(di MARIA SOLE CUSUMANO)
Secondo romanzo di Hanya Yanagihara (il terzo, Verso il paradiso, edito da Feltrinelli, è uscito questo 13 gennaio), pubblicato nel 2015 e, in Italia, un anno dopo dalla casa editrice Sellerio con la traduzione di Luca Briasco, Una vita come tante ha ripreso a far parlare di sé grazie soprattutto al passaparola dei lettori attraverso i social, riconfermando il successo dell’esordio. Il libro era stato infatti finalista al National Book Award e vincitore del premio Kirkus nel 2015, ed è stato incluso fra i migliori libri dell’anno da prestigiose testate giornalistiche americane come il «New York Times» e il «Guardian».
Il romanzo racconta le vite di quattro amici, già compagni di college. C’è Willem, con il sogno della recitazione, che nel frattempo lavora in un ristorante; Malcolm che fa modellini su modellini e vuole diventare un architetto; e poi JB, artista eccentrico in attesa di sfondare. Perno del gruppo e della storia è Jude, un avvocato brillante. Verso di lui i suoi amici hanno particolari attenzioni e premure pur ignorando il passato di violenze e abusi di cui nemmeno il lettore è messo immediatamente al corrente. Il suo vissuto, secondo Jude, deve essere nascosto, perché certe cose a volte sono così brutte da non potersi nemmeno raccontare. Così, quando Willem, l’amico che gli è più affezionato, gli pone domande dirette, precise, a riguardo, Jude si ritrae: «D’altro canto, esisteva forse un solo fatto, nella vita delle persone, che non fosse collegato a una vicenda più grande e triste? Willem voleva una risposta semplice, e non c’era alcun bisogno che tirasse fuori anche tutto il resto, e l’intera, terrificante massa di problemi che ne erano nati» (p. 625).
La scrittrice, quasi assecondando i tempi del suo personaggio, lascia che questa singola esistenza emerga poco a poco, attraverso continue digressioni e lunghi flashback, e non risparmia al lettore particolari cruenti quando ripercorre momenti d’indicibile sofferenza. Yanagihara vuole mostrare tutta la drammaticità della vita di Jude ma lo fa con uno stile piano, essenziale nella sua concretezza, che rende la lettura scorrevole nonostante le 1093 pagine del romanzo.
Per questo distillato di vita umana, la scrittrice ricorre ad alcuni elementi fantastici: ad esempio, la mancanza di punti di riferimento temporali e, rispetto al trattamento dello spazio, l’esclusiva presenza di luoghi circoscritti all’esperienza del protagonista.
Sappiamo che il romanzo è ambientato a New York e si sviluppa in un arco di tempo lungo vent’anni; della grande metropoli ci vengono indicate strade e quartieri, tuttavia, Yanagihara non fa riferimento a situazioni ed eventi noti, né a nomi di personaggi pubblici della metropoli newyorkese che potrebbero consentire di risalire ad un preciso momento storico; tutto ciò che il lettore sa e vede è solo in relazione a Jude e ai suoi tre amici. La storia della loro amicizia si snoda fra strade e appartamenti in un eterno presente e senza soluzione di continuità. All’inizio, può essere difficile raccapezzarsi in questo nastro di vita che a volte va avanti e altre torna indietro, ma questi andirivieni collaborano a dare piena aderenza al vissuto di Jude. E anche gli altri personaggi, salvo quelli che gli restano più vicini, sbiadiscono. Se tutto esiste e si realizza in funzione del protagonista, le lettura è un’esperienza totalizzante perché è impossibile distogliere l’attenzione da Jude, non empatizzare con il suo vissuto.
Il personaggio stesso, fra l’altro, rispecchia per alcune sue caratteristiche un contemporaneo eroe fantastico; una di queste, come ha sottolineato la stessa autrice, è l’assenza dei genitori. Tale mancanza fa di Jude un uomo senza origini, senza radici, una creatura quasi mitica: la patina di mistero intorno a lui si infittisce pagina dopo pagina e, come i suoi amici, i lettori ne sono insieme attratti e respinti.
Più di tutto, questa è una storia di amicizia e di umanità, in cui la bontà, la mano tesa verso l’altro, anche se a fatica, possano contrastare il dolore, come dirà Jude che le ha molto care: «L’unico segreto dell’amicizia, credo, è trovare persone migliori di te […], apprezzarle per ciò che possono insegnarti, cercare di ascoltarle quando ti dicono qualcosa su di te, bella o brutta che sia, e fidarti di loro, che è la parte più difficile. Ma anche la più importante» (p. 320).
L’autrice ricorre a tutti gli espedienti necessari per coinvolgere il lettore sul piano emotivo. Adottando differenti punti di vista, Yanagihara si prende tutto il tempo necessario per farci conoscere i personaggi intimamente, e Jude più di tutti acquista dolorosa concretezza. Sicché, quando siamo davanti a pagine di inaudita sofferenza, ci sentiamo feriti come da uno stiletto, complice la parola caustica della scrittrice che sa raccontare anche le cose più crude senza abbellimenti o inutile retorica.
Le peripezie che il nostro eroe contemporaneo deve oltrepassare sono proporzionate ai successi che otterrà, ad esempio, in ambito lavorativo. Aspetto questo che alcuni lettori hanno trovato decisamente poco realistico. Ma tale apparente incongruenza non ha nulla a che fare con l’inverosimiglianza, sottolinea anzi, da un lato, le contraddizioni del vivere stabilendo una sorta di contrappasso, e risponde, ancora una volta, alla volontà di fare del romanzo una fiaba moderna dove dolore e gioia si alternano in un concentrato di pura vita.
Così Jude, Willem, Malcom e JB si impongono alla nostra attenzione per la forza delle loro esperienze di vita, e noi cominciamo a pensare che da qualche parte tra SoHo e Uptown, loro soffrano, piangano, ridano e amino veramente: che, insomma, ovunque essi siano, esistano. Yanagihara ha costruito un’opera complessa nella sua modernità e articolazione, in cui più che gli accadimenti esterni a contare sono quelli interiori, le relazioni umane e il loro evolversi nel tempo, dandoci così un distillato di vita che, se vista dall’esterno, potrebbe apparire piccola e insignificante, ma che, vissuta dall’interno, si rivela in tutta la sua struggente intensità.
Una vita come tante è un romanzo faticoso che libera il pianto. Secondo alcuni troppo faticoso. Ma è proprio la vastità e la profondità del dolore che racconta a farci entrare naturalmente in empatia con Jude, fino a che le sue sofferenze diventano le nostre e ci pare che, per qualche strana ragione, le attraverseremo insieme, fino alla fine. E se vi si vuole trovare un senso, lo si può rintracciare, ad esempio, nelle parole di Harold, altro personaggio fondamentale per Jude: «Ma lui non vuole che tu lo ammiri; vuole che tu lo veda per la persona che è. Vuole sentirsi dire che la sua vita, per quanto inconcepibile possa apparire, rimane una vita» (p. 850).
