Lug 01

Vincenzo Consolo, Retablo

«Come la cristallina, tersa, splendida evidenza e il numero infinito delle stelle m’avevano smarrito nella notte, così mi sgomentò e perse nel mattino il ritrovarmi mezzo in un mare magno di ruine. A Selinunte greca. Ruine d’una città e d’una storia. Ruine della storia. Immense pietre d’ocra a la nascente aurora su quel terreno di conterìa aurata ch’era l’ingresso e uscita, il lembo separato, l’emblema e la memoria dell’Africa vicina, oltre quel mare solcato da vele porpora, bianche, di là della collina di levante ove eravamo giunti. Fervida utopia, grandioso sogno di coloni dori in questa terra estrema, nei regni sconosciuti degli Elìmi, dei Fenici, dei Sicani».
Vincenzo Consolo, Retablo, cit., p. 97.

 

«Lasciai la collina dell’acropoli, che man mano verso l’interno, ov’era la più gran parte di cittate, si scopriva d’una boscaglia fitta di lentischio, discesi alla valletta ove scorrea il Selìno. Lì eran gore e stagni, macchie di canne, di tamerici, di perastri, e prati di selìno, d’orchidee, d’assenzio, d’iris. Guatato il fiume, a cui l’agrigentino Empedocle avea cangiato il corso per vincere la malsana dell’aere, la morte, giunsi al pendio ov’era il santuario della Malophoros, lungo la strada verso la necropoli».
Vincenzo Consolo, Retablo, cit., p. 103.

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