Domenico Cacopardo è nato a Letojanni nel 1936, ma ha vissuto gran parte della sua vita in varie città italiane (Viterbo, Bologna, Napoli, Roma, Parma, Venezia). Magistrato del Consiglio di Stato, ha scritto, oltre a numerose monografie di carattere giuridico e alle raccolte di versi Polifemo e altro (Art Center editore, 1978), Il guerriero egizio (San Marco editore, 1982), L’implicito sublime (ivi, 1987), i romanzi: Il caso Chillè, (Marsilio, 1999), L’endiadi del dottorAgrò (Marsilio, 2001), Cadenze d’inganno (Marsilio, 2002), Giacarandà (ivi, 2002), La mano del Pomarancio (Mondadori, 2003), Virginia (Baldini Castoldi Dalai, 2005) e L’accademia di vicolo Baciadonne (ivi, 2006). Collabora con i quotidiani “La gazzetta di Parma” e “L’Unità” e con i settimanali “Stilos” e “Tuttolibri” (“La Stampa”).
Il caso Chillè
In un’ipotetica geografia del giallo siciliano, la parte orientale dell’isola, quella “babba”, ingenua, per dirla con Gesualdo Bufalino, sino a pochi anni fa non compariva neppure. Viene da pensare che sul versante occidentale si uccide con maggiore facilità: basti passare velocemente in rassegna gli omicidi passionali e di mafia che infestano la cittadina immaginaria di Vigàta (Porto Empedocle per intenderci), magistralmente narrati da Andrea Camilleri, oppure i “sani, buoni, misteriosi delitti” che incrinano l’apparente tranquillità della modernissima Palermo di Santo Piazzese. Ci ha pensato il magistrato del Consiglio di Stato Domenico Cacopardo (1936), originario di Letojanni, a colmare questa lacuna, dando forma al suo romanzo d’esordio (un esordio tardivo, come quello di tanti siciliani, da Tomasi di Lampedusa a Antonio Pizzuto e a Gesualdo Bufalino, tanto per fare qualche nome), dal titolo secco, Il caso Chillè (Marsilio 1999).
Neppure a Messina quindi, “un posto di tutto riposo”, si può stare tranquilli: nei pressi del podere del cavaliere Chillè, alla Mosca, si consuma il primo delitto: a restarci secco è il massaro Talio, raggiunto da un colpo di fucile. Il secondo morto ammazzato non tarda ad arrivare: questa volta è il turno di Basilio, figliastro di don Liborio Lombardo, freddato a Gallodoro, un piccolo paese di montagna.
La patata bollente delle indagini passa tra le mani del tenente Ruggeri e del maresciallo Capellaro: i due malcapitati saranno costretti a misurarsi con storie di corna, infezioni veneree, corruzione politica e omertà. Il tutto in una Messina del primo Novecento, superbamente rievocata, tanto da poter considerare il libro quasi un vivace affresco storico. Cacopardo fa uso di una lingua controllatissima, dalle movenze secche; una lingua quasi anatomica, verrebbe da dire, che però è il frutto di un esercizio di distillazione attentissima. I filtri di cui lo scrittore messinese si serve appartengono alla migliore tradizione letteraria, e il risultato finale è davvero notevole: una polifonia di voci che si accavallano ma non si confondono.
Cacopardo ha spremuto la lingua letteraria dei siciliani, così ricca di umori, di succhi dolci e amari, condendo la sua pagina con poche, controllatissime gocce. La sua penna, verrebbe da dire, è un depuratore che mette di lato impurità, scorie, residui ingombranti, per lasciare agire sulla pagina l’acido corrosivo di un’ironia di derobertiana memoria. I protagonisti di questo romanzo parlano, è vero, come ci si poteva esprimere nella Sicilia di fine Ottocento, ma soprattutto alludono, ammiccando con grazia, facendo intendere più di quanto le parole non riescano a spiegare. Il romanzo, tutto giocato su un ritmo narrativo sostenuto, contempera sino alla fine i due registri tipici della letteratura siciliana: la commedia e la tragedia, in una continua, felice, agrodolce ibridazione.
L’endiadi del dottor Agrò
Col successivo romanzo, L’endiadi del dottor Agrò (Marsilio, 2000), Cacopardo, relativamente all’ambientazione, si allontana dalla Sicilia, scegliendo Roma come teatro delle vicende narrate: una città nei cui ministeri c’è sempre del marcio. A dirimere la matassa di loschi interessi, collusioni, pericolose connivenze, sarà il sostituto procuratore della Repubblica Italo Agrò, di origini siciliane, tenace, sensuale, spiritoso, e col pallino delle citazioni colte. Un antieroe quasi cinquantenne, dal fisico asciutto e dal viso angoloso, con due occhi furbi e mobilissimi, e un debole per la buona cucina, che “macina carte e fascicoli al ritmo di un motore diesel” e che scandisce il suo lavoro investigativo citando i versi dell’amato Salvatore Quasimodo.
L’indagine che gli viene affidata e che l’autore racconta ne L’endiadi rappresenta una sorta di discesa agli inferi della vita economica, politica, finanziaria italiana. Il primo malcapitato, questa volta, è un consigliere di Stato, tal Vincenzo Rovini, che ha l’hobby di raccontare nei romanzetti che lui stesso scrive storie di ordinaria corruzione realmente accadute. Ma, inevitabilmente, Rovini finisce col dare fastidio a qualcuno e così, in un agguato, perderà la vita. La sua fidanzata non farà certo una fine migliore e così sarà il dottor Agrò a far luce sui misteriosi omicidi, grazie al manoscritto lasciato casualmente da Rovini, intitolato La strana storia di Catènio La Strada, grazie al quale potrà seguire una pista di corruzione politica, malversazioni e appalti truccati. Quanto mai veritiero, nel romanzo, il ritratto del ceto impiegatizio offerto da Cacopardo, quel sottobosco tipicamente italiano di burocrati che infesta il mondo dei ministeri.
Una volta letto questo giallo, ci si fa l’idea che il divertimento dell’autore, abilissimo nel saper intrecciare i fili narrativi in un ordito impeccabile, va di pari passo con l’inquietudine e la pena del lettore, il quale si trova di fronte a uno spaccato di illegalità e di miserie umane che quasi coincide con quanto le cronache giudiziarie ci hanno propinato negli ultimi anni.
La macchina narrativa messa in moto da Cacopardo è davvero grandiosa: leggere questo romanzo è come assistere al gioco delle scatole cinesi. Fa quasi impressione la perfezione del meccanismo, gli automatismi, le sequenze misurate, il montaggio che alla fine riesce a imbrigliare gli empiti digressivi. Lo scrittore messinese, però, alla complessità, al fasto dell’intreccio, contrappone una cifra linguistica scarnificata, tanto che Giovanni Pacchiano ha definito Cacopardo un ruvido “anti-Camilleri”, “agli antipodi rispetto alla vena consolatoria e allo spreco di colore, dialettismi compresi che limitano parte dell’opera dello stesso Camilleri”. E difatti il taglio linguistico da lui scelto si caratterizza per sobrietà, asciuttezza, ruvida levigatezza. Le mescidate trovate linguistiche di Camilleri sono mille miglia distanti rispetto al traliccio linguistico di Cacopardo. Anzi, a questo proposito, più che fare riferimento ad autori conterranei, per farci un’idea dello stile di Cacopardo è il caso di guardare ai capolavori del giallo americano, con Chandler e Hammett in testa: il ritmo sostenuto, la scrittura scarnificata ed essenziale, l’assenza del colore locale fanno dello scrittore siciliano un giallista anomalo che ha respirato tanta aria d’oltralpe.
A Camilleri ci riconduce invece l’irrefrenabile ingordigia in cucina dei personaggi di Cacopardo. Le vicende narrate, infatti, sono accompagnate da una quasi surreale ossessione alimentare, grazie alla quale ghiottonerie, golosità, prelibatezze incastonano molte pagine.
Cadenze d’inganno
Nel terzo giallo dello scrittore di Letojanni, Cadenze d’inganno, l’azione si svolge in parte a Roma, dove prendono l’avvio le indagini in seguito alla riapertura del caso relativo all’assassinio della commercialista siciliana Olga Li Ciancio; in parte a Budapest, teatro dell’omicidio del capo delegazione di una rappresentanza militare italiana. A sbrogliare il bandolo di questa nuova intricata matassa troviamo ancora il sostituto procuratore della Repubblica Italo Agrò, costretto a fare i conti non soltanto con due nuove e delicatissime inchieste, solo apparentemente estranee l’una all’altra, ma anche con le ragioni del suo cuore; a complicare le cose, il coinvolgimento delle alte sfere del potere politico e militare. A fare da filo conduttore, la “cadenza d’inganno” del titolo, ossia una particolare successione armonica tra gruppi di note.
Questo nuovo giallo si impone subito per il suo contenuto decisamente scottante, per via dei complotti e delle macchinazioni che coinvolgono anche il ministero della difesa; un giallo tutto azione e fatti, popolato da personaggi ritratti con efficacia e sostenuto da un ritmo narrativo incalzante. E, come nei romanzi precedenti, un linguaggio secco, stringato, ripulito fino all’osso e privato di qualsiasi coloritura dialettale, tanto da fare pensare alla lingua ruvida di Dashiell Hammett. E come il creatore di Sam Spade, uscito da una vera agenzia di investigazioni e quindi consapevole della sua materia narrativa, Cacopardo nei suoi libri parla di cose che ben conosce: il mondo dei ministeri, l’universo dei burocrati italiani, una sorta di santuario inesplorato di cui lo scrittore messinese finalmente apre le porte, spogliandolo dell’aura di impunità assoluta di cui gode da tempo immemorabile (basti pensare che nemmeno tangentopoli è riuscito a scalfirlo).
È questa l’idea di fondo che sostanzia la vicenda raccontata nel libro, a tal punto da trasformare l’intera impalcatura narrativa in materiale compromettente.
Giacarandà
Domenico Cacopardo non è solo un abile giallista: nel 2002 infatti, con Giacarandà (Marsilio), ha dato forma a un’opera a metà strada tra il romanzo storico e il feuilleton, ambientata in una Sicilia del Settecento mossa da passioni sfrenate e contrasti religiosi senza quartiere. A colpire è subito la meticolosa ricostruzione della realtà isolana del tempo, nella quale spadroneggiavano nobili senza scrupoli, religiosi assetati di sangue e potere, e un marchesino, Giulio Limiri, che “puzza come un vecchio caprone”, e che vuole sposare a tutti i costi la giovanissima Matilde. Costei, figlia del commerciante e agricoltore Carmelo Mondìo, è invece più incline alla pulizia corporale e più soggetta al fascino di Nicola, fratello del futuro marito, il quale all’inizio del romanzo è intento a costruire una grande e nuova casa in riva al mare, vicino a Taormina.
La calma piatta che all’inizio sembra dominare la narrazione viene presto sconvolta da Agatina, vedova del cugino di don Giulio, e amante di quest’ultimo e da lui ingravidata, la quale, accecata dalla gelosia, disattendendo l’ordine del marchese di sbarazzarsi del nascituro, rivela la sua colpa e quella di don Giulio a padre Isidoro, l’accusatore celeste, dando così la stura a una lotta spietata, all’ultimo sangue, che vede l’uno contro l’altro armati la famiglie dei Lìmiri, appoggiata dai Gesuiti, e i Domenicani. E tra intrighi, assassini misteriosi, atmosfere losche che in un certo senso richiamano quelle dei Beati Paoli, si snoda la vicenda narrata da Cacopardo, in cui il ritmo del giallo si sposa con la costruzione del romanzo popolare e di quello eziologico. E quasi si avverte l’odore tipico delle carte vecchie e ingiallite, si respira la polvere degli archivi, leggendo questo romanzo; ma, soprattutto, a catturare l’attenzione è l’idea forte del potere, meglio del discrimine che separa quello giusto da quello ingiusto.
In poche parole, lo schema del romanzo storico a Cacopardo è servito per esplorare il passato dell’isola al fine di raccontarne meglio l’attualità: sono tanti, infatti, in filigrana i riferimenti, i rimandi a situazioni di oggi, che trovano origine proprio nelle ferite ancora aperte del passato. Ma Giacarandà è anche, a suo modo, un romanzo di mafia: una mafia arcaica s’intende, rurale, legata al potere dei campieri, assetati di sangue e di bestiame, che con abilità praticano l’incaprettamento, il rito del bacio in bocca, l’abigeato. Il tutto, alla presenza di una Chiesa omertosa, che trae giovamento da questo sistema di illegalità e di prepotentismo. Chi sono oggi, viene da chiedersi, gli eredi dei domenicani e dei gesuiti messi in campo dall’autore?
Si parlava di eziologia: Cacopardo, con questo romanzo, è andato alla ricerca delle origini del tacito accordo tra mafia rurale e chiesa, un accordo che è stato mantenuto pressoché inalterato sino ai nostri giorni.
Alla fine, le duecento pagine del romanzo, sembrano troppo poche per l’esubero di fatti narrati, per la pletora delle vicende che si intrecciano. È come se Cacopardo avesse voluto comprimere la sua materia narrativa, facendo saltare alcuni ingranaggi necessari. Tutto questo però non intacca il ritmo indiavolato della narrazione, che trascina con sé personaggi e accadimenti in un vortice tumultuoso. Anche qui, come nei gialli del resto, Cacopardo lavora in espansione sulla trama, mettendo al servizio di essa una prosa a volte burocratica; e più sottrae alla lingua, ripulendola da sbavature e orpelli, più concede alle complicazioni dell’intrigo.
La mano del Pomarancio
Se è vero che il giallo, come genere letterario, è consolatorio e rassicurante, a volte però può capitare di imbattersi in certi polizieschi che alla fine lasciano il lettore inquieto, per nulla pacificato. Come nel caso di La mano del Pomarancio (Mondadori 2003), che si inserisce nel solco già tracciato dai gialli precedenti, ambientati prevalentemente nell’ambito ministeriale. Anche qui domina l’abilità di costruire storie ad incastro, ma, soprattutto, a mettere in moto l’azione è la denuncia di quell’intrico di interessi loschi e di corruzioni che negli ultimi anni ha negativamente segnato la vita politica del nostro paese e che, in questo romanzo, si materializza in maniera inquietante, lasciando intendere riferimenti a reali vicende giudiziarie.
Il fatto è che Cacopardo, vero e proprio scrittore politico e impegnato, ci narra le cose che egli conosce meglio, sbattendo sotto gli occhi dei suoi lettori verità fastidiose, epiloghi immaginati ma in realtà non troppo lontani dai sospetti di molti. Ne La mano del Pomarancio Italo Agrò cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di un cadavere, quello di Donato Tuccaro, fratello del cognato del commissario Lanfranco Scuto, collega del sostituto procuratore. Una sparizione che porterà alla scoperta di un caso di malasanità, nel quale sono coinvolti personaggi di spicco e che si collega a un’inchiesta parallela che attraversa il romanzo, nella quale troviamo impegnato l’investigatore privato Puccio Ballarò, anch’egli siciliano, titolare della “Ballarò investigations”, un uomo svelto e intelligente, troppo basso però per i suoi ottanta chili, che cerca in ogni modo di recuperare una tela del pittore Niccolò Circignani, detto il Pomarancio, raffigurante l’ascensione di Cristo.
Le due indagini, che si svolgono simmetricamente, ad un certo punto si incontrano, e il loro comune denominatore condurrà Agrò alla scoperta di un verminaio, nel quale esponenti dell’alta sanità e politici senza scrupoli sono immersi sino al collo. Cacopardo, anche in questa sua nuova fatica, si rivela abile nel saper utilizzare il meccanismo del giallo, dosando impeccabilmente i tempi, facendo scorrere la vicenda su due diversi binari e creando figure vivaci e scoppiettanti. Il tutto, calato nell’Italia di oggi, con le sue sanguinanti ferite, sulle quali Cacopardo non perde occasione per spargere sale. Tanto che i suoi polizieschi sembrano sempre più spostarsi sulla scacchiera della letteratura, per prendere il posto vacante del romanzo sociologico, e meglio ancora del romanzo politico.
Virginia
È un escamotage manzoniano a mettere in moto la narrazione in Virginia (Baldini Castaldi Dalai, 2005), a metà strada tra il romanzo storico e il giallo. Si parte infatti dal ritrovamento di un racconto, in fondo a un archivio di ricordi personali del prefetto a riposo Giovanni Alogna, da questi affidato a un mercante di santine e collezionista. Il quale un giorno decide di pubblicarlo, al fine di gettare luce sul mistero del suicidio dello stesso Alogna.
Si tratta di una storia d’amore e morte, punteggiata dalle citazioni delle poesie d’amore di Evgenji Evtusenko e declinata da diversi punti di vista, che si snoda tra Gallodoro e Letojanni agli inizi del Novecento, e che vede come protagonisti Filippo Taluto, detto Fifì e Virginia Leveida. Donna dal fascino irresistibile e misterioso, quasi sinistro, Virginia inizia il giovane Filippo ai misteri del sesso e dell’amore. Il loro è un rapporto travolgente, sostanziato da una folle passione, da un’attrazione carnale irresistibile. Che però si accompagna a momenti di tenerezza, di naturale trasporto, di totale abbandono. Ma Virginia è una creatura proteiforme, ossimorica, e questa sua natura sfaccettata e alla fine antitetica si materializza nelle pagine di Cacopardo attraverso la tecnica del retablo. Sono tre infatti le parti di questo romanzo eziologico, quasi una sorta di predella narrativa: il primo pannello si dispiega attraverso il racconto di Filippo, il quale ripercorre le tappe della propria crescita e della formazione. Sullo sfondo della casa dei Taluto, “fatta di antri, misteri e nascondigli”, esplorata dall’autore in tutti i suoi ambienti, di cui vengono restituiti quasi proustianamente profumi, atmosfere. Aspetto, questo, che avvicina il romanzo di Cacopardo al capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Dallo spazio chiuso della magione si passa a quello aperto della Sicilia del tempo, animato dall’attività dei pescatori, dalle vicende messe in moto dal conflitto mondiale.
A un certo punto però cambia il punto di vista della narrazione, e con esso anche la lingua dell’autore, che assume una diversa inarcatura. Il secondo pannello infatti è occupato dalla voce della stessa Virginia, che subito informa il lettore delle proprie capacità propiziatorie: “Tutti lo seppero al paese e iniziarono a domandarmi il futuro e, del passato, i misteri più segreti”. Virginia, insomma, è una “majara”. Cambia la specola del racconto, dunque, e cambia di conseguenza la versione dei fatti: nuove sfumature si aggiungono, le presunte verità si moltiplicano. Fino a quando, in forza della rivelazione finale, che occupa la terza parte del libro, l’ennesimo colpo di scena porta scompiglio nelle carte di Cacopardo, ribaltando ulteriormente le vicende narrate: “Basta, la verità ora alla mia età la voglio rivelare, non c’è più motivo di tacere e morire con lo scrupolo nel cuore”. È ancora Virginia a parlare, però sotto la possessione di un demone. Una Virginia ormai incalzata dagli anni, che ha messo di lato il riservo e la doppiezza, per spalancare una volta per tutte le porte della verità.
Da qui il crudele sfaccettarsi pirandelliano delle situazioni, dei sentimenti, che inevitabilmente si sgretolano. “La vita così è: un temporale che gira come il vento vuole che giri”. Un temporale che travolge ogni cosa con impietosa violenza.
L’accademia di vicolo Baciadonne
Come epigrafe al nuovo romanzo di Domenico Cacopardo, L’accademia di vicolo Baciadonne (Baldini Castaldi Dalai, 2006), che vede come protagonista il sostituto procuratore Italo Agrò, potrebbe andar bene una frase ormai proverbiale di Leonardo Sciascia: “Non sono pessimista io. È la realtà che è pessima”.
Una realtà repellente, quella dell’Italia contemporanea, vero e proprio verminaio di illegalità e arrivismo, che viene fuori da un giallo politico, verrebbe da dire sociologico. Nessun finale consolatorio, nel romanzo di Cacopardo: la ricomposizione dell’ordine infatti viene infranta, in nome della verità: una verità scomoda, s’intende, inaccettabile. Che da Viterbo, teatro della vicenda narrata, prende l’abbrivio, per allargarsi alla penisola tutta e diventare un’inquietante metafisica del potere. Ad affondare le mani nelle viscere ammorbate dello Stivale, un Agrò diverso, più maturo, più disincantato. Per la polizia e i carabinieri di Roma e del Lazio rimane “una specie di eroe, capace di andare a fondo nelle inchieste affidate”: in realtà, il sostituto procuratore è sempre più consapevole dei tempi grevi in cui si trova a vivere, dell’illecito ormai elevato a regola assoluta.
Questa volta, Agrò si muove nelle brume di una Viterbo sonnacchiosa, sede di una vera e propria cupola politico-istituzionale radicatissima. Dove si perpetua, come si legge ad apertura di romanzo, “l’impero, cauto e ovattato, di una nutrita famiglia di politici seguaci di Andreotti”, e dove “il vento di Tangentopoli è giunto smorzato”. A incrinare la calma piatta della città di provincia, l’assassinio dell’ambasciatore in pensione Claudio Raminelli del Vischio e della sua giovane moglie rumena, la cui dinamica all’inizio sembra eccessivamente chiara, lapalissiana. E che però, avviate le indagini, diventa sempre più opaca. Gli elementi nelle mani degli inquirenti sono, all’inizio, alcune foto pornografiche in bianco e nero, che ritraggono la moglie dell’ambasciatore in compagnia di uno sconosciuto, e una minuscola testina proveniente dall’America del Sud, un trofeo utilizzato come talismano e come oggetto di evocazioni rituali nelle quali si riesce a comunicare con l’aldilà.
Confidando nel suo metodo analitico-induttivo, Agrò evita di partire con una o più ipotesi precostituite, prendendo le mosse, alla stregua di Maigret, dalle vittime, dalla ricostruzione della loro vita, per avviare un’indagine “a tappeto per cerchi concentrici”. Cerchi che si allargano sino a lambire situazioni inimmaginabili, dai riti satanici praticati intorno al lago di Bolsena, considerato ai tempi dei romani un punto di passaggio dal mondo dei vivi a quello dei defunti, ai più misteriosi rapporti tra l’Italia e i paesi dell’Est, con tanto di spie e servizi segreti deviati. Vero e proprio romanzo dell’antiutopia, L’accademia di vicolo Baciadonne è il libro che conferma le doti di Cacopardo: una radicata attitudine conoscitiva, e la volontà di servirsi dello schema del giallo per raccontare il passato recente, per dare forma a uno spaccato sociale e politico quanto mai veritiero.
22 maggio 2007
