Romanzo di formazione e insieme avventura picaresca; lessico “famigliare” grottesco e iperbolico thriller psicologico. Sono queste alcune delle plausibili definizioni che potrebbero attagliarsi al romanzo di Giacomo Cacciatore, L’uomo di spalle (Dario Flaccovio editore). Definizioni che, però, tutte insieme non riescono a dare in pieno la misura del libro, scritto volutamente al confine dei generi, e per questo proteiforme e sfuggente.
Si tratta di un’ibridazione che rasenta la parodia, ma al di sotto del travestimento, per certi versi tragicomico, ci sta un’idea precisa: quella di sciogliere il nodo gordiano dei rapporti familiari. In questo senso, Cacciatore sembra muoversi sul solco già tracciato da Roberto Alajmo col suo Cuore di madre, ma quasi subito se ne allontana, per mettere in atto una contaminazione stilistica, in cui il noir, lo splatter, l’horror si mescolano in una pronuncia volutamente pungente. Al centro della vicenda narrata, c’è Giobbe Dilei, col fiato sul collo di una madre assillante sino all’inverosimile, e tormentato da una visione onirica ricorrente: quella dell’uomo di spalle, come recita il titolo.
Giobbe è uno che, per forza di cose, “ha divorziato con la realtà per fidanzarsi con la sua ossessione”. Per sopravvivere, cerca di stare alla larga da sua madre, che però lo ricatta, permettendogli l’accesso alla sua biblioteca solo a una condizione: ingurgitare le sontuose e maleodoranti pietanze che amorevolmente ammannisce. La villetta di famiglia ha qualcosa di misterioso, indecifrabile: il caos che domina in essa diventa per Giobbe, e per chi l’avvicina, una sorta di labirinto demoniaco. Guai a prendersi troppe libertà: come Stephen King ci ha insegnato, le pareti di casa sanno come nuocere, mettendo il bastone tra le ruote a inquilini tracotanti.
E quando gli spiriti domestici tacciono, ci pensa la madre di Giobbe a togliere di mezzo qualcuno. È il caso della fidanzata del figlio, fatta a pezzi con una mannaia. Ma già prima, la stessa sorte era toccata alla domestica di casa Dilei: accoppata e debitamente occultata. Manco a dirlo, Giobbe, privato della sua compagna, ci rimane male. Cresce il suo rancore nei confronti della madre, la quale nel frattempo viene rinchiusa in manicomio. Elaborato il lutto, Giobbe fa ritorno nella casa degli orrori, tallonato da una ciurma indiavolata di giornalisti. Tra questi, Didi Scalia, giovane cronista de “La voce della Trinacria”, che, armata di registratore e morbosa curiosità, riesce a intrufolarsi nell’abitazione, dove però tira le cuoia, colpita da un dolce di marzapane fatto essiccare sul ripiano alto di un recalcitrante mobile, e da lì piombato sul cranio della povera inviata. Giobbe, ingiustamente incriminato, viene messo in gattabuia, e il suo caso affidato all’avvocato Massimo Scassapagliaro, il cui cognome la dice lunga sulla sua professionalità.
Il penalista vuole a tutti i costi dimostrare l’infermità mentale del suo cliente, e così farlo rinchiudere nello stesso manicomio che ospita la madre. Giobbe, però, grazie ai suoi sogni premonitori, ha già capito tutto: da qui la decisione di rivolgersi a don Ciccio Cimino, una sorta di padrino caricaturale, per far saltare i piani dell’avvocato. Niente da fare: riconosciuta al processo l’infermità mentale di Giobbe, si aprono per lui le porte dell’ospedale psichiatrico. La madre del protagonista del romanzo è al settimo cielo: il figlio torna finalmente sotto la sua potestà, e lei può mettersi di nuovo ai fornelli. Nel frattempo, l’uomo di spalle è tornato più volte a far visita a Giobbe, come a spronarlo, ma la scena che ripetutamente si ripresenta ai suoi occhi adesso è come sfocata, i particolari sempre più indistinti.
Giobbe rischia di perdere definitivamente la sua visione, di rinunciare a quel frammento di felicità e di libertà. Ma il destino vuole che, una volta internato, incontri la psicologa Anna Matera, una specie di Beatrice post-moderna, che studia il suo caso e che è l’unica in grado di far luce sul suo nebuloso passato e sulla sparizione di suo padre. A questo punto, non è lecito andare oltre, per non sottrarre al lettore il piacere di arrivare alla fine della storia. Va detto però che, quasi alla fine, c’è uno degli episodi più efficaci del romanzo, in cui agisce in pieno la forza espressionistica dello sguardo di Cacciatore: quello della cena di Natale.
Una sorta di incubo hitchcockiano, con i ricoverati vestiti alla stessa maniera del padre, e sui piatti i piccioni tanto amati da Giobbe, sadicamente avvelenati dalla madre e messi in forno. Le urla e le risate dei matti, che si sommano a quelle della madre, in un’atmosfera insopportabilmente claustrofobica, alla fine fanno di questa storia visionaria e a tratti surreale una sorta di romanzo nero, in cui i fantasmi da mettere in fuga sono quelli della nostra cattiva coscienza.
