Giunti a più di vent’anni dalla nascita dell’“Osservatorio sul romanzo italiano contemporaneo”, in attesa dell’uscita del primo numero della rivista on line “Oltre lo specchio”, ripeschiamo nei nostri archivi e pubblichiamo queste schegge critiche scritte da Roberto Alajmo e Antonio Di Grado, nel 2014, in occasione della giornata di studi dedicata per il decennale a “Romanzo e contemporaneità”.
Roberto Alajmo
Riflessioni sul romanzo
Appena prende la penna in mano o apre un file di word, ogni scrittore si trova davanti un ostacolo preliminare che dovrebbe risultare bloccante.
Immaginiamo un’enorme insegna a caratteri di pietra, un baluardo che si frappone fra lo Scrittore e la Scrittura proprio quando tutto sembrerebbe diventato facile – la penna sul foglio bianco, le dita sulla tastiera. La domanda insormontabile è: CHI SE NE FREGA?
Seppure posto con villania, si tratta un interrogativo etico-ecologico che dovrebbe imporre pudore e silenzio a ogni scrittore. Come forma di igiene, proprio.
Se si scrive, infatti, è sempre nella presunzione di raccontare cose che importino a qualcuno. E, superata l’adolescenza, qualsiasi individuo deve almeno essersi fatto venire il dubbio che il mondo andrebbe, andrà avanti anche senza sapere niente di lui.
Questo in generale.
Per quanto ne possa capire io, la sfida maggiore per uno scrittore è quella di esporre a rischio di Chi se ne frega addirittura i materiali della propria autobiografia. Se prevalesse il buonsenso, nessuno si avventurerebbe mai su questo terreno, sul quale sono destinate a cadere tutte le migliori intenzioni. Quasi tutte. A voler essere razionali tanto varrebbe immaginarle tutte, destinate al fallimento. Ma la letteratura esiste ancora perché nessuno accetta di muoversi su un piano puramente razionale.
Novecentonovantanovemila volte, l’autobiografismo è cacca. Ma quando, una volta su un milione, per motivi imperscrutabili, la sfida viene vinta, allora si ottiene il meglio della letteratura mondiale. Se uno scrittore dice Io, e intende veramente IO, allora i casi sono due: o è un genio o è un cretino.
Non sono molti gli scrittori italiani che negli ultimi trent’anni hanno avuto il coraggio di infilare apertamente se stessi in una propria narrazione. Un po’ Francesco Piccolo, un po’ Antonio Pascale, di sicuro qualcuno che non ho letto e non conosco. Ma non esiste una corrente, nemmeno un rigagnolo di scrittori che osano dire io (o pronomi equivalenti) nei propri romanzi. E questo mi pare significativo di come l’Italia, anche in questo campo, sia un paese anchilosato, dove il rischio viene considerato comunque azzardo. Non sapendo come muoversi, si rimane immobili ad aspettare che morte sopraggiunga.
Eppure, per capire che il rischio paga, basta sollevare lo sguardo fino a superare di poco i confini nazionali e imbattersi in uno dei più grandi scrittori contemporanei, Emmanuel Carrére, che da molti romanzi a questa parte si spinge a raccontare non una storia, e nemmeno la Storia, ma la storia di lui stesso alle prese con la storia, maiuscola e minuscola. Vale per tutti i suoi libri a partire da “L’avversario” fino a “Limonov”. Me ne frega se Carrére racconta di se stesso che racconta la biografia di un avventuriero russo bipolare? In partenza no. Ma alla prova dei fatti, al contrario: me ne frega moltissimo.
Certo, a fronte di un immenso Carrére, esistono migliaia di dilettanti che vanno allo sbaraglio vomitando sulla carta la propria esistenza, senza filtri di alcun tipo. Vale la pena di correre il rischio? Non so. Di sicuro però è il rischio l’unico vero motivo per cui vale la pena di alimentare un sistema editoriale che altrimenti si muove solo sulle strade della consuetudine.
L’unico modo per non vivere letterariamente strisciando: alzarsi e correre. Anche a costo di morire, se proprio bisogna.
Antonio Di Grado
Due o tre cose sul romanzo oggi
Si dice, e si dice bene, che il romanzo contemporaneo è sempre più un prodotto di consumo, che il mercato ne ha livellato e imbarbarito la qualità, che l’editoria opera scelte sempre più commerciali.
E certo c’è il mercato, e ci sono le aziende editoriali asservite al suo imperio, a imporre una degradazione gastronomico-dopolavoristica del genere-romanzo. Ma duttile e sgusciante com’è, il romanzo nel tempo ha sempre saputo far finta di assecondare predilezioni diffuse e ottuse committenze per prendersene gioco e piegarle ai suoi capricci e ai suoi azzardi.
E allora, visto che non stiamo parlando di merci ma di letteratura, la domanda è un’altra: cosa chiediamo, oggi, al romanzo, alle scritture narrative? Chi subisce il fascino delle grandi narrazioni che fino a qualche tempo fa hanno raccontato e spiegato il mondo? Erano narrazioni tutte le grandi fedi e teorie concepite dalla civiltà occidentale; erano narrazioni la Sacra Scrittura e i poemi omerici, la Divina Commedia e gli affreschi della Sistina, la filosofia dello Spirito di Hegel e Il Capitale di Marx, il darwinismo e la psicanalisi, per non dire del grande romanzo sette-ottocentesco, o del cinema che forse meglio di ogni arte ha saputo raccontarci il Novecento: narrazioni diverse della storia umana, vale a dire diverse ricostruzioni del passato e prefigurazioni dell’avvenire, capaci perciò d’inserire la storia d’ognuno in un continuum dotato di senso e orientato a uno scopo; e per ciò stesso di sanare le contraddizioni, di guarire le ferite, di redimere l’insensatezza della quotidianità e della storia destinandole a un fine, a uno scioglimento romanzesco.
Ma possono ancora quelle narrazioni, in un tempo di vertiginose trasformazioni tanto nelle modalità espressive quanto in quelle percettive, raccontarlo e spiegarlo, imporgli un senso e un fine, immettere il nostro vissuto in un continuum lineare e progressivo? È ancora lecito, come ancora si fa, ingabbiare un vissuto fluido, pulviscolare, curvilineo e multanime in una improbabile Bildung, in quell’idea massonico-illuministica di “formazione” che ieri c’illuse ma che le rivoluzioni e le catastrofi del Novecento avevano già smentito? O è il caso di saltarla a piè pari tornando alla libertà inventiva, al felice eclettismo, all’amorfismo del romanzo precedente, quando potevano coabitare l’antiromanzo di Sterne, il fantastico di Swift e la fame di realtà degli spregiudicati e ingegnosi personaggi di De Foe?
Questa la grande risorsa del romanzo: gli si può chiedere di tutto, di mettere ordine nel mondo o di mimarne il caos, di rifletterlo come in uno specchio o di smontarlo come un giocattolo, di fare propaganda o di esaltare l’orrore, di raccontarci la società o di inabissarsi nella psiche, di straniarci o di radicarci, di rivelare o mentire, di convincere o turbare e così via esigendo. E il romanzo, servizievole e duttile, quando può e sa, risponde: è nella sua natura metamorfica adattarsi alla forma del presente, incarnarne le contraddizioni e patirne gli incubi; e mettersi in discussione, esibire i suoi trucchi e inventarne di nuovi, piegarsi di volta in volta alle necessità e sfruttarle scaltramente come quei pìcari, quei trovatelli, quei reietti, quegli ingegnosi naufraghi e quelle accorte ladre o serve o puttane, che ne popolarono i primi paesaggi.
E ce ne vorrebbero, di quei guastafeste, nel romanzo italiano di oggi così rassettato e perbenino, a sporcare il tappeto del salotto e a disegnar le corna sui ritratti degli antenati. Che cosa ci raccontano invece, fatte salve poche e rilevanti eccezioni, i romanzieri che gremiscono le vetrine? Non parliamo dei siciliani, alcuni dei quali ancora stanno elaborando il lutto per il naufragio della Provvidenza e la perdita della casa del nespolo. Ma gli altri? Infanzie incomprese e onanistiche; saghe familiari e ritorni alle radici; impasses creative di intellettuali frustrati professionalmente e abbandonati delle mogli; arcadie contadine venerate come templi della memoria e solitudini metropolitane inevitabilmente corruttrici; e così via tediando, fino all’argomento principe della romanzeria di consumo otto-novecentesca: sì, sempre lui, l’Adulterio, il triangolo originario (‘isso, ‘issa e ‘o malamente), lo spettro del tradimento femminile che si aggira (altro che Marx ed Engels!) nelle coscienze borghesi, ovvero – dall’altra parte della barricata sessista – il timor panico dell’abbandono o la cauta trasgressione di qualche attardata Bovary.
Dimenticavo: c’è il noir, anzi domina. Un tempo scacciati dal tempio dell’arte da arcigne sentinelle vestite da critici e docenti, oggi il giallo e il noir suo figlio l’hanno invaso: e non c’è retrocopertina che non sbandieri quel nero vessillo a promuovere il libro fresco di stampa. Tra poco, chissà, anche quei teorici e storici della letteratura, opportunamente convertiti, scriveranno che anche I promessi sposi, grazie ai bravi e ai monatti, era un noir.
E sì che ci sarebbe tant’altro, tant’altra realtà da mordere, tante altre ferite da esibire, tanti altri enigmi da decifrare, tante altre imposture da smascherare nella nostra storia recente; e tante nuove e folgoranti visioni da carpire all’immaginario delle giovani generazioni, tanto più incline del nostro a perlustrare codici e linguaggi, conoscenze e visioni di questo presente che prima che tu l’abbia letto è già futuro. Perché non si tratta solo di cosa, ma di come raccontare. Di quali parole inventarsi per dire la magmatica fluidità della trasformazione in atto, o (perché no?) di quali incubi nutrirsi per lambire l’Indicibile; e da dove prenderli: non solo e sempre Proust o Joyce, Pirandello o Svevo, o i nordamericani oggi gravanti come un’ipoteca così come qualche decennio fa i sudamericani; ma (che so io?) dal cinema, dalla musica, dall’Oriente, dal mondo della comunicazione, da quella letteratura fin qui considerata di serie B e che sovente è invece un’incubatrice di oltranze visionarie…
E tuttavia vorrei andar oltre la pur necessaria aderenza del romanzo al reale e al suo divenire, vorrei spingermi più in là anche a costo di contraddirmi. Perché il romanzo può e sa essere anche una finestra sull’oltre, su ciò che non siamo e non sappiamo. E io – lo confesso- non so più leggere romanzi, nemmeno con solide trame e immagini sorprendenti, che non mi affaccino a quella finestra, che non pongano domande radicali, che non costeggino e corteggino una sia pur irraggiungibile verità.
Raccontano le cronache della rivolta dei Boxer che tra i cinesi condotti al patibolo alcuni si accapigliavano, altri insultavano i carnefici, uno solo nella fila leggeva, tranquillo e assorto, un libro. Impressionato, l’ufficiale tedesco lo graziò. Il cinese, prima di scomparire, gli spiegò che ogni riga in più è una rivelazione e un guadagno.
È così che bisogna leggere: come strappando ogni parola all’imminenza d’una ghigliottina. Ed è questo che deve dirci un romanzo: una parola necessaria a quell’attimo. Perché dirci il già detto, perché pensare il pensabile? Perché farsi imprigionare la mente e l’anima da ciò che si vede, perché ingabbiarle nel serraglio di cronaca e politica, di destra e sinistra, di chiese e partiti, di inquirenti ed inquisiti, di interessi e ideologie, di impegno ed evasione, di tradizione e sperimentazione, di socialità e introspezione, di realtà e finzione, di vita e morte? Se pensassimo l’impensabile, forse salveremmo il mondo. E di alcuni bei romanzi sull’oltre parlerei volentieri, ma non posso per non incorrere nel conflitto d’interessi: li hanno scritti due autrici a me fin troppo care.
Lo so: qualcuno opporrà il consueto e consunto refrain sull’impegno civile dello scrittore. Ma perché chiedere pronunciamenti e denunzie proprio a lui e non all’idraulico o al dentista? Perché – si dice – lo scrittore ha un prestigio e una fama da spendere. Non li ha più, invece: nemmeno una briciola o un ricordo. Perciò lasciatelo in pace. E fategli spendere intelligenza, moralità e stile per cause meno effimere. Scriveva Cechov a un amico che lo scrittore e l’artista, rispetto alla politica, hanno un solo dovere: difendersene. Di pubblici accusatori – aggiungeva – e di gendarmi, ce n’è già troppi in giro.
E dire che ai suoi tempi non si organizzavano ancora gite aziendali a Gomorra, né proliferavano gli instant novels di oggi, che durano un giorno come le notizie dei quotidiani…
