Mag 14

Umberto Domina – La moglie che ha sbagliato cugino

(di SALVATORE FERLITA)

La pratica della scrittura è stata, per Umberto Domina, dai primi passi sino alla fine, un «lungo inverno di isolamento letterario», come lui stesso ha scritto nella pagina che fa da prologo all’edizione Bur di quello che probabilmente fu il suo romanzo migliore, La moglie che ha sbagliato cugino (pubblicato per la prima volta dalla casa editrice Bietti nel 1966).

Un isolamento fatto di riservatezza, di ritrosia, forse anche di un certo ritegno. Cosa che, evidentemente, non gli giovò: fu facile perdere memoria dei suoi libri (con cui tra l’altro si aggiudicò due volte la Palma d’Oro del Festival internazionale dell’umorismo di Bordighera e il PremioUmorismo “Un libro per l’estate”), e relegare l’ autore nella riserva indiana degli umoristi felici e minori.

Ma ora che l’editore Sellerio, sull’onda della riscoperta lanciata da “Repubblica” con il convegno di Enna, ha ridato alle stampe nella sua più prestigiosa collana la storia rutilante e paradossale dei due Liborio Cappa (La moglie che ha sbagliato cugino, 198 pagine, 10 euro, con una nota di Tano Gullo), uniti entrambi da stretto vincolo di parentela e da “omonimia bilaterale”, per Umberto Domina si aprono di nuovo i giochi: la partita è dura e i concorrenti (Luciano Bianciardi, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, ma anche Ennio Flaiano) sono armati sino ai denti.

Ma viva la diversità, viene da dire: meno male che Domina assomigli così poco, mettiamo, a Bianciardi, autore della Vita agra, titolo che per una sorta di meccanismo automatico si è già affacciato dalla memoria di quanti hanno letto il romanzo dello scrittore ennese. Certo, ci sono alcune convergenze: come la provenienza dei due, ossia la provincia che pigra e sonnolenta volutamente si ritrae dal centro. Ma Bianciardi vedeva la vita di provincia come remota e velleitaria. Ai suoi occhi da essa si irradiavano i bagliori grigi e fastidiosi di una sorta di pericoloso alibi metafisico. Per Domina la provincia, o meglio il ricordo di essa, ha invece rappresentato una sorta di antidoto ancora efficace contro il veleno della metropoli. Una provincia lunatica però, eccentrica, visionaria, utopica, metafisica potremmo dire.

E se lo scrittore di Grosseto sognava di insufflare grisù nel torracchione, nel Palazzo inteso in senso pasoliniano, l’autore di Garibaldi ore 21, dal canto suo, non ci ha pensato nemmeno: è lui stesso a dichiararlo, a metà romanzo:

E poiché ho carattere ma non sono cocciuto, vivo al Nord ma sono nato al Sud, odio il progresso ma lo alimento, lascio che Enula si sfoghi. Vuol dire che interverrò al limite. Distruggerò Orio, la Cicci, il prigo, i cocktails, i party, i meetings e mia suocera. Ma non con il tritolo. Lo farò scientificamente. Al momento opportuno!.

Ora, questo non vuol dire che la rappresentazione che Domina dà della realtà del boom, il suo “giudizio” sulla Milano spersonalizzante e tronfia siano stati morbidi. Il fatto è che solo in apparenza l’ironia dello scrittore si colloca al medesimo livello delle cose ironizzate, concludendosi in esse, non andando mai troppo oltre. L’atteggiamento goliardico di Liborio (il cugino geniale, allergico a qualsiasi funzione manageriale, che passa le sue idee e i suoi slogan pubblicitari ad Orio, buono a nulla, ma desideroso di una posizione di tutto rispetto), il suo essere nello stesso tempo acre e buontempone, l’affidarsi della narrazione alla satira di quadri e ambienti, almeno in prima battuta, sono solo il biglietto d’ingresso di cui occorre munirsi per essere ammessi nel regno beffardo e proteiforme che si staglia tra l’autore e la palude metropolitana, alla stregua di un mondo parallelo e invisibile: quello dell’assurdo, del controsenso, del paradosso, dell’ irreale. è così che trasuda da queste pagine il rigetto per la plastica, per i fazzolettini di carta, per i palazzi a diciotto piani. E per la città satellite, coi suoi eliocasamenti e i sottoanulari. E per gli ingorghi, sempre più allarmanti.

Attento, dunque, lettore: Domina non sfugge l’apocalisse, ma solo la altera visionariamente. Non fa il gioco del capitale e dell’ azienda, non si arrende di fronte all’ incedere incalzante della “nuova cuccagna”, per dirla con Italo Calvino. In questo senso, ha ragione Tano Gullo, quando scrive che La moglie che ha sbagliato cugino è un congegno a orologeria: inutile tentare di disinnescarlo. Quando meno uno se l’ aspetta, la detonazione arriva. Anche se col silenziatore.

maggio 2008

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