Lug 14

“Boccamurata”, Simonetta Agnello Hornby

( di DONATELLA LA MONACA)

“Ah, se ognuno di noi potesse per un momento staccar da sé quella metafora di se stesso, che inevitabilmente dalle nostre finzioni innumerevoli, coscienti e incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci; si accorgerebbe subito che questo lui è un altro, un altro che non ha nulla o ben poco da vedere con lui; e che il vero lui è quello che grida, dentro, la colpa: l’intimo essere, condannato spesso per tutta intera la vita a restarci ignoto! Vogliamo a ogni costo salvare, tener ritta in piedi quella metafora di noi stessi, nostro orgoglio e nostro amore. E per questa metafora soffriamo il martirio e ci perdiamo, quando sarebbe così dolce abbandonarci vinti, arrenderci al nostro intimo essere, che è un dio terribile, se ci opponiamo ad esso; ma che diventa subito pietoso d’ogni nostra colpa, appena riconosciuta, e prodigo di tenerezze insperate.”

Così annota nel suo quinto quaderno il pirandelliano Serafino Gubbio quasi disegnando la sceneggiatura del profondo che alimenta il movimento narrativo del romanzo di Simonetta Agnello le cui trame inventive si addensano sul mistero di una “colpa” inconfessabile, sepolta sotto lo stigma di una “boccamurata” da cui germinano, in un inestricabile viluppo di “innumerevoli finzioni coscienti e incoscienti”, le parabole vitali di una moderna, opulenta, borghese famiglia siciliana.

Si erge davvero a “metafora di orgoglio e di amore”, sin dalla prima pagina, il fitto sistema di relazioni parentali e affaristiche che, nel pieno rispetto dell’archetipico connubio siciliano di ‘roba’ e ‘sentimento’, il patriarca Tito ha edificato intorno al redditizio simulacro di un imponente pastificio, testimone di ogni transito generazionale . Non a caso la scena iniziale ci introduce al cuore di un emblematico momento conviviale, i sessant’anni del pater familias: figli, nuore, generi e nipoti affollano una tavola sontuosamente imbandita ai cui estremi ,“come nelle sedute del consiglio d’amministrazione del pastificio”, troneggiano Tito e il suo primogenito Santi, erede ed abile gestore delle sorti dell’azienda al cui fianco siede la zia, l’unica ‘madre’ che Tito abbia conosciuto, quasi una figura sacrificale, votata per tutta la vita a sostenere il fratello Gaspare nella delicata educazione del figlio. In realtà sin dalle prime battute aleggia un’aura segreta intorno a questa anziana donna, ancora elegante nella gonfia treccia brizzolata, lucidissima nell’interloquire con il nipote eppure persa, nella solitudine delle sue stanze, in un tormentoso dormiveglia acceso a tratti da barlumi memoriali, da guizzi di passato che riaffiorano lambendo di inquietudine l’involucro ‘menzognero’della coscienza di Tito.

Tutta la prima parte del romanzo si snoda, infatti, sul conflitto che, suo malgrado, si innesta nell’animo del protagonista tra la volontà di tutelare un’identità socialmente e psicologicamente rassicurante e la crescente, insinuante percezione che essa si fondi su un cumulo di verità nascoste. Ad imprimere una sferzata di irrequietezza al castello di carte delle sue certezze contribuisce l’irruzione nel suo già intricato menage familiare del giovane Dante Attanasio, libero, disinibito e soprattutto, a differenza di Tito, determinato a scavare oltre quella coltre di silenzi sotto cui giace il misterioso segreto di nascita che forse li accomuna.

I frammenti memoriali di zia Rachele, le sue lettere riaffiorate dal passato ad opera di Dante, frasi celate, sottintesi censurati squarciano sin dalle prime pagine la narcosi coscienziale di Tito conducendolo, via via che l’intreccio narrativo si svolge, attraverso un accidentato percorso di formazione al disvelamento di quell’amore incestuoso, peccaminoso eppure indomabile da cui è stato generato.

E che qualcosa di torbido, di oscuramente sensuale covi al di là della ragnatela di tradimenti, passioni omosessuali, gelosie, litigi e riconciliazioni di cui è fitto l’ordito della storia, lo svela l’intonazione descrittiva memore di echi letterari, con cui la scrittrice ritrae il suo affresco familiare.

In particolare spicca, la rilettura volutamente desublimata delle atmosfere gattopardiane: la ritualità quasi liturgica dei pasti quotidiani, l’indugio sulla scelta e la lavorazione delle pietanze, la sacralità del cibo come espressione del vincolo parentale, la delineazione del personaggio stesso di Tito prosaica incarnazione del don Fabrizio lampedusiano. La tensione stellare del principe lascia spazio qui all’”orologeria e alle “macchine d’epoca”, l’osservatorio astronomico di palazzo Salina alla ben più misteriosa “stanza di Nuddu” l’altero alano Bendicò al bastardo Zorro, la popolana Mariannina alla rumena Dana e la devota Stelluccia alla paziente Mariola, coralmente interpreti di un’anima siciliana in bilico tra i fasti logori del passato e l’imborghesimento del presente.

Ma è soprattutto nella descrizione della residenza di Torrenuova, nella compromissione affettiva che tradisce, nell’intonazione evocativa che la modula, il segno più concretamente operante del dettato lampedusiano sin dalla memorabilità fonica del capoverso: “Amava immensamente Torrenuova”, “Anzitutto la nostra casa. La amavo con abbandono assoluto” recita uno degli accordi più celebri dei Ricordi di infanzia. E proprio all’evocazione di quella morfologia isolana si ispira la partitura di queste pagine del romanzo di Simonetta Agnello, una natura sospesa tra selvatichezza e rigoglio, accesa dalle stesse scanzioni cromatiche, il giallo delle “distese di frumento sul costone”, il nero della “muraglia di roccia su cui crescono a strapiombo le ginestre e, naturalmente, disteso come un “nastro luccicante” sotto il “sole a picco”, l’azzurro del mare screziato, da una musicale enumerazione a climax in tutte le sue gradazioni “acquamarina, verde chiaro, celeste, verde smeraldo”. (pp.22-23)

Ma il momento in cui il racconto della Agnello raggiunge la pienezza del suo omaggio alla memoria tomasiana è la pensosa passeggiata di Tito attraverso i viali del giardino di Torrenuova, da cui trasuda la stessa atmosfera di disfacimento e sensualità che quasi stordiva don Fabrizio, mentre sostava anch’egli malinconico, nel giardino di villa Salina. Qui, però “siepi di mortella, licheni, magnolie” cedono il passo a “fusti tubolari di cactus dagli aculei aguzzi” che “schiacciando le piante basse e strozzando gli arbusti”, “si avvinghiano in ostile simbiosi alle agavi in un mostruoso groviglio di guerra e pace”. E’ alla coesistenza di vita e morte, di fascino e orrore, che la scrittrice dà corpo con vigoria deformante e felice impatto descrittivo: “C’era vita in quell’inferno vegetale..Schiacciate ma non sterminate, le aloe sbucavano ovunque trovassero crepe e fessure: erano in piena fioritura. I grappoli di piccoli gigli rossi, alti sugli steli sottili, unificavano quell’agglomerato di spine e aculei in una bellezza meravigliosa” (p.25).

Gli scenari naturali si elevano sempre a metafora elettiva degli stati interiori soprattutto nei frangenti del romanzo che preludono ad uno snodo, ad un cambiamento, non è un caso infatti che, di lì a breve con le stesse figurazioni interiori che drammatizzano il quaderno di Serafino Gubbio, anche Tito, a dispetto di tutte le sue difese, dovrà arrendersi ai fantasmi della sua coscienza:

Jack- in –the- Box! Perché gli tornava in mente? Perché si vedeva davanti quello stupido pagliaccio? Perché adesso? Il Jack in the Box. Titino ne aveva uno. Si era rotto. Lui glielo aveva sistemato e adesso bastava premere un bottone che, pam!, veniva fuori quella faccia, quella faccia-risata, quella faccia demente, quell’incubo. Jack in the Box! Non era quello di Titino. Questo era un pagliaccio maligno che balzava fuori a suo piacimento. Questo era nascosto nel buio. Era un allarme. Era il suo accupo. Suo e di nessun altro (p.51).

Mentre però nell’immaginario pirandelliano “il pagliaccetto fracassato”, il “demoniaccio beffardo” rappresenta l’emblema della reclusione nell’alibi della menzogna perpetua, qui invece, questa epifania espressionistica sigla l’inizio del cammino di Tito verso la riconciliazione con i propri spettri. Ed è un itinerario a ritroso tra i sentieri proibiti del passato esemplarmente racchiuso, nella seconda parte del romanzo, nel viaggio rivelatore a fianco di Dante.

Il grumo di irrisolti, per anni volutamente soffocato, esplode portando con sé una “fiumara” di detriti proprio come le emissioni di argilla mista a metano che sboccano dai vischiosi coni “alti, schiacciati, tozzi, esili, panciuti” della collina calcarea delle Macalube, nella Agrigento delle zolfare, tappa cruciale del loro percorso. “Vulcani bastardi e lebbrosi”, “ascessi scoppiati” li definisce lo scrittore francese Guy de Maupassant nei ricordi del suo viaggio in Sicilia e qui piegati, con maestria descrittiva dalla scrittrice, a tradurre in immagini il tumulto metamorfico che si genera nell’animo di Tito sino a scioglierglisi dentro con una liberatoria, “insperata tenerezza”:

Tito capiva che come le Macalube si trasformavano in pascolo, così il bambino tradito dentro di lui doveva farsi uomo. Lontano da casa e solo Tito cresceva.(163-67)

Il sipario delle finzioni cade definitivamente, “il pupazzo a molla non c’era più” ed inaspettatamente quel terribile “segreto non più segreto” gli schiude una lenta ma inattesa riscoperta di se stesso e dei suoi legami familiari, ma soprattutto lo dispone a ben altra affettiva complicità con quella, per anni zia ora madre cui è finalmente concessa almeno la libertà del ricordo. L’ultima parte del romanzo si intona infatti ad una accordatura elettivamente monodica: le sofferenze d’amore patite, la passione scabrosa e controversa per il fratello, rivivono attraverso un flusso memoriale dall’incedere quasi diaristico.

Proprio nella tormentosa rievocazione di quell’amore innaturale e proibito, affidata alla ‘voce’ di Rachele rifluisce, abilmente travestita dalla scrittrice, l’eco accorata di un’altra infelice eroina del passato, Biblide, protagonista, nel nono libro delle Metamorfosi, del poeta latino Ovidio di un altrettanto dilaniante amore per di più non corrisposto, per il fratello Cauno. All’infelice ninfa si intonano infatti i versi posti da Simonetta Agnello all’inizio dell’ultima parte del romanzo e ai suoi patimenti si ispira la fenomenologia amorosa descritta da Rachele: l’affiorare dell’attrazione fatale, la resistenza strenua al sentimento scandaloso, il desiderio di legittimare, almeno sul letto di una morte procurata, gli abbracci e le carezze in vita censurate. Lì dove poi il dramma ovidiano scivola in tragedia, la moderna storia di Rachele slitta invece verso la finzione, verso la recita, amara ma voluta: la passione si consuma e il frutto della colpa, Tito, vivrà in una forma di menzogna espiatoria sino all’inatteso, pur estremo, scioglimento.

In realtà è proprio il leit motiv dell’inspiegabilità delle pulsioni umane a scorrere sotterraneo alle vicende narrate, a legare come un filo rosso, in un abile gioco di varianti l’incipit e l’epilogo del romanzo già attraverso l’ideale dialogo a distanza tra le citazioni letterarie che li fregiano.

“I sogni e gli anni, non hanno ritorno/ non rinnoverò la mia anima../” recitano i versi dell’Oneghin, celebre opera di Puskin, che la scrittrice pone all’esordio del romanzo non a caso scegliendoli dall’episodio in cui proprio all’amore fraterno il protagonista si appella per declinare la passione rivelatagli dalla giovane Tatiana. “I sogni e gli anni, non hanno ritorno/ non rinnoverò la mia anima../da fratello io sento d’amarvi” suonano infatti nella versione originale, eppure di lì a poco quello stesso amore fraterno diverrà in Boccamurata, il nodo controverso della narrazione, sottoposto ad una metamorfosi graduale che si esplicita, in tutto il suo rovesciamento, nella terza ed ultima parte del romanzo non a caso aperta dai versi sulla “passione” di Biblide per “l’apollineo fratello, lo amò non come una sorella un fratello, lo amò come non doveva”. Tra i due estremi dell’amore fraterno: il sentimento casto e protettivo alluso da Puskin e il desiderio divorante ed eversivo cantato da Ovidio, la scrittrice tesse la sua tela tramata di segreti, bugie, e rivelazioni con un gusto, già ampiamente segnalato nei lavori precedenti, per l’affabulazione.

La memoria delle letture che l’hanno attraversata, e la memoria del suo personale legame con la Sicilia si fondono: potremmo dire, parafrasando il passo della lettera a Reynolds del poeta inglese John Keats con cui si apre la seconda parte del romanzo, che come il “ragno” lì “fila dal suo interno la sua aerea cittadella” Simonetta Agnello “fila dal suo interno” un tessuto espressivo in cui colori, suoni, immagini, persino i sapori isolani assumono la vividezza dell’esperienza vissuta.

 

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