Lug 24

“Il guardiano dei sogni” di Paolo Maurensig

(di CLAUDIA RUGGIA)

Un giornalista, in visita a Venezia in occasione della Biennale nell’estate del 1981, viene improvvisamente colto da una grave crisi cardiaca. Intorno a lui il buio.
Al risveglio in ospedale, alla sensazione di stupore per esserci ancora e a quella ancora più umana di risentimento nei confronti di una vita che con questo brutto colpo – vissuto alla stregua di un tradimento – gli ha inferto una grave offesa, il protagonista si trova a fare i conti con un vecchio dolore e con una riflessione profonda sul senso della vita e della morte.
Il primo contatto col mondo e con la nuova vita è quello con il singolare vicino di letto, attorno alla figura del quale si snoderà l’intero intreccio. Si tratta di un anziano nobiluomo polacco pur sang, il conte Antoni Stanislaw Augusto Dunin, proprietario di un palazzo sul Canal Grande, un uomo particolare nell’aspetto, somigliante in modo straordinario a Tolstoj.
Sin dalla descrizione delle proprie origini, il vecchio si presenta come un personaggio lontano dalla realtà e semina attorno a sé un’aurea di fascino e di mistero. Egli fa risalire le proprie origini, per parte di madre, addirittura a Jan Potocki, gettando volutamente un velo di mistero sulla fine dell’autore del manoscritto di Saragozza:

La diagnosi ufficiale fu quella di un raptus dovuto a nevrastenia acuta. A mio avviso, invece, Jan era convinto di aver contratto la licantropia durante uno dei suoi numerosi viaggi in Oriente, e così aveva seguito scrupolosamente il rituale per liberare l’anima da quel maleficio (p. 19).

L’incontro tra i due segna, per il giovane uomo, la prima tappa di un viaggio di formazione, ricerca e conoscenza, attraverso il quale elementi del reale si confonderanno con quelli del fantastico, dell’avventura e dell’onirico.
La narrazione viene condotta dall’autore giocando sugli aspetti antitetici delle personalità dei due personaggi: l’io narrante – non a caso, un giornalista – rappresenta, in qualche modo, l’aspetto razionale dell’uomo moderno che vive di spiegazioni quanto più possibile scientifiche che possano collocarsi nel reale, secondo un ordine logico e funzionale.
È un uomo, infatti, che durante il corso della sua vita si impone di elaborare razionalmente il dolore per la morte della moglie. Soltanto a seguito della crisi cardiaca e dell’incontro col conte, i ricordi di questo amore strappato riaffiorano e l’angoscia risale dall’inconscio in tutte le sue sfumature, soltanto nel momento in cui la coscienza si perde e si abbandona totalmente al sonno, al punto che “morire – dormire – sognare” (p. 47) diventano gli ingranaggi di un unico meccanismo tanto pericoloso quanto ingannevole.
A questo atteggiamento controllato e rigido fa da contraltare la figura del vecchio Dunin: dotato di una sensibilità quasi soprannaturale, egli indaga tra le pieghe più recondite dell’animo umano leggendo attraverso i sogni.
Questa facoltà, acquisita in Polonia durante l’adolescenza, attrae irresistibilmente il giornalista che, in un momento estremo di crisi nel corpo e nell’anima, lotta tra una fede giovanile ormai dimenticata e lo scetticismo del presente. Questo conflitto e la manifestazione delle doti straordinarie del conte sconvolgono a tal punto la sua esistenza da rivolgersi direttamente al lettore, in cerca di sostegno:

Convincetemi, vi prego, che quanto state dicendo non è solo frutto di un vaniloquio. Ditemi che avete la certezza che la nostra coscienza non si oscura in quelle tenebre. Parlatemi, vi prego, di mistici, di santi, di cattedrali, di alchimia, di immortalità, parlatemi ancora di questi temi così cari alla mia giovinezza e che, nel travaglio della vita, ho dapprima dimenticato e infine ripudiato del tutto (p. 43).

Il giornalista e il conte Dunin partecipano, dunque, di un ingranaggio psicologico assai interessante dal punto di vista tecnico, che si riflette nella fabula con un intreccio elaborato e dalla trama avvincente.
La struttura del romanzo è particolarmente interessante dal momento che si articola in tre fasi, segnalate graficamente dalla distinzione in altrettanti capitoli.
Il primo descrive la malattia del protagonista e la conoscenza con il conte polacco: si tratta della sezione più realistica del libro in cui, nonostante la presenza di momenti onirici, il motivo fondamentale è rappresentato dalla riflessione sul dolore e la morte.
Il secondo, che è in nuce l’essenza del libro stesso, tratta della ricerca del vecchio Dunin, sparito dopo la degenza in ospedale, e il racconto che egli fa di un’esperienza incredibile della propria vita. Questo capitolo ricorre a una strategia narrativa diversa rispetto al primo: la scrittura si fa fortemente visionaria e gli elementi fantastici rendono questa sezione vicina al gotico sia per la scelta di ambientazioni cupe che suscitano sentimenti di tensione e inquietudine, sia per i temi trattati, come la morte e la dimensione onirica angosciante, che per la presenza di personaggi legati al mistero e al paranormale.
L’alternanza e la sovrapposizione di immagini appartenenti al reale e al mondo onirico sono continuamente presenti nel testo, creando momenti di suspense e di tensione. Un momento significativo, in tal senso, è rappresentato dalla descrizione di Venezia: la città – con i suoi canali, le vie spesso senza uscita o che si riversano improvvisamente in mare – si rivela adatta a realizzare una poetica dello spazio assai eloquente, mostrando in maniera mirabile l’aspetto di città labirinto in cui il personaggio si perde.
Venezia, infatti, immersa nelle tenebre partecipa quasi alla ricerca del giornalista. Egli è in balia dei segni che la città gli offre: un lampione acceso, un forte odore di legno resinato, una strada che s’interrompe d’un tratto, un cane che sembra indicargli la via, il cenno casuale di una donna, l’ingresso finale di un mendicante all’interno di un edificio. Il protagonista viene trascinato a seguire i luoghi in uno strano stato di incoscienza, in una condizione inspiegabile ma, allo stesso tempo, irresistibile:

A volte, si ha da svegli la sensazione di vivere in sogno. Sono momenti in cui la nostra volontà è completamente assopita e noi non possiamo assolutamente reagire a quanto sta accadendo. Mai come in questo momento quest’impressione era stata così viva e sofferta. Per quanto provassi ribrezzo e timore al solo pensiero di varcare quella soglia, ne ero irresistibilmente attratto (p. 86).

La storia si svolge poi, dopo il ritrovamento del conte, su un registro interamente fantastico, dove elementi fiabeschi si uniscono a quelli onirici, descrivendo luoghi e personaggi avvolti da un alone magico.
Dunin racconta al giornalista l’esperienza del “Regno”. Esso è un non-luogo, un sentiero dell’immaginazione, una sorta di percorso inverso che procede dall’esperienza purificatrice di una condizione paradisiaca – il Regno, appunto – ad una condizione terribile, qual è l’esperienza del conflitto mondiale.
Il racconto del viaggio in questa dimensione fantastica è fitto di immagini suggestive, di descrizioni che avvicinano la scrittura di Maurensig a quella della narrativa fiabesca in cui, però, il favoloso viene a tratti interrotto da una serie di black out costituiti da incubi ricorrenti. Essi in qualche modo anticipano l’inquietudine finale di questo viaggio, la cui meta segna la fine di un sogno e l’inizio di un dramma: la crudele realtà della guerra.

Cominciai così a vagare in questa Polonia devastata; erano passati cinque anni e la guerra era finita. Cinque anni di cui non ricordavo nulla se non una sola e unica giornata. Per tutto questo tempo la mia mente era stata altrove, ma il corpo testimoniava di se stesso e della propria permanenza: era segnato da profonde cicatrici di ferite che non ricordavo di aver mai subito (p. 117).

L’autore conduce la parte conclusiva del libro su un duplice binario, soprattutto dal punto di vista tecnico, infatti sono due gli escamotage narrativi utilizzati: il primo è quello del manoscritto del giornalista che racconta la vicenda di questo strano personaggio e la rende nota, il secondo è il tema del doppio. La parte finale della storia, appunto, cerca di rivelare la vera identità del vecchio polacco e lo fa mettendo in scena un secondo personaggio, il vero conte Dunin, fratello del primo, capace di leggere nei sogni.
Come in famosi romanzi della letteratura internazionale, e a differenza della concezione del doppio in ambito psicoanalitico, qui non vi è una proiezione mentale che opera al di fuori di se stessi, ma letteralmente una persona fisica separata, che in questo caso opera per reagire alle sofferenze e alle brutture della seconda guerra mondiale.
Lo sdoppiamento rappresenta il mezzo con cui il falso conte (in realtà Witek) cerca di difendere la sua famiglia, il fratello e la propria casa, e con esso si fa evidente il dualismo morale e culturale tra i due: il vero Dunin è il ragazzo nobile che cresce in una famiglia agiata e in una condizione ovattata, che vive con leggerezza le responsabilità del suo casato prima e della vita militare poi, sempre circondato da belle donne e dai rischi del gioco d’azzardo; Witek è il suo alter ego, la sua ombra, la persona pronta a sacrificare se stesso per proteggere il fratello, al punto di sostituirsi a lui per difenderlo:

Mi svegliai nel mio letto, e vidi che la porta si apriva e che io stesso, nella mia divisa da tenente, stavo entrando nella stanza. Non capii subito che cosa stava succedendo, per un attimo ebbi davvero l’impressione di essermi sdoppiato. Poi, a fatica, ricordai quanto era accaduto durante la notte. (p. 151)

Egli, però, rappresenta anche l’esito dell’angoscia di una guerra devastante: è un uomo che subisce le atrocità di un periodo storico in cui la Polonia è l’occhio di un ciclone pienamente distruttivo. Non a caso, Maurensig ambienta questo, come il successivo romanzo Vukovlad, in una terra dell’est Europa contesa e divisa sotto l’urto dell’invasione nazista alle soglie della Seconda Guerra Mondiale. Ma è anche un paese dalla natura selvaggia che affascina da sempre per le leggende legate a fenomeni misteriosi e spaventosi come la licantropia (tema centrale dello stesso Vukovlad) la quale, ad esempio, dà vita a figure che, con la loro capacità di sdoppiamento – questa volta come proiezione interiore oltre che fisica –, rendono netto il dualismo tra il bene e il male.
Witek concentra, dunque, su di sé il male che lo circonda e sembra volerlo depurare filtrandolo attraverso la propria esperienza interiore. E mentre il suo corpo testimonia di piaghe terribili curate nel tempo, la sua mente non può più ristabilirsi definitivamente: la disgregazione del suo mondo diventa, così, anche la scissione della sua personalità tanto che sulla sua tomba il giornalista, al termine del romanzo, si trova a leggere: “Due corpi, una sola anima” (p. 167).

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