L’intervista qui riprodotta è tratta dalla tesi che Barbara Basile ha dedicato all”opera di Paolo Di Stefano.
DOMANDA: Quando e perché ha cominciato a scrivere?
RISPOSTA: All’origine c’è stata la voglia di fare ordine in un groviglio di ricordi e di emozioni che non riuscivo a dipanare in altro modo se non, appunto, scrivendo. Prima, diciamo fino a diciotto anni, pensavo di esprimere al meglio queste emozioni nel disegno e nella pittura. Disegnavo e dipingevo con piacere, soprattutto riproducendo a mio modo immagini dal vero. Poi, con lo studio e la lettura, la poesia ha vinto e quando le emozioni sono diventate più urgenti (la nascita del mio primo figlio e la morte, quasi contemporanea, del mio migliore amico), la scrittura è diventata un’esigenza per decifrare gioia e dolore. Ne è nata, nel 1990, una raccolta poetica, Minuti contati, dove cercavo di mettere insieme inizio e fine, come invita a fare Goethe in un celebre verso che ho posto a epigrafe del libretto. Con quelle poesie mi sono chiarite un po’ di cose. Ho capito che quel che mi interessava davvero prima di tutto era di parlare del dolore e della nascita: in particolare di un mio fratello morto piccolino di leucemia quando io avevo dieci anni. E così ho ripreso alcuni appunti che avevo già scritto sull’argomento e ho pensato ad un racconto tra l’autobiografico e il surreale. Ho scritto e riscritto quel libro: prima al modo do Dostoevskij (La mite), poi al modo di Faulkner (Mentre morivo), poi al modo di Saramago (L’anno delle morte di Ricardo Reis). E poi a mio modo ne è venuto fuori Baci da non ripetere, dove si racconta anche il dolore della distanza e dello sradicamento. Intanto le poesie andavano avanti, ma mi convincevo che non riuscivo ad essere poeta e narratore insieme, perché sono due punti di vista sul mondo molto diversi, quasi in opposizione, almeno nel mio caso. Quindi, via via, quella prima spinta è stata convogliata nella narrativa, pur senza dimenticare le origini poetiche, tant’è vero che alcuni lettori ritengono che le mie pagine migliori siano quelle liriche. Se poi devo rispondere al “perché scrivi” con una formula più ad effetto, ma ugualmente valida, potrei anche dire: scrivo, come tanti, per l’incapacità o per la paura di vivere, per il rifiuto di accettare la realtà così com’è.
D: Come si passa da un’idea di storia alla necessità di raccontarla?
R: Per quanto mi riguarda, non c’è mai l’idea, ma il germe di una storia possibile. Che non so dove mi porterà. C’è un’immagine, una suggestione, meglio un’ossessione su cui penso che valga la pena di lavorare. Per Baci da non ripetere si trattava di una vera e propria ossessione: un pensiero fisso di cui volevo liberarmi. L’immagine di un viaggio che mio padre ha compiuto in macchina, nel ’67, dalla Svizzera alla Sicilia per riportare “a casa” il corpo di suo figlio da seppellire nel cimitero del paese. Ho provato e riprovato a sviluppare quella immagine ossessiva e a poco a poco la storia ha preso corpo quasi da sola, quando era maturata in me, dopo molti anni dalle prime prove. L’idea della maturazione di un’immagine è fondamentale. Un’immagine diventa “storia”, matura come “storia” per un concorso di fattori: alcuni involontari, alcuni volontari e persino volontaristici per via di aggiustamenti progressivi e di un faticoso lavoro di approssimazione. La necessità di raccontare un’idea si sviluppa con la maturazione di questa idea: quando questa idea diventa matura, allora diventa necessario raccontarla. Per quanto mi riguarda ho molte idee che però alla fine non rivelano nessuna necessità e dunque cadono così come erano venute.
D: Quanto influisce l’esigenza del giornalista di scandagliare la realtà sulla sua visione di scrittore?
R: Quando ho cominciato a scrivere, non avrei mai pensato che il giornalista potesse interferire nella mia scrittura narrativa. Pensavo che le due cose dovessero rimanere ben distinte. Invece col tempo, ma soprattutto dopo l’esperienza del reportage La famiglia in bilico (2001), mi sono reso conto che l’attitudine dello sguardo e dell’ascolto è un po’ la stessa. Il narratore può giovarsi dell’esperienza del giornalista e viceversa. Certo, gli obiettivi rimangono molto diversi: il giornalista deve rivelare a un pubblico delle novità su un dato argomento, illustrare con chiarezza dati e materiali, essere fedele a ciò che vede e a ciò che ascolta; lo scrittore non ha questi doveri: può inventare, tradire, interpolare, esagerare o minimizzare. Non ha neanche doveri comunicativi. E’ insomma nell’atto di scrivere che le due strade si separano.
D: Che rapporto ha con i protagonisti dei suoi romanzi? Deve necessariamente esistere una qualche identità, anche parziale, tra chi scrive e un personaggio?
R: Bene o male, per quanto mi riguarda, c’è sempre una partecipazione al destino dei miei personaggi. C’era questa partecipazione rispetto al vecchio padre di Claudio che sul letto di morte ripensava alla sua tragedia (Baci da non ripetere). C’era anche rispetto a Rizzo, il protagonista di Azzurro troppo azzurro, che una sera decideva di far fuori i suoi ex datori di lavoro con le rispettive famiglie. C’era rispetto al povero Nino Motta, che abbandonava la famiglia per tornare a Messina e ricostruire il passato perduto nelle nebbie della memoria. C’è rispetto a Pietro, il ragazzino di Aiutami tu, che vive con la sua sorellina in uno stato di perenne assedio. Vivendo per molto tempo con i miei personaggi, finisco per apprezzarne molto le virtù e per non sopportarne i difetti. Li vedo crescere e spesso cambiare sotto i miei occhi, così finisco per conoscerli molto bene e persino per amarli e per odiarli come si amano e si odiano le persone con cui si ha eccessiva familiarità. In effetti è vero che in Motta, Rizzo, Pietro ho trasferito un po’ di me stesso: hanno certi miei difetti, desideri, insofferenze, pregi, eccetera. Credo che questo sia inevitabile anche negli scrittori meno portati all’autobiografia.
D: Lei ha lasciato la Sicilia ancora bambino; in che misura la memoria dei suoi genitori ha contribuito a rafforzare il vincolo di appartenenza alla sua terra?
R: Il mio vincolo con la Sicilia è andato crescendo con gli anni. Da giovane tendevo a snobbare o a dimenticare le mie origini. Invece, col tempo la Sicilia che era dentro di me è andata affiorando in modo inconsapevole e incontrollabile. E’ un’emozione che è cresciuta in modo inarrestabile. Quel che ha inciso molto, indirettamente, è stata la forte nostalgia che mio padre ha sempre nutrito per il suo paese. Mio padre non si è mai rassegnato a vivere in Svizzera, lontano dalla Sicilia: ha sempre abitato all’estero senza viverci davvero, con la speranza o meglio l’illusione di poter tornare un giorno ad Avola. Questa sua nostalgia molto forte e sempre irrisolta ha trasmesso a me, come credo ai miei fratelli, un senso di insicurezza e di instabilità psichica: la tentazione di appartenere alla terra ospite e il dovere di non confondersi con gli altri. Insomma, soprattutto quel che è derivato dai miei genitori è questa incapacità a vivere il presente (un presente scisso) sognando un ritorno impossibile e rimpiangendo un passato per altro poco desiderabile. Non dimentichiamo che il presente in Svizzera non cancellava del tutto la Sicilia, perché in casa i miei parlavano siciliano e nel bene e nel male non hanno mai smesso di comportarsi da siciliani (anzi la lontananza spesso ha finito per enfatizzare i comportamenti siciliani)… La memoria della Sicilia è venuta dopo, è una conquista diciamo culturale: il desiderio di recuperare la memoria familiare parlando con i miei genitori e magari cercando di scavare nel mio immaginario, nei miei ricordi, nelle mie sensazioni (sono sì partito molto presto dalla Sicilia, ma ogni estate per tutta l’infanzia e l’adolescenza tornavo…). Ne è venuto fuori un patrimonio quasi genetico, direi, di conoscenze: quella che Chomsky, parlando di grammatica, definisce come una competenza innata.
R: Come vede la letteratura siciliana oggi?
D: Ricordo che molti anni fa mi stupì un saggio su una rivista intitolato: Qu’est-ce que la littérature belge? Mi stupì il fatto che potesse esserci una letteratura belga distinta da quella francese e che qualcuno tentasse di definirla. Ho vissuto per anni in Ticino, dove si parlava di identità “ticinese”, che si voleva ben distinta da quella svizzera e da quella italiana. Si discuteva fino alla noia sulla ticinesità, eccetera. Sono discorsi che mi danno una certa nausea. Io credo che oggi meno che mai esista una letteratura siciliana: può esistere forse una letteratura prodotta da siciliani, come esiste una letteratura prodotta da californiani, uzbechi, abruzzesi, vallesi, dalmati, tirolesi ecc. A dire il vero anche il discorso di Sciascia sulla Corda pazza mi dà un po’ fastidio: credo che inclini verso l’autocompiacimento (“nessuno è come noi…”) o l’autoconsolazione (“siamo proprio diversi da tutti…”). Oggi se c’è qualcosa di siciliano che accomuna gli scrittori siciliani è qualcosa che non mi piace: una specie di colorino fonetico locale buttato qua e là nei romanzi in modo da dare la sensazione del “tipico”. Un che di turistico e di kitch che piace al pubblico. Come piace il giallo e il noir, generi transnazionali su cui molti scrittori siciliani si esercitano volentieri. Questo autocompiacimento è un pericolo reale. In Verga, in Vittorini, in Sciascia la “ sicilitudine” era qualcosa di estremamente (perfino troppo) sofferto. Oggi spesso appare come una vernice commerciale utile oppure come un cliché retorico troppo usurato.
D: Una domanda forse rituale: la Sicilia ha prodotto grandi scrittori. C’è un rapporto particolare tra questa terra e la letteratura?
R: Ci sono grandi scrittori siciliani nel nostro passato: Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia, Brancati. Mi è piaciuto il libro di Massimo Onofri sulla letteratura siciliana del Novecento, che si intitola La modernità infelice. Il filo conduttore è il risentimento – dice Onofri – “verso ogni concezione del mondo troppo fiduciosa nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità”. C’è un pessimismo di fondo, è vero. A volte il senso di una deriva alla quale è impossibile porre rimedio. Ma se tutto si esaurisse in questo, dovremmo considerare siciliani anche Leopardi, Montale, Gadda, ma anche Faulkner, Philip Roth, Ellroy, Kundera eccetera. In realtà, penso che il rapporto con la terra si esprima in modi diversi e imprevedibili: in Verga, per esempio, è la musica profonda della lingua, in Pirandello l’esigenza di un continuo mascheramento dell’identità eccetera.
R: Oggi si parla di grave crisi della narrativa. Il successo degli scrittori siciliani può dare nuovo impulso alla letteratura nazionale?
D: No, non credo che Camilleri dia impulso alla letteratura nazionale in quanto scrittore siciliano. E poi da che punto di vista lo darebbe? Sul piano commerciale, dà impulso a se stesso. Semmai, il pericolo è che si creino tanti imitatori letterariamente mediocri e commercialmente fallimentari.
R: Come appare la Sicilia odierna dal suo osservatorio di Milano?
D: L’ho già detto molte volte presentando Tutti contenti, che tra i miei libri è quello che più di tutti presenta la Sicilia d’oggi, in particolare Messina. Mi pare che la Sicilia contenga in sé, leggermente amplificata, quella tendenza tipica del carattere degli italiani che Giulio Bollati qualificò come disarmonia tra il vecchio e il nuovo, squilibri fra tradizione e modernità. In questo, Messina mi pare persino più significativa di Palermo o di Siracusa: c’è una modernità presente in moltissimi oggetti affastellati senza soluzione di continuità accanto alle macerie del passato. Ma è come se anche la modernità fosse già in macerie… E’ come se Messina (ma forse tutta la Sicilia) subisse un continuo terremoto che riduce in macerie anche le novità, la tecnologia, eccetera. Le contraddizioni del postmoderno in Sicilia saltano agli occhi con più evidenza che altrove, in quanto c’è la persistenza a volte ingombrante di un passato glorioso, aureo, barocco. Sicché sia il passato sia il presente appaiono nella loro enfasi, nella loro esagerazione. Urtano agli occhi e alla mente. Questa situazione del paesaggio ha, credo, un suo corrispettivo nella situazione intellettuale: l’arcaico si scontra brutalmente con la voglia di guardare oltre i propri confini e di correre verso il futuro che è ben visibile in diversi giovani intellettuali, ipersensibili a tutto.
D: Come critico letterario e come lettore, cosa la scoraggia in un testo e cosa la attrae?
R: Quel che più mi scoraggia è il desiderio di molti scrittori italiani d’oggi di allinearsi ai modi e ai generi di successo. Il politicamente e il letterariamente corretto, il pensiero unico della letteratura di genere. Detto questo, non mi pare, però, che la letteratura italiana si trovi in un cattivo momento, come molti vogliono far credere. Sono convinto che ci siano diversi bravi scrittori, in giro. Un tessuto letterario più diffuso che negli anni scorsi. Forse mancano le vette che abbiamo avuto in passato, ma il livello medio è migliorato. Mi pare che negli ultimi anni le cose migliori siano venute dal Sud. Ma comunque sono sempre più convinto con Kundera che si debba sempre più guardare oltre i confini nazionali e considerare come propria letteratura la letteratura europea in generale.
D: Considerando il rapporto intertestuale con la scrittura di Verga, Pirandello, per poter apprezzare pienamente i suoi romanzi occorrerebbe avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Di Stefano pensa quando scrive?
R:Quando si scrive per un giornale, il lettore è sempre presente, per forza. Si parla a qualcuno e per qualcuno, con un linguaggio e uno stile il più possibile adatto al proprio pubblico. La letteratura è altra cosa. Mi risulta difficile pensare a un lettore, mentre scrivo un romanzo. E’ difficile pensare a un target… Semmai posso immaginare un’entità astratta che abbia voglia di condividere certe storie e certe emozioni che mi frullano per la testa. Ma è un’entità astratta, appunto. Talmente astratta che quando mi accorgo, a libro uscito, che quell’entità astratta è diventata una creatura in carne e ossa, che discute e magari apprezza dopo averlo letto, un mio libro, mi verrebbe voglia di urlare, ogni volta, al miracolo. Scrivere è un lavoro fatto in solitudine e uscire dalla solitudine, dopo aver scritto un libro, è qualcosa di miracoloso. Fa passare ogni frustrazione covata per mesi, a volte per anni.
D: Qual è, tra i suoi libri, quello che ama di più?
R: Non risponderei a questa domanda neanche sotto tortura. Non è retorica: i libri sono come figli e nessun padre direbbe: preferisco questo o quello… Sento mio Minuti contati perché è il primo. Ma anche Baci da non ripetere, perché è il più autobiografico: ci sono io, c’è mio fratello, mio padre, mia madre, eccetera. Ma poi mi dico che è meglio Azzurro, per la ragione opposta, perché finalmente non c’è autobiografia diretta: parlo con maggiore distanza dell’uomo sradicato d’oggi. Poi mi accorgo che La famiglia in bilico in fondo si presenta come un reportage, ci sono tutte le mie tematiche ma in presa diretta. Anche Tutti contenti è un romanzo che amo moltissimo perché in esso tutti i miei precedenti libri finiscono per confluire. Come i figli, l’importante è che a un certo punto i libri comincino a camminare sulle proprie gambe e ad andare in giro per il mondo da soli, vivendo di vita propria.
D: A quale autore si sente maggiormente legato?
R: Tanti. Dicevo prima che Baci da non ripetere è stato scritto sotto l’influsso di letture per me capitali: Dostoevskij, Faulkner, il Gadda della Cognizione del dolore. Ma soprattutto penso ai siciliani: Verga e Pirandello. Verga, che ho letto al liceo come tanti, mi ha trasmesso l’importanza della musica della lingua in letteratura. Ho letto i Malavoglia quando vivevo in Svizzera con i miei genitori. Sentivo il dialetto in casa ma non lo parlavo, sapevo che era una lingua familiare ma insieme estranea e leggere la lingua di Verga è stata un’emozione fortissima. La lettura di quelle pagine in un paese straniero mi ha fatto sentire orgoglioso di essere siciliano, di avere familiarità con quella lingua. A volte, se stando lontano dalla Sicilia mi sembra di aver perso quella tensione, per ritrovare quell’antico orgoglio mi basta aprire a caso una pagina del Verga e respirare o ascoltare la sua lingua. Ma se Verga mi ha insegnato la verità della letteratura, Il fu Mattia Pascal che se ne va e vive sotto mentite spoglie, mi ha fatto capire che la letteratura è finzione. E tra questi due poli, verità e finzione, si gioca tutto.
D: Il tema della nostalgia, della lontananza è il tema forte della nostra civiltà, quindi anche della nostra cultura. Lei lo ha vissuto direttamente e lo racconta. Nonostante la desolazione che questo processo di sradicamento produce, si scorge nei suoi libri qualche segno di speranza, un fondo di tenerezza che fa capolino qua e là…
R: E’ vero. Questo sentimento di umana pietà si rivela nell’ultimo gesto del romanzo Azzurro troppo azzurro. Roberta, la ragazza che il protagonista, Rizzo, ritrova per strada, per avere un minimo di riscatto alla sua vita terribile, toglie il sacchetto di plastica dalla testa del giovane, come per salvarlo rispetto al mondo. Anche negli altri romanzi il gesto del riscatto è attribuito ad una donna. Nel primo la protagonista femminile restituisce il marito alla sua terra d’origine, lo riporta a casa. In Tutti contenti l’amore di Simona è per Nino Motta la fine di un purgatorio, di una vita insignificante, grigia, senza speranza.
D: Come ricordato in precedenza, Lei è anche autore di un interessante reportage giornalistico dal titolo La famiglia in bilico. Com’è nato il libro?
R: All’indomani della tragedia di Novi Ligure, sono stato incaricato dal “Corriere della Sera” di fare un’inchiesta sul malessere delle famiglie italiane. Con l’aiuto di un esperto, ho cercato di individuare un “panel” di famiglie che fosse in qualche modo rappresentativo sul piano socio- culturale geografico. Si trattava di capire come sono cambiati i rapporti tra genitori e figli adolescenti, cercando di raccontare dall’interno le loro paure, i conflitti, le passioni, i gusti, i problemi. Così ho cominciato a viaggiare: Bari, Palermo, Milano, Roma, ma anche la provincia: Brecciarola (Chieti) e Pordenone. Non è stato facile individuare le famiglie né avere la loro adesione perché si chiedeva loro di raccontare, con nome e cognome, aspetti di vita quotidiana e affettiva. Poi, quando l’inchiesta era conclusa, l’editore mi ha chiesto di aggiungere altre interviste e di ampliare quelle esistenti per farne un libro. Così ho riscritto tutto in forma più narrativa, ho aggiunto i capitoli su Città di Castello, Napoli, Mombaruzzo (Alessandria) e una seconda puntata su Milano.
D: Quali conclusioni se ne possono trarre?
R: Ovviamente non pretendevo di offrire al lettore un quadro completo e sistematico, perché non basterebbe un’intera enciclopedia a dar conto di tutte le possibili tipologie: le famiglie in definitiva sono tutte diverse tra loro. Ho constatato però alcune costanti, anche se è estremamente pericoloso generalizzare. Per esempio, il fatto che gli adolescenti hanno molta difficoltà nel pensare al loro futuro. E’ come se mancassero di sogni e fantasie. Vedono il futuro con un certo timore e con un eccesso di realismo da “adulti”: sia per quanto riguarda il lavoro, sia per quanto riguarda le relazioni affettive. La paura è un sentimento diffuso anche nei genitori: paura della droga, della criminalità, dell’”altro”. Il mondo esterno è sentito come qualcosa di minaccioso da cui stare alla larga.
D: La famiglia in bilico però non è il suo unico reportage giornalistico; con il libro Io Vorrei Lei conferma il suo interesse ai fenomeni sociali.
R: Con Io Vorrei ho preferito mettere insieme delle vere e proprie interviste, toccando da vicino punti dolente e critici dei nostri ragazzi, secondo me “tipici”. Ne è venuta fuori una galleria di personaggi a suo modo affascinante, capace di meravigliarti e spaventarti con la stessa intensità: il diciottenne che affronta l’esame di maturità, le aspiranti miss, i fan di Vasco Rossi, le teste rasate, i giovani contradaioli del Palio, i ragazzi che trascorrono i loro pomeriggi al supermercato, Veronica, figlia costretta ad accudire i propri immaturi genitori.
D: Dopo la vittoria riportata al Premio Flaiano, a Lei è stato assegnato il Premio Vittorini con Tutti contenti, romanzo che si allinea con la migliore tradizione di Conversazione in Sicilia. Si tratta di un libro molto diverso dai precedenti.
R: E’ un romanzo meno claustrofobico. Qui c’è un proliferare di storie che si intrecciano e una varietà di voci narranti e di dialoghi. I luoghi chiusi si sono aperti, le voci si sono moltiplicate anche se permangono i motivi che sento come ossessioni mie, dovute alla mia biografia: lo spaesamento, la nostalgia per i luoghi e i tempi irrecuperabili.. Per Nino Motta, poi, questa nostalgia è dovuta a fattori anagrafici fondamentali: il fatto di non aver mai conosciuto suo padre, che quando lui nacque era ottantenne; e di aver conosciuto poco anche la madre, che invece era giovanissima. Del padre ricorda solo il cappello appeso in entrata e della madre gli torna in mente sempre il cappottino troppo stretto che indossava le poche volte che è andata a trovarlo in collegio.
D: Uno scrittore siciliano non può sfuggire al tema del ritorno, della memoria che si riaccende. E’ sempre così, da Verga a Vittorini a Cosolo. E difatti anche in Tutti contenti Lei racconta la storia di un ritorno in Sicilia. Si sente legato a questa tradizione?
R: Se dovessi pensare al tema del ritorno, non penserei a Vittorini. Più a Pavese, o a certi americani come Faulkner, che trattano lo stesso tema. La fatica del ritorno io l’ho vissuta a livello biografico, più che letterario, perché ho sempre letto scrittori siciliani e ormai fanno parte di me. La lontananza è sempre stata argomento della letteratura, a partire da Ulisse, passando per la poesia provenzale e arrivando a Kundera, ma oggi più che mai è un tema d’attualità. Quando vedo tanti immigrati che arrivano nel nostro paese, penso ai lavoratori italiani che negli anni Cinquanta e Sessanta partivano per la Svizzera o per la Germania….
dicembre 2005
