(di MARTA ACCARDI)
Sin dalle prime pagine del recente romanzo di Giorgio Montefoschi, Un’indicibile tenerezza (La nave di Teseo, 2024), appare evidente quanto i dialoghi costituiscano la solida ossatura messa a punto dall’autore a sostegno della narrazione. Pagina dopo pagina, infatti, il lettore segue lo sviluppo della vicenda assistendo alle numerose conversazioni – a volte lunghe, altre volte quasi un botta e risposta – che il protagonista, Pietro, uno scrittore sessantenne di Roma alle prese con un nuovo romanzo, intrattiene con gli altri (pochi) personaggi: la compagna Sabina e la figlia di lei, l’editor Paola e l’editore milanese Mario. Parlano di tutto, molto spesso di tennis, delle vacanze al mare e delle cene casalinghe, quasi mai invece del romanzo che il personaggio-scrittore non si decide a pubblicare e che, anzi, rimette nel cassetto al termine del primo incontro con Paola, l’editor. Il lettore non conosce né il titolo né la trama di quell’opera che non vedrà mai la luce, ma soprattutto non sa quali siano le motivazioni che inducono Pietro alla rinuncia, semplicemente perché nessuno dei personaggi ne parla. Avviene così che l’attenzione del lettore, attratta immediatamente da quel lavoro che giace nel cassetto, venga da subito indirizzata altrove da Montefoschi, che sceglie di dedicare grandissima parte della narrazione alle chiacchiere dei personaggi.
È bene precisare che utilizziamo qui il termine ‘chiacchiera’ senza alcun significato ‘spregiativo’, per dirla con Martin Heidegger, il quale nel suo celebre saggio Essere e tempo ha dedicato un passo proprio alla nozione di chiacchiera. Nozione che è stata recuperata, sul finire degli anni Sessanta, da uno scrittore italiano interprete d’eccezione del pensatore tedesco: Alberto Moravia. In un suo saggio del 1967 intitolato La chiacchiera a teatro, infatti, l’autore de La noia prende le mosse dalle parole del filosofo esistenzialista e spiega che «la chiacchiera non è comunicazione, comprensione, intendimento bensì modo di esistere o di comportarsi», è da intendersi quindi come «l’indizio di un’alienazione o estraniazione o incapacità di aver rapporto con quel che sia». Poco dopo, ancora nel medesimo saggio, aggiunge:
La chiacchiera […] è la dimostrazione che lo strumento di cui l’uomo si serve per comunicare ed esprimersi è in buono stato. Equivale ai giri di motore in folle con i quali ci si assicura che il motore stesso funziona. Di fronte a qualcuno che chiacchiera noi ci sentiamo in certo modo rassicurati perché pensiamo: “Quest’uomo chiacchiera. Significa che ad un certo momento potrebbe forse anche dire qualche cosa”. In altri termini la chiacchiera è un segno sicuro che non ci troviamo di fronte ad un robot, di fronte ad un muto, di fronte ad un mostro. Si dice infatti comunemente: “Ora basta con le chiacchiere, veniamo alle cose serie”. Che vuol dire questo se non: “Adesso basta con la dimostrazione che tu esisti […] adesso è tempo che tu ci dici qualche cosa”?[1]
Secondo una lettura in chiave esistenzialistica, nella vita reale l’uomo non fa che affermare sé stesso attraverso la chiacchiera; nell’arte invece – ci avverte Moravia – la chiacchiera «è cosa tutta diversa, come è diversa qualsiasi rappresentazione dall’oggetto rappresentato»[2], poiché assume un valore simbolico che necessita di essere interpretato. Ciò è vero, ad esempio, nel cosiddetto teatro dell’assurdo, quello, per intenderci, di Ionesco, Beckett e Pinter, in cui – com’è noto – la chiacchiera è eletta a protagonista assoluta del testo drammaturgico ed allude sempre a una catastrofe e a un malessere che non vengono esplicitati sulla scena, ma sono comunque percepiti sin da subito dallo spettatore. Alla stessa stregua di quanto avviene all’interno di un’opera di Harold Pinter, drammaturgo inglese al quale, nel 2005, l’Accademia Svedese ha conferito il premio Nobel per la Letteratura proprio in virtù della sua capacità di svelare «il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno» (così recitava la motivazione ufficiale), nel romanzo di Montefoschi si ha perennemente l’impressione che le innumerevoli conversazioni tra i personaggi, solo ad una prima lettura appiattite sulla banalità del quotidiano, adombrino in realtà un disagio, sofferto dal protagonista e mai esplicitato dall’autore, che spetta al lettore cogliere ed interpretare.
Nel corso della narrazione, la condizione di disagio del personaggio cresce sempre di più e si colora di sfumature che attengono alla sfera della solitudine, della disperazione e della nostalgia. Tra tutti gli stati d’animo che velatamente si fanno largo tra le chiacchiere, la disperazione sembra essere quella che maggiormente pervade il personaggio attorno al quale ruota tutta la vicenda. Pietro è un uomo e un artista in crisi, ma è soprattutto un uomo disperato, che dice di essersi stufato «in senso assoluto» (p. 16) e decide di cedere alle «tentazioni adolescenziali» (p. 52) in seguito a una passeggera infatuazione per Paola, illudendosi in questo modo di poter attenuare il proprio dolore, illudendosi cioè di potere sciogliere la propria disperazione esistenziale.
Non conosciamo l’origine di tale disperazione, non sappiamo neanche se si esaurirà, tuttavia possiamo provare ad immaginarla, noi lettori, con la nostra sensibilità e la nostra immaginazione. E a suggerircelo è l’autore stesso, che con una precisione chirurgica tesse una fitta rete di richiami intertestuali che getta poi nel mare magnum di chiacchiere quotidiane. Scopriamo, ad esempio, che la disperazione di Pietro somiglia a quella che sembra affliggere i corpi dei tre uomini dipinti dal Bellini nell’Orazione nell’orto, esposta alla National Gallery di Londra accanto all’Orazione del Mantegna – come precisa il protagonista (p. 168) –, oppure a quella che opprime il personaggio di Hemingway nella scena finale di Fiesta, in cui, a causa di una brusca frenata del taxi, Jake si ritrova vicinissimo alla donna amata che sa di non poter avere. È una scena «straziante» (p. 256) secondo Pietro, il quale ha riletto il romanzo dello scrittore statunitense e, in preda ai fumi dell’alcool, vorrebbe commentarlo con Sabina, forse – ipotizza il lettore – per riuscire finalmente a parlarle di sé oppure del romanzo rimasto nel cassetto, ma la compagna non sembra interessata e la conversazione muore poco dopo. Ancora un’altra chiacchiera. Nel corso del romanzo, Montefoschi dissemina con cura altri rimandi intertestuali: si citano L’uomo senza qualità di Musil, L’airone di Bassani, Madama Butterfly di Puccini e Terra di nessuno di Pinter. Il riferimento all’opera del Premio Nobel inglese appare a latere dell’ennesimo dialogo tra Pietro e Mario. I due sono al ristorante, stanno leggendo il menù e chiacchierano del più e del meno, quando l’editore informa l’amico del suo breve e recente soggiorno a Londra, in compagnia della moglie, insieme alla quale ha assistito alla rappresentazione di «un notevole No Man’s Land» (p. 199), dice. Pietro e Mario concordano nel ritenere Pinter «imbattibile» e, subito dopo, si decidono ad ordinare la cena. Ancora una volta, quindi, assistiamo ad una chiacchierata tra amici che potrebbe preludere ad una conversazione molto più profonda – non è peregrino pensarlo perché, in fin dei conti, stanno dialogando un editore e uno scrittore in crisi –, potrebbe insomma essere una buona occasione per i due personaggi di parlarsi sinceramente. Eppure, niente di tutto questo succede e, nel momento in cui i due smettono di parlare, si ha la sensazione che qualcosa sia rimasto in sospeso, insoluto. Proprio come nel teatro dell’assurdo di Pinter, anche nel romanzo di Montefoschi i personaggi si muovono in un limbo che è, a ben vedere, una ‘terra di nessuno’, «che non si muove, non cambia, non invecchia, ma che resta per sempre gelida e muta»[3]. Nessuno, però, sembra averne consapevolezza, tranne il disperato Pietro.
[1] A. Moravia, La chiacchiera a teatro, in Id., Teatro, a cura di A. Nari e F. Vazzoler, Bompiani, Milano 2012, 2 voll., versione ebook, p. 623.
[2] Ibidem.
[3] H. Pinter, Terra di nessuno, in Id., Teatro, a cura di A. Serra, Einaudi, Torino 2015, 2 voll., I vol., p. 169.
