(di MICHELE MARRAPODI)
Già primario di Neuropsichiatria infantile all’ospedale Versilia di Viareggio e autore di saggi a confine fra divulgazione scientifica e letteratura, Giorgio Pini ci consegna con questo nuovo libro una sensibile e drammatica testimonianza della sua esperienza di medico e studioso delle malattie rare, che spesso colpiscono in modo rapido e improvviso le vittime più deboli e indifese della società: le bambine, ossia quelle pazienti nelle quali, come scrive il suo pseudonimo Lorenzo Lapi nell’ironica lettera alla Governatrice degli Ospedali Riuniti, “a parità di disgrazie, essere femmine, malate e rare, rappresenta l’ultimo gradino della scala sociale” (p. 16). Nella maggior parte dei casi, si tratta di patologie complesse che hanno origine da alterazioni genetiche i cui esiti si traducono in effetti devastanti nello sviluppo neuropsichico e comportamentale, disturbi troppo spesso catalogati nell’ambito dello spettro autistico e che invece, più di frequente, compromettono la normale evoluzione del linguaggio e del cammino con l’insorgenza di crisi epilettiche, scoliosi e stereotipie manuali, come nei vari fenotipi della Sindrome di Rett. Nella diegesi del narratore, erano queste bambine:
nate e cresciute sane fino a sette mesi o poco più; poi a volte in poche settimane, o addirittura in pochi giorni, perdevano interesse per le persone e si isolavano intente a giocare solo con le loro mani, eseguendo movimenti stereotipati. Picchiettavano le dita di una mano agli angoli della bocca, oppure le intrecciavano come in una preghiera o ancora le sfregavano come a volerle incessantemente lavare (p. 29).
Il libro è strutturato in tre articolati capitoli, sebbene la costruzione narrativa sia caratterizzata da due parti apparentemente distinte a causa di finalità metodologiche diverse. Nascono così due blocchi narrativi che si fondono armonicamente nella medesima originale strategia di un efficace dialogo a più voci, secondo i canoni stilistici del romanzo moderno. La parte iniziale, più descrittiva e scientifica, presente nel capitolo primo intitolato “Dall’autismo alle malattie rare”, serve a definire – anche tramite narratori di secondo grado, le bambine stesse o le madri, che rivivono dolorose esperienze di vita – le caratteristiche e i sintomi delle patologie, a tracciare le nuove tappe e scoperte scientifiche, a rappresentare lo stato dell’arte. Nelle mamme di queste bimbe sono scolpiti i segni indelebili delle sofferenze patite, le ansie e le delusioni per una speranza di cura mai del tutto sopita:
Lei non sa quanto dolore, quante illusioni, quante speranze gettate: anni e anni di sensi di colpa, perché ogni volta che ci parlavano di autismo era come se si aprisse un processo senza fine per capire dove noi genitori avevamo sbagliato e chi dei due era pazzo. Quanta sofferenza e quanto denaro, quanti anni di psicoterapia, anche a noi genitori (p. 30).
Nell’animo del neuropsichiatra che ascolta queste storie, lo scrittore-pseudonimo Dr. Lapi, tanta sofferenza non può rimanere senza risposte. Nell’attesa straziante di una terapia, occorre dare alle bambine l’illusione di una vita normale, favorendo i processi di socializzazione e di inclusione scolastica. Nasce di qui l’idea di leggere una lunga lettera ai compagni di classe e di farlo anche nelle scuole della provincia, mettendo in pratica un piano educativo che riceve subito commoventi feedback di entusiastica partecipazione e solidarietà collettiva nei piccoli allievi:
Immagina una bella bambina sana che ti guarda, sorride, ha già cominciato a pronunciare qualche suono o a dire qualche parolina. Immaginala al suo primo compleanno: fa ciao con la mano e soffia sull’unica candelina della torta. È proprio in quel periodo che la bimba si ammala. Non si tratta di una banale influenza o della febbre che come è venuta se ne va via. Non è una malattia che colpisce tante persone, ma una di quelle che i dottori chiamano rare perché in una città come Lucca ne nasce una ogni 10 anni. I grandi dicono che quando una cosa è rara è anche preziosa, come un francobollo che non si trova facilmente o una perla di grande valore. Anche le bambine Rett sono rare e preziose perché quando guardano i loro amici e i loro parenti li riempiono di gioia .… (p. 41).
Nella seconda parte, che occupa i capitoli secondo e terzo, rispettivamente dai titoli significativi di “In punta di piedi nel territorio delle bambine” e “L’epilogo”, il racconto assurge ad assoluto protagonista, il narratore diventa onnisciente e può esprimere in terza persona, tramite le toccanti storie dei suoi personaggi e le proprie sensibili e talvolta ironiche riflessioni, le notevoli sofferenze, ansie e traversie che colpiscono le ragazze, i genitori e l’intera famiglia. Nascono così una serie di ritratti individuali che, pur nella breve descrizione di poche pagine, risaltano di introspezione psicologica, di fine analisi e cura dei particolari, come nell’incipit che apre il paragrafo “Vivere di niente con un diavolo in corpo”:
“È un castello di sabbia. Ha un’asta di bandiera infilata in cima. Il vento sembra impazzito. Le bandiere sventolano in due direzioni diverse. Sembrano a brandelli”.
Eva rigirò la tavola nelle mani e pensava.
“Che cosa ci vedi ancora?”
“Ci sono due gatti che si dicono brutte cose. Con la bocca spalancata e un ragazzo che tira fuori la lingua. Una bilancia, un gatto con la testa schiacciata e con lo stomaco grasso”.
La ragazzina sedeva davanti a Lorenzo che le mostrava quelle strane macchie in cui, le aveva detto lui, poteva vedere ciò che voleva, era un gioco della fantasia.
Sedeva, ma avrebbe preferito stare in piedi e muoversi, come faceva la mattina, al mare, dove erano venuti in vacanza (p. 74).
La narrazione biografica di Lorenzo lascia ora spazio, come in questo caso, al trascrittore-autore che riprende il ruolo primario di narratore onnisciente in un gioco di alternanza fra le voci narranti, a loro volta intervallate dalle espressive parole delle stesse piccole protagoniste. Altri esempi di brevi ‘ritratti’, che ricordano le esperienze umane acquisite dai casi medici studiati, si prestano a differenti modelli diegetici in un felice interscambio di strategie narrative.
Il babbo la teneva in braccio. Le parlava guardandola negli occhi. Beatrice aveva un anno, ma la sua voce era troppo flebile perché si potessero udire le parole, e le sue gambe troppo deboli per poter sorreggere il peso del corpo.
Lui le sollevava le spalle, la tirava su e poi tentava di metterla in piedi tenendola per le mani. Pochi secondi e di nuovo doveva riprenderla tra le braccia. E lei, non appena le si liberavano le mani, le portava alla bocca e sospirava.
Palma, la madre, stava lì accanto, lo sguardo mesto, si avvicinava a Beatrice e le diceva “Bea, dimmi mamma” ed era dolce “mam-ma, mam-ma” ripeteva sillabando. La teneva stretta, ma Bea sembrava una bambola di panno. Questo poteva durare anche un’ora o due. A volte sembrava che la bimba reagisse, tirasse fuori tutta la rabbia. In quelle occasioni compariva il lamento, il pianto, ma senza lacrime, e i muscoli flaccidi prendevano forma. Alla rabbia della bambina la madre rispondeva con voce più insistente: “mam-ma, mam-ma, noi siamo i tuoi genitori, abbiamo diritto di sentire che tu chiami mamma.” Ma ogni sforzo era vano. Alla fine la madre smetteva di parlare, la teneva con tenerezza e la consolava (p. 82).
Tutto questo dolore può essere alleviato da una struttura di sostegno morale e psicologico; non il reparto freddo e anonimo di un ospedale, bensì una residenza-vacanza della durata di qualche giorno o settimana, organizzata e confortevole, al fine di ospitare, curare e dare libertà di espressione e di gioco alle bambine insieme ai loro genitori. Tutto questo è “Dynamo Camp”, la nascita di una struttura permanente in provincia di Pistoia, che si occupa a tutti i livelli – assistenziali, terapeutici, ludici ed educativi – dei bisogni, delle necessità e delle peculiari esigenze personali di ogni singola giovane paziente.
L’organizzazione del campo è straordinaria. La struttura è edificata nell’aria di una vecchia enorme fabbrica di armi acquistata da una famiglia illuminata e trasformata da zona di guerra e di caccia in un grande campus della solidarietà. Sono migliaia i volontari che giungono da più parti per essere selezionati. […] Le regole dei volontari per ogni sessione sono chiare e stringenti. La programmazione delle singole attività e la verifica dei risultati o delle eventuali difficoltà di quel bambino o di quell’operatore vengono discusse ogni sera nel team del campo. Certo costa tempo, ma è tempo prezioso impiegato per dedicare l’attenzione che ci vuole ad affrontare una settimana con bambini fragili (p. 54).
L’impegnativo progetto, portato avanti da un’organizzazione di volontariato, trova un’analoga corrispondenza nella fondazione T.I.A.M.O., pensata in prospettiva anche per il “dopo di noi”, che Giorgio Pini, il trascrittore del presunto diario ritrovato, come lui stesso si firma nella bella Prefazione, dirige come Direttore Scientifico.
In questo impiego del modello narrativo del memoir, nel quale si inserisce la trascrizione dei ricordi dello pseudo-protagonista, la filosofia ispiratrice dell’intero progetto, realizzato nella fittizia città di Medusa, si incentra sull’uso olistico dell’attività ludica e ricreativa:
La “terapia ricreativa”, che si basa sul gioco e sul divertimento, è la sfida per il raggiungimento di obiettivi che richiedono il concorso di tutti. È proprio l’alleanza fra le famiglie, gli Enti sanitari, l’associazione, i professionisti e i volontari a costituire il motore dei possibili successi del bambino/a cui viene riconosciuta la prerogativa di avere potenzialità, energia e desideri (p. 66).
La finzione dell’autore di aver trascritto verbatim il contenuto delle pagine scoperte occasionalmente in soffitta – secondo una consolidata tradizione letteraria che ha radici, fra l’altro, nelle origini del romanzo inglese (vedi il Robinson Crusoe di Daniel De Foe, per esempio) – anticipa il ricorso ad elaborate tecniche stilistiche e strategie narratologiche che, tramite la presenza di un’ampia gamma di personaggi narranti, accentuano la caratterizzazione individuale e determinano la molteplicità dei punti di vista. La figura di Lorenzo Lapi, il neuropsichiatra scrittore-protagonista, assunto come alter ego dell’autore, consente un’abile finzione strategica che dà forza e incisività alla narrazione, contribuendo al discorso diretto e oggettivo della trascrizione biografica e producendo effetti positivi sul lettore, oltre a intensificare la valenza didascalica del racconto.
“L’epilogo”, che dà nome al terzo e ultimo capitolo, ritorna nella sua struttura al narratore onnisciente extradiegetico attraverso il quale è veicolata al lettore la descrizione della serena morte del neuropsichiatra-scrittore e, con essa, vengono riassunti, nel paragrafo “Elogio dell’unicità dell’essere”, l’eredità umana e le esperienze scientifiche che il racconto di queste bambine ci ha lasciato.
Lorenzo tornò a casa a piedi, respirando a pieni polmoni, prendendosi il tempo per riflettere e trovare le soluzioni. Ma l’aria sembrava non entrare nei suoi alveoli. Sentiva un senso di oppressione, un malessere vago. Nessun dolore. Era caldo per essere maggio. A un trattò gli balenò l’idea che quella temperatura inusuale preludesse al terremoto. Lorenzo trascinava una cartella gonfia di fogli e cartelle. La tracolla della borsa pesava sulla sua spalla sinistra. Si sentiva fiacco. Si appoggiò ad un muretto, gli sembrava di sudare freddo. Nessun segno, ancora nessun dolore. Poi di botto giù per terra, privo di coscienza (p. 110).
Bimbe rare, rarissime anzi uniche è un libro pregevole perché trasmette una forte carica comunicativa, caratterizzata da una felice scelta del lessico e dall’espressività del linguaggio, che si arricchisce di illuminanti metafore – talvolta eleganti e argute, talvolta semplici e popolari – ma sempre coerenti e utili al processo di ideale comunicazione col lettore implicito, il quale risulta didatticamente guidato sia nella comprensione delle parti più propriamente scientifiche che in quelle letterarie. In tal modo, il duplice livello stilistico, che esempla la naturale divisione fra scienza e letteratura, non viene posto in termini di contrasto, ma si realizza in un insieme omogeneo di voci, motivi e forme che esaltano l’efficacia delle varie vicende – narrate ora in prima, ora in terza persona – in un compendio stilistico coinvolgente e immediatamente fruibile anche ai lettori più giovani. Di qui la poliedrica natura di questo libro, dal titolo così significativo con cui viene sintetizzata l’unicità della malattia, non esprime solo una meritevole funzione di divulgazione scientifica e di sensibilizzazione sociale verso gli aspetti più gravi della disabilità; con la sua toccante umanità nel riflettere e far riflettere sui risvolti clinici, sociali e psicologici della malattia rara, che scaturiscono dai molti volti e tristi storie delle “bimbe dagli occhi belli”, può divenire uno strumento pedagogico da utilizzare per la lettura e il dibattito nelle aule scolastiche, come suggerito e attuato nella finzione narrativa, con l’obiettivo di educare alla diversità e di favorire la crescita civile e morale dei nostri giovani nel periodo più importante della loro formazione umana e culturale.
Giorgio Pini, Bimbe rare, rarissime anzi uniche (Viareggio: Pezzini Editore, 2020), 126 pp., Euro 12,00.
