dell’opera originale portando il testo verso un addomesticamento che cela le caratteristiche specifiche della lingua e della cultura dell’autore:
“…ci sentiamo, noi traduttori, tanto spesso in dovere di sgomberare il percorso dei lettori da ogni possibile ostacolo lessicale, sintattico, stilistico e persino concettuale, semplificando testi all’origine niente affatto banali né semplici…” (p. 106)
Oppure può essere scelta, come dominante traduttiva, la conoscenza di ciò che è estraneo, sul piano semantico-linguistico, alla cultura e alla lingua di arrivo e allora si produce un testo di lettura più lenta, più ponderata, ma anche di maggiore soddisfazione:
“Ma forse tradurre è anche, e soprattutto, un atto praticamente gratuito di “generosità letteraria”, di servizio, di amore verso l’autore defunto e l’ignoto lettore futuro, e soprattutto verso la propria lingua madre, verso la quale si traduce, curando amorevolmente la scelta delle parole…” (p. 56)
Il libro è il frutto di molti anni di lavoro dedicati alla traduzione letteraria (Lenz, Kleist, Chamisso, Hoffmann, Storm, Sterheim, Enzensberger) e accompagnati dalla riflessione sulle molte letture teoriche attorno all’argomento (Schlegel, Leopardi, Schleiermacher, Benjamin, Steiner, Berman, Marìas, ecc. per fare solo alcuni dei nomi dei protagonisti del dibattito sul problema della traduzione che compaiono o vengono citati nel libro). La traduzione consente di instaurare un rapporto privilegiato con l’autore e la metafora del viaggio risulta estremamente funzionale a rendere il lavorio che contraddistingue l’attività del traduttore.
L’autrice descrive gli ostacoli e le fasi del “mestiere” di traduttore, i viaggi reali si intrecciano a quelli forse ancora più “reali” all’interno dei testi tradotti:
“Per tradurre un libro […] bisogna essere disposti a trasferirsi armi e bagagli nel libro stesso, e poi a restarci dentro […]. A differenza del critico, che a ragione spesso teme il biografismo come la peste, il traduttore è almeno in questo, e forse solo in questo, un privilegiato e dunque è libero di sguazzare nel privato dell’autore, di diventare una specie di amico di famiglia […]. Ma questo coinvolgimento con il testo, questo starci dentro, comporta anche un’immensa fatica, che è quasi, anzi certamente, anche una fatica fisica, oltre che intellettuale…” (p. 28)
Attraverso luoghi, libri, incontri con fantasmi del passato, il viaggio (nella sua doppia valenza metaforica e reale) ci porta nelle Tunisi, Berlino, Heidelberg, Jena, Londra dei nostri giorni, ma spesso vi sono puntate anche indietro nel tempo, perché i classici di cui si parla sono sempre visti nella loro dimensione umana e quotidiana. Una particolare attenzione è dedicata alle figure femminili, troppo frequentemente tralasciate dalla critica o ingabbiate in abusati cliché, come quella di Bettina Brentano von Arnim o di Dorothea Tieck, che popolano il mondo della traduzione spesso da una posizione di scarsa visibilità e dove la condanna all’invisibilità del traduttore è rinforzata da quella di essere donna, quanto meno nell’Ottocento:
“…Dorothea Tieck – figlia del celebre Ludwig – […] fu la sola, tra tanti illustri traduttori romantici, a cimentarsi con la versione in rima di tutti i 154 Sonetti di Shakespeare, e rispettando quasi perfettamente la metrica. Un’impresa ritenuta impossibile da tutti. Un lavoro di tre anni svolto in incognito, naturalmente, ed anzi, fatto passare dal celebre padre, per l’opera di un “giovane amico”, che avrebbe tradotto “sotto la sua supervisione e con il suo sostegno morale”.” (p. 107)
È in questo intrecciarsi di vissuto, di aneddoti e di riflessioni sul tradurre che la Bocci, attraverso una scrittura agile e leggera, mostra le sue migliori qualità. Man mano che si procede nella lettura la narrazione è arricchita, proprio a partire dagli spunti offerti dalle riflessioni che comporta il tradurre, di altre tematiche non strettamente connesse al dibattito sulla traduzione letteraria eppure ad essa assai vicine: il problema della scrittura e dell’ideologia femminile, il confronto con la cultura araba, la passione per la letteratura e il valore dell’amicizia trovano spazio in queste pagine. È forse questa la forza del libro che riesce a creare un magnifico gioco di divagazioni letterarie e, al termine della lettura, lascia il desiderio e la curiosità di attraversare una materia così ricca di implicazioni.
Tradurre un testo investe completamente il traduttore, anche perché ad essere messa in gioco è proprio la sua lingua materna. È traducendo che viene sperimentato il rapporto di conoscenza, di padronanza e di amore-odio nei confronti della lingua madre:
…il vero problema non è la lingua da cui si traduce (la cui perfetta conoscenza è un presupposto talmente scontato da non meritare che se ne parli), bensì quella nella quale si traduce: è con essa, infatti, con la lingua madre, che più spesso si ingaggiano combattimenti linguistici furiosi, veri e propri “corpo a corpo”… (p. 57)
La traduzione si configura allora non solo come un genere letterario tra gli altri generi, una forma di scrittura tra le altre forme di scrittura, ma anche come una costante disamina del fare letterario stesso: ogni confronto è un’interrogazione sulla natura della propria ricerca, sulle forme e sui codici della propria lingua. Ed è per questo che l’opera di traduzione appartiene a pieno titolo alla storia della scrittura letteraria: stazione decisiva di un cammino, talvolta punto d’irraggiamento o, per così dire, d’inveramento per le scelte di poetica di un autore o, persino, per il rinnovamento della lingua stessa del traduttore e, qualche volta, della comunità che a quella lingua appartiene.
Come ogni paese ha le sue usanze e ogni porta la sua chiave, ogni lingua ha il suo sapore, ogni popolo la sua identità e, come sembra suggerirci Laura Bocci, se riusciamo ad aprire la porta, a rimanere in ascolto, allora il nuovo, il diverso possono affascinarci e arricchirci, lontano dal cerchio della paura, dell’ostilità e della violenza.
