Mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia.
Il mare era nero, invernale, e in piedi sull’alto ponte, quell’altipiano, mi riconobbi di nuovo ragazzo prendere il vento, divorare il mare verso l’una o l’altra delle due coste con quelle macerie, nel mattino piovoso, città, paesi, ammucchiati ai piedi. Faceva freddo e mi riconobbi ragazzo, avere freddo eppure restare ostinato sull’alta piattaforma, nel vento, a picco sulla corsa e sul mare.
Del resto non si poteva girare, il battello era pieno di piccoli siciliani da terza classe, affamati e soavi nell’aver freddo, senza cappotto, le mani nelle tasche dei pantaloni, il bavero della giacca rialzato.
Avevo comprato a Villa San Giovanni qualcosa da mangiare, pane e formaggio, e mangiavo sul ponte, pane, aria cruda, formaggio, con gusto e appetito perché riconoscevo antichi sapori delle mie montagne, e persino odori, mandrie di capre, fumo di assenzio, in quel formaggio. I piccoli siciliani, curvi con le spalle nel vento e le mani in tasca, mi guardavano mangiare, erano scuri in faccia, ma soavi, con barba da quattro giorni, operai, braccianti dei giardini di aranci, ferrovieri con i cappelli grigi a filetto rosso della squadra lavori. E io, mangiando, sorridevo loro e loro mi guardavano senza sorridere.
-Non c’è formaggio come il nostro,- io dissi.
Nessuno mi rispose, tutti mi guardavano[…]
«Non c’è formaggio come il nostro.»
Perché ero d’un tratto entusiasta di qualcosa, quel formaggio, sentirmene in bocca, tra il pane e l’aria forte, il sapore bianco eppur aspro, e antico, coi grani di pepe come improvvisi grani di fuoco nel boccone.
«Non c’è formaggio come il nostro» dissi per la terza volta
(Vittorini, Conversazione in Sicilia, in Opere, I Meridiani, Milano 1974, p. 576).
