Lug 14

Sergio Atzeni – Bellas Mariposas

(di GIUSEPPE LO CASTRO)

Il volumetto Bellas mariposas (Palermo, Sellerio, 1996, pp. 126.), omaggio postumo dell’editore Sellerio a Sergio Atzeni, ne racchiude idealmente in un dittico l’attività letteraria: tra un racconto del 1984, Il demonio è cane bianco (originariamente intitolato Araj dimoniu. Antica leggenda sarda), e l’ ultimo inedito eponimo si propone significativamente un duplice tracciato narrativo, secondo due forme o quasi due generi.

Al modulo fiabesco con la sua costruzione rapida, ricca di ripetizioni e richiami interni in una storia d’iniziazione in due tempi fa capo Il demonio, dove Luisu, il bambino protagonista che nella prima parte cresce protetto in una comunità prostrata dalla carestia e dall’avarizia di un ricchissimo possidente, affronterà successivamente un viaggio nel mondo, «per vedere come vivono gli uomini». Qui, attraverso intricate peripezie, Luisu persegue la propria educazione: le avventure lo mettono sull’avviso e gli insegnano così a fare a meno della magia e anche di quel cavallo «demonio» che lo difende.

In questo modo Atzeni compie un viaggio narrativo alle radici della formazione dei simboli collettivi, attingendo a un originario mondo fiabesco in cui prevalgono un linguaggio dalla simbologia aperta e la presentazione di situazioni non ambigue. Significativa in tale contesto l’assiologia dell’universo dei colori, che scandisce e denota cose e persone lungo tutto il racconto. Così la strega è «una donna, bassa, curva, attortiàra, avvolta in uno scialle nero a ricami dorati come unghie di bambino. Il viso è vecchio, nero come pece e rugoso come uva passa […]»; ma «il demonio è cane bianco», vale a dire, buono e fedele come il cavallo Araj (già nel primitivo titolo, prima ricordato: Araj dimoniu), che conduce il protagonista per il mondo (salvandolo o premonendolo). In questa «leggenda», dunque, il demonio del vecchio titolo non è il maligno, ma semmai «uomini cattivi ci sono, altro che gianas», come dice la vecchia strega.

Atzeni usa le storie della tradizione popolare sarda, spesso riprendendole dalla raccolta di Gino Bottiglioni, e le riversa, talvolta mutate di segno, in una lunga fiaba dove compaiono ricapitolate. Così le gianas, piccole fate a volte malefiche, che l’immaginario popolare ha tramandato sotto diverse vesti, si confermano esseri misteriosi di cui i personaggi danno appunto differenti e alternative letture. Oppure, nell’episodio in cui la strega tenta di distribuire come fillindeu benedetto una minestra avvelenata, si ricicla il motivo folclorico dell’impossibilità di rifiutare il dono di origine divina, pena una cattiva fine.

Se i colori ripartiscono il mondo tra bene e male, secondo certo formulario fiabesco, la cattiveria è collegata in modo altrettanto diretto alla ricchezza o al desiderio di possederla, accumularla, contemplarla, come nei cercatori di «erbaluzza», magica pianticella su cui si proietta l’avidità umana. È anch’essa un mito popolare riportato dal Bottiglioni: il picchio coglie l’erbaluzza, poi la lascia cadere dal becco e chi vuole ricavarne denaro inesauribile deve prenderla al volo; ma Atzeni traduce la leggenda folklorica in una mitologia incerta: intorno ad essa «ognuno dei cercatori ha una verità, una fede diversa da quelle di tutti gli altri», una personale interpretazione della fortuna da raggiungere. Ne deriva un caos da torre di Babele, e la ricerca finisce in un conflitto sanguinoso e dissennato. L’episodio rappresenta una fuga dalla socialità per inseguire il desiderio di beni e ricchezze individuali; si tratta dello stesso peccato di avarizia commesso dal ricco possidente Giona Porcu, già bollato con l’epiteto «cane rabbioso», che ricorda per contrasto il titolo.

Luisu dunque affronta un mondo individualista dove non bisogna fare domande, perché chi le fa è destinato a non ricevere risposte:

“La fortuna ti protegga, ragazzo. Ne avrai bisogno, in questa terra di uomini che non amano farsi interrogare. Addio.”

In questo modo Il demonio allude al mondo di oggi e, come ogni favola, fornisce istruzioni per affrontarne l’insensatezza. Contro di essa il ragazzino osa invece interrogare, costruendo così la propria emancipazione:

“domani sarai Luisu, Luisu Alabì più tardi, e dovrai imparare, dovrai lottare, la magia non sarà più tuo scudo, Araj dimoniu ti accompagnerà, ma soltanto se saprai domarlo…”

2. L’oggi, nella realtà della periferia di Cagliari, dove si muovono le esistenze e il linguaggio di un sottobosco proletario a contatto con stili di vita e miti popolari dell’ultima modernità, è il referente esplicito di Bellas mariposas.

e invece il 3 di agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio.

Questo l’incipit, con l’iniziale minuscola del racconto, preludio di un finale che a sorpresa le ultime pagine presentano specularmente negato:

“il giorno dell’ammazzamento di Gigi innamorato mio si è trasformato nel giorno che Gigi nessuno l’ha ammazzato e non è più neppure innamorato mio per nulla e non lo voglio e mai lo vorrò.”

Tra questi due estremi non c’è una storia narrata, ma un succedersi di situazioni scandite dal ritmo cronachistico di un tempo giornaliero, attraverso una scrittura frantumata in micro-blocchi narrativi a volte di una sola parola, senza virgole né punti.

Bellas mariposas, dal nome sardo delle farfalle, è narrato dalla voce di una bambina-farfalla appunto, un’unica voce interna all’universo della narrazione, fortemente connotata culturalmente e socialmente, ma anche innocente e “femminile”, che come tale osserva con animo smaliziato e desideri diretti ed espliciti. È una ragazzina di dodici anni, abitante in un quartiere della periferia popolare di Cagliari. Miti sottoproletari metropolitani, microcriminalità, bande di quartiere, droga e sessualità spiccia si mescolano in una narrazione dalla quale il lettore e l’autore si distanziano.

Il racconto infatti si dipana come una confessione ascoltata e registrata da un ipotetico autore-trascrittore, che alla ragazzina non appare molto diverso dagli altri «maschi» del suo quartiere:

“(e tu ora mi guardi allo stesso modo lo so cosa vuoi e cosa pensi ma non io mi sei simpatico questa storia la racconto a te che hai buona memoria e dicono che sei buono a raccontare e scrivere manka sias unu barabba de Santu Mikeli ma altro da me non prendi non guardarmi più con quegli occhi hai capito? Non io cercati qualcun’altra io prima divento rockstar poi cerco marito non mi interessano i giochi porchi).”

Come si vede l’oralità sale in primo piano e consente l’irrompere di una lingua connotata da una sintassi veloce e sincopata, un pastiche verbale, in cui sardo, gergo del quartiere e linguaggio ‘rockettaro’ e televisivo di massa si giustappongono.

Non si tratta di un racconto tradizionale, non c’è una storia da seguire. È solo la descrizione di un quartiere e di una teoria di figure che ripetono gesti e situazioni nella sincronia di una giornata speciale e che rivelano attraverso la monotonia delle loro azioni, le costanti di un luogo sociale che l’autore si è proposto di inquadrare. Se certa tipologia formalista ci ha descritto le trame narrative come equilibrio iniziale, rottura catastrofica, peripezie e riconquista di un ordine finale, Atzeni, a differenza del perfettamente proppiano Il demonio è cane bianco, capovolgendo quello schema, ha mutuato dalla narrazione cinematografica un’altra struttura.

Dapprima un fluire costante e monotono del tempo che occupa quattro quinti del racconto, consentendo la definizione-descrizione di un ambiente; alla fine la catastrofe, ovvero la rottura di quella situazione. Proprio come lo schema a cui alcuni film ci hanno abituato: nel primo tempo si crea un quadro carico di tensioni, un po’ alla Spike Lee, che esplodono in un finale pirotecnico, che ricorda Fellini o certo cinema americano. È la forma breve del racconto, che s’ispira a quel tipo di costruzione moderna dove lo spazio centrale della storia, quello delle peripezie, viene spesso sacrificato fino a esaurirsi del tutto.

Se la tensione della narrazione è legata all’«ammazzamento di Gigi», le attese del lettore sono frustrate, o meglio sconvolte. Non c’è solo l’agognato scioglimento, con la negazione dell’assassinio di Gigi; ma la piccola rivoluzione, che trasforma la comunità attraverso il miracolo chiesto dalla narratrice ragazzina, corrisponde a un massimo di lieto fine dove tutti i desideri della protagonista si compongono:

È vero che i miracoli sono come le ciliegie ne hai appena avuto uno e subito ne vorresti un altro// insomma ho detto a Luna Gesù quando fa i miracoli li fa davvero.

Anche qui Atzeni riprende temi della fiaba tradizionale, e però non li sacralizza, anzi li rielabora contaminandoli. Così attribuisce doti positive alla coga, cioè la strega del folclore sardo, che prevede e predetermina il futuro quasi fosse una giana, per assecondare magicamente la volontà della narratrice ingenua. Attraverso queste soluzioni quasi da racconto fantastico, la vicenda si chiude con la riscoperta di preghiere, oracoli, miracoli: forme di comunicazione, che Atzeni recupera dall’epos e riconsegna alla dignità della letteratura.

3. L’intelligenza narrativa di Atzeni risiede allora in questo attraversare le forme più archetipiche della letteratura, confrontarsi coi miti, le leggende, le narrazioni orali della storia, la cultura popolare tradizionale e al contempo esperire le forme più nuove, importate dal cinema, dal fumetto, dalla musica delle nuove generazioni, accogliendo cioè la lingua della cultura popolare urbana. Lingua che non è solo bassa e corriva, ma, come dimostra anche certa letteratura di massa, apre spazi per una comunicazione multipla e stratificata.

Ecco quindi che la ricerca sulla tradizione favolistica del folclore sardo, cui rinvia Il demonio è cane bianco, può essere vista come un passaggio obbligato nella direzione di un’invenzione delle possibili forme moderne di scrittura della cultura popolare. L’esperimento di Bellas mariposas è l’approdo cui era giunta l’abilità sperimentale di Atzeni, nel singolare tentativo di declinare una personale rappresentazione antropologica della modernità in Sardegna, scavando nella direzione dei miti, come in quella dei vissuti collettivi.

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