Le prime quindici pagine valgono tutto il romanzo: efficaci e paradigmatiche come una parabola evangelica, puntellate da una scrittura precisa nel disegnare i dettagli e fortemente evocativa, con anacoluti che danno vivacità ed energia. Il resto della storia, una sorta di giallo metafisico, presenta una parafrasi cristologia che non sempre funziona, ma che alla fine si chiude con grande efficacia. (segue dalla prima di cronaca) Stiamo parlando della Grande sete di Antonio Russello, romanzo pubblicato per la prima volta nel 1963 da Rebellato e che recentemente ha rivisto la luce per i tipi di Santi Quaranta, la casa editrice di Treviso che dal 2002 sta ristampando l’intera opera dello scrittore favarese.
Autore metamorfico, Russello, per una sorta di demoniaca coazione, ha scritto parecchio, alternando pagine scintillanti e memorabili, come quelle che danno forma al suo capolavoro, Giangiacomo e Giambattista (1969), riproposto col titolo L’isola innocente, a pagine a volte fiacche e irrisolte, come nel caso del romanzo La storia di Matteo. Con La grande sete ci si trova di fronte a un poliziesco forse un po’ troppo debole, se si guarda all’impalcatura della storia e alla sua corazza; ma se si mette di lato la sottotraccia di genere cui il plot si piega, il libro di Russello diventa tutt’ altra cosa.
Una sorta di romanzo antropologico, che sulla Sicilia dice non poche verità. In questo, l’autore guarda ad almeno due mostri sacri: Vitaliano Brancati e Giuseppe Tomasi di Lampedusa. A volte i debiti sono evidenti, i richiami troppo invasivi: il lettore può divertirsi a estrapolare alcuni stilemi tipici di certa letteratura isolana novecentesca. Se poi si tiene conto del fatto che Russello si ispirò a un fatto di cronaca, ossia alla uccisione del commissario di pubblica sicurezza Cataldo Tandoj, poco prima del suo trasferimento da Agrigento, si potrebbe azzardare addirittura una parentela, questa volta a rovescio, con Leonardo Sciascia, il quale alla stessa storia si ispirò per dare alle stampe nel 1966 A ciascuno il suo.
Certo, gli esiti parlano chiaro: Russello e Sciascia stavano su due fronti narrativi diversi: il primo più contiguo a un’idea metastorica della Sicilia, il secondo più chino sulle ferite aperte di quegli anni. Da un lato, dunque, l’immagine di un’Isola mitica, gitana, favolosa e leggendaria, dall’altro una lettura politica della sua Storia più recente, passata al setaccio di un rovello illuministico e roso, in ogni momento, dal tarlo spagnolesco di un barocco imploso, pronto a esplodere e però sempre censurato.
La grande sete si apre su uno scenario di arsura universale, battuto da un insopportabile vento di scirocco, che «passa il mare, porta sabbia, riempie bocca occhi capelli di terriccio; riduce uomini e animali a stracci, gli nega la forza di volontà, di intelligenza; piuttosto gli brucia il sangue e gli fa venire la febbre e gli stravolge il destino d’uomini in quello di cose: pietre o alberi».
A dominare, sin da subito, è la rappresentazione della sete come piaga universale, che investe animali e piante e soprattutto gli uomini, costretti a sopravvivere con due damigiane d’acqua per una settimana. Acqua con cui impastare il pane e abbeverare le bestie. In questo senso, le quindici pagine iniziali di cui si diceva poc’anzi, si rivelano quanto mai emblematiche: a Calogero Sardella, il killer ingaggiato dalla mafia per far fuori il commissario Righi, dopo appena tre giorni, è rimasto soltanto un secchio pieno d’acqua, peraltro bollente a causa del caldo eccessivo. A un certo punto, l’uomo decide di muoversi verso il secchio, nel tentativo di placare l’ arsura. Il mulo, legato al muro da una catena, vuole anticipare il padrone: i due ingaggiano una gara senza esclusioni di colpi.
Quando l’ uomo, chinatosi, fece per prendere dal secchio, a mani giunte, una sorsata d’acqua, prima ancora che ne avesse riempito le mani, prima ancora che ne avesse portato alle labbra, il mulo, con un furioso strattone, aveva spezzato la catena e con un balzo era venuto addosso all’uomo.
Calogero Sardella scansa la bestia, la quale però riesce ad allungare il muso dentro il secchio, bagnandoselo appena: l’uomo gli dà una pedata sul muso. Il mulo alza nell’aria le zampe anteriori, con le posteriori avanza verso il padrone stringendolo contro un gelso. Siamo di fronte alla lotta dell’uomo contro la bestia assetata: si tratta di una vera e propria epica rovesciata, che dà la misura di un dramma che ancora oggi, rovinosamente, si perpetra, in una terra dove occorre, come scrive l’autore, fare i miracoli al contrario; in una sorta di Cana trasfigurata, irriconoscibile, dove, quasi grottescamente, bisogna mutare il vino in acqua.
Quasi un lungo apologo, questo romanzo. Come del resto l’intera produzione dello scrittore favarese, quasi sempre autore di favole allegoriche, di racconti morali: alla stregua di quello che apre la raccolta Siciliani prepotenti (1963: anch’essa riproposta recentemente dalla casa editrice di Treviso), intitolato Gesù è nato in Sicilia, in cui si respira la stessa atmosfera che attraversa dalla prima all’ ultima pagina il romanzo d’esordio di Russello, La luna si mangia i morti, che fu tenuto a battesimo da Elio Vittorini.
In questo senso, lo scrittore siciliano più vicino a Russello è Serafino Amabile Guastella. Per tornare alla Grande sete, il lettore assiste all’ultima giornata nella città dei Templi del commissario Righi, alla sua opposizione all’illegalità diffusa, alla sua disperata utopia: sradicare la mafia e consegnare i colpevoli alla giustizia. è una sorta di novello Messia, Righi: condannato a morte da carnefici che non vestono la tunica, ma hanno in testa la coppola e il fucile a tracolla. E fino alla fine si registrano forti richiami cristologici, che culminano nell’ultima richiesta avanzata dal commissario: «Ho sete».
La morte del giusto, che si consuma alla presenza della moglie, una donna bellissima e molto sensuale, che sembra uscita da una pagina di Brancati, e al cospetto degli agrigentini, che non gridano il loro dolore dal momento che si tratta di «sangue straniero», la dice lunga sull’idea che Russello s’era fatta della Sicilia: una terra immobile, impermeabile, che lampedusianamente non potrà mai sperimentare la dolcezza della redenzione.
maggio 2008
