Mag 20

Evelina Santangelo

di Salvatore Ferlita

Evelina Santangelo è nata a Palermo nel 1965 e vive fra Torino e Palermo. Ha pubblicato alcuni racconti su “Perap”, “Panta” e “Mezzocielo”, la raccolta L’occhio cieco del mondo (Einuaidi, 2000), che ha vinto il Premio Gandovere-Franciacorta e Premio Berto) e i romanzi La lucertola color smeraldo (ivi, 2003) e Il giorno degli orsi volanti (ivi, 2005). Un suo racconto è compreso nell’antologia Disertori e un altro nella raccolta Ragazze che dovresti conoscere (ivi, 2004). Lavora come redattrice ed editor presso la casa editrice Einaudi e insegna Tecniche della Narrazione alla Scuola Holden.

L’occhio cieco del mondo

L’occhio cieco del mondo (Einaudi 2000), libro di esordio della giovane scrittrice palermitana, raccoglie undici racconti, o meglio, come ammette la stessa autrice nella nota finale, undici storie “strampalate”, alcune delle quali avevano già visto la luce nel volumetto pubblicato da Perap e intitolato Storielietedifonderia (1994). Storie che ci parlano di personaggi straziati dal loro destino, costretti a trascinarsi, come grosse palle di ferro al piede, i loro incubi, le sofferenze, le visioni mostruose; e la ineluttabilità di questi destini pesa sulle cose, inondando il mondo di dolore e lacerazione.

Si tratta di storie a volte quasi insignificanti, apparentemente insensate, ma che quando meno uno se l’aspetta, dischiudono squarci di verità abbaglianti che illuminano anche gli aspetti più minuti, i pulviscoli della nostra esistenza. Il lettore viene introdotto nel mondo di questi personaggi con somma cautela; all’inizio quasi si sente smarrito, e solo pian piano prende coscienza di quanto sta accadendo o è già accaduto, grazie ad una parola, una visione, una descrizione che, messe assieme, danno forma ad un palcoscenico inquietante, dove si muovono protagonisti smarriti o farneticanti. Come quel vecchio vedovo del sesto racconto della raccolta, L’uomo che arrivò sulla banchina un giorno di cinque anni prima e se ne andò improvvisamente cinque anni dopo, che attende, in compagnia di un buon vino, il ritorno della donna amata; donna che si trasfigura in una sorta di immensa sirena vomitata dai flutti del mare. O come Melina la “nana”, che a tutti i costi vuole ritornare in manicomio, dove aveva lasciato le sue angosce e i suoi sogni; o ancora, come quelle due donne in gita al mare, alla ricerca di un passato che ha l’odore fortissimo delle alghe e che, una volta ritrovato, lascia macchie indelebili, come il catrame le lascia sui vestiti.

Colpisce, in queste pagine, una costante attenzione alle cose, vigile e serrata, maniacale, ma anche una componente quasi surreale della narrazione, che non diventa mai evasione, oppure incanto, ma intrinseco, connaturato, quasi consustanziale aspetto della realtà. C’è da dire che all’universo di angoscia tratteggiato dalla Santangelo, in cui domina la sofferenza del vivere, si sovrappone una visione che all’inizio appare luminosa, ardente, quasi infuocata (“… il sole si spalma quieto nel cielo del mezzogiorno”, “… un fiotto improvviso di luce”, e ancora “…. la faccia paonazza del sole”, “… sentiva il sole scoppiarle sotto la pelle”, e poi “… l’afa spessa del primo pomeriggio s’era già presa tutta la strada”, “il sole sbrana pezzi di cielo”), ma che alla fine diventa algida, glaciale: l’eccesso di luce cancella i chiaroscuri appiattendo la visione.

Nessuna atmosfera tenebrosa, dunque: tutto accade alla luce accecante del sole: ma si tratta di un sole malato, che sembra rimandarci a Camus e al suo Straniero. E una volta lette tutte quante queste storie, è possibile rispondere alla domanda che viene posta a Nanni, in uno dei racconti più riusciti, intitolato La storia di Amelia: “Dov’è l’inferno?” L’inferno, viene da dire, è dentro la testa di questi personaggi; e proprio la parola “testa”, assieme a “cervello”, ritorna quasi ossessivamente nelle pagine della raccolta. Testa “che galleggia nell’aria calda della stanza”, testa che ospita “un nido di vespe” o un “ronzare di api”; per non dire di quel personaggio che “chiudeva gli occhi, tappava le orecchie, la bocca, le orecchie di nuovo. Non c’era verso di strapparsi dal cervello quelle cose”. Cervello e testa, dunque, quali pirandelliane “stanze della tortura”.

Ma l’atmosfera in cui sono immersi i racconti della Santangelo riesce ad allontanare ogni frastuono, qualsiasi rumore, ad annullare i rovelli e le angustie che tormentano i protagonisti delle storie narrate, e quasi a smorzare il dolore del mondo. Un mondo illuminato dall’occhio dell’autrice, per niente cieco, che “si dilata”, per usare le sue stesse parole, e risucchia “tutto ciò che in qualsiasi altro occhio, avvezzo alle grandi distanze, avrebbe appena sfiorato o relegato ai margini del campo visivo”. Un occhio che, alla stregua di un bisturi, riesce ad aprire la testa dei vari personaggi, a illuminare le zone più recondite, a cogliere i meccanismi che si inceppano, a registrarne anche i movimenti più impercettibili.

Il tutto, attraverso una scrittura avvolgente e torrida, che dà calore alla pagina, infittendola di icastiche descrizioni pronte a tracimare dalla loro fisicità, per immergersi in uno spazio simbolico. Peccato che in alcuni passi la trappola del manierismo inceppa il ritmo della narrazione, appesantendo inutilmente certi monologhi, e qua e là punte di barocchismo narcisisticamente ostentato rischiano di far perdere di vista quelli che sono gli assunti generali dei racconti della Santangelo. Ma resta, comunque, la limpidezza dello sguardo di questa giovane autrice, che dà voce alla solitudine e all’emarginazione, sostituendo alla cecità del mondo il suo occhio crudele. Un occhio che, nel momento in cui mette a fuoco ed esamina, allontana “il frastuono del mondo”, attenua la sofferenza. E tutto, alla fine, sembra nuovo, come se Dio si fosse appena svegliato e avesse “fatto nuove tutte le cose”, come si legge in uno dei racconti. E se è vero, come ripete il professore protagonista della storia La casa sulla grande ansa del fiume, che “ognuno teme quello che meno conosce”, la Santangelo con questa raccolta ci vuol dire che il dolore “riconosciuto, compreso, custodito”, per citare Elias Canetti, non può farci paura: l’attitudine epistemologica della giovane narratrice palermitana, come ha rilevato opportunamente Massimo Onofri, “che induce il lettore a sorprendersi per la qualità dello sguardo del narratore e ad interrogarsi sulle sue ragioni”, fa sì che anche la sofferenza più nascosta si manifesti con prepotenza. Una sofferenza con cui convivere, e che dona senso alle cose.

Come del resto accade nell’ultimo racconto della raccolta, L’ospite della gamba, il più riuscito e significativo; quello che funge da vera dichiarazione di poetica, facendoci comprendere come funziona lo sguardo della Santangelo:

Aveva sentito un prurito rosicchiarle il muscolo del polpaccio all’attaccatura della caviglia, s’era abbassata per strapparlo via con tutte le unghie ed era rimasta così, chinata sulla sua gamba, a guardare rasoterra il mondo.

Questo sguardo rasente, che rinuncia alla verticalità, stravolge la prospettiva, facendo a meno della profondità e dello sfondo. È uno sguardo che si abbarbica sulle cose, che passa in rassegna maniacalmente tutto quello in cui si imbatte, deformando e alterando in continuazione gli oggetti che affollano queste pagine. Solo così, perdendo di vista le normali proporzioni, trasgredendo le regole della rappresentazione visiva, la Santangelo può introdurre il lettore nel suo universo strampalato; anzi, l’autrice ci costringe a camminare strisciando: ogni cosa ai nostri occhi appare diversa, mai vista, inaspettata.

La lucertola color smeraldo

Con la sua seconda fatica, La lucertola color smeraldo (Einaudi 2003), Evelina Santangelo dimostra di avere anche il fiato lungo, di saper costruire una storia complessa, collegando insieme due diversi piani narrativi. È un romanzo maturo, nel quale agisce la sapienza di una scrittura che sembra richiamare quella di un altro autore siciliano, Carmelo Samonà, per la sua precisione, icasticità e, nello stesso tempo, per un’inaspettata opacità delle parole che inquieta oltremodo il lettore. Un romanzo di formazione, viene quasi da dire, pensando per certi versi a Elio Vittorini: ma si tratta di una formazione al dolore, di un’educazione alla sofferenza e alla violenza. La tragicità della materia narrata, ossia lo stupro di una ragazzina, Irene, e il trauma di Ivan, il quale assiste alla violenza carnale rimanendo però nascosto, è come attutita, ovattata sino alla fine.

Ivan vorrebbe reagire, ma non ha la forza di ribellarsi e allontanare gli aggressori. Anzi, assistendo a quella scena, gli capita di eccitarsi. Da lì i sensi di colpa, che lo tormenteranno per lungo tempo, dei quali riuscirà a liberarsi in un abile sdoppiamento, dando vita a Vian, il suo alter ego. Ma il vero protagonista della scena dello stupro e forse di tutto il romanzo è lo sguardo di Ivan, il suo occhio che perde l’innocenza, che si macchia, facendosi carico delle colpe del mondo intero. Lo stesso occhio che ha assistito allo sventramento di una lucertola, animale innocuo in balia della cieca violenza di orde di ragazzini-cacciatori. Ma c’è il nonno di Ivan che sa come ridare la vita, che è in grado di ricucire il ventre squarciato della lucertola, che sa calarsi nei panni dei più deboli, che sa morire per rinascere a nuova vita. Ha una sua bacchetta magica, il nonno: l’armonica a bocca, strumento che ingabbia il dolore del mondo, e che lo annulla, lo allontana, quasi lo esorcizza.

La lucertola color smeraldo è un romanzo prismatico: il piano della storia narrata viene continuamente scomposto, smembrato. Gli sguardi dei protagonisti si alternano, si incontrano, i loro occhi sono come tante finestre aperte sul mondo: e solo alla fine il tutto si ricompone. Ma a prevalere, a quel punto, sarà ancora una volta lo sguardo della Santangelo, la sua capacità di scegliere un angolo di visuale inedito da cui osservare lo spettacolo insensato dell’universo. Una cosa però va detta: a tratti, come del resto capitava leggendo alcuni racconti de L’occhio cieco del mondo, si ha l’impressione che l’autrice sia troppo brava: quasi un cecchino della penna, in grado di non sbagliare mai un colpo, di centrare anche gli obiettivi più difficili, di dar conto delle situazioni più problematiche. Ma assieme a questa precisione si scorge una certa freddezza narrativa: poche volte si assiste al ribollire della materia narrativa, all’incandescenza di certi passaggi. Per il resto, c’è una temperatura glaciale, che rende algide le pagine della Santangelo, che le priva di calore ed energia. È come se l’autrice si comportasse alla stregua del nonno di Ivan: nel tentativo di ricucire il ventre lacerato dei suoi personaggi, di infondere in essi la vita, la Santangelo però spesso registra lo scacco e il fallimento di questa operazione. I protagonisti delle vicende rimangono quasi inerti, come marionette prive di fili. Se però l’autrice abbandona il suo eccessivo autocontrollo, la sua studiata freddezza, allora la pagina registra guizzi e slanci inattesi.

Il giorno degli orsi volanti

C’è, ne Il giorno degli orsi volanti (Einaudi, 212 pagine, 12,80 euro), il nuovo romanzo di Evelina Santangelo, qualcosa che rimanda alla gioia saltimbanca, circense di certe tele di Chagall, tanto care al poeta e saggista palermitano Angelo Maria Ripellino. Insieme a una malinconica gitaneria, di ascendenza lorchiana, in cui sogno e realtà si compenetrano: la dimensione onirica, fanciullesca, sostanziata da ricordi ovattati da un parte; dall’altra, la cruda realtà, fatta di violenza, rinunce, memorie che si sfocano. Al centro della storia narrata dall’autrice c’è uno straniero dell’Est europeo, approdato in una Sicilia riconoscibile e mai nominata, in una Palermo facilmente individuabile eppure significativamente metastorica. Si chiama Jon Scripcaru, e nasconde un segreto. Lo custodisce nel ventre di un garage che ha abusivamente occupato. Si tratta di un mistero che alimenta la fantasia dei bambini, ma soprattutto la curiosità morbosa degli adulti, per un fatto semplicissimo eppure bizzarro che ogni sera si ripete.

Jon, infatti, è solito attraversare i vicoli di un mercato che fa subito venire in mente quello di Ballarò, trascinandosi dietro una piattaforma di legno che riempie di avanzi di frutta marcia, di torsi di cavolo, gambi di carciofi, rimasugli sfilacciati di carne, strisce di pelle. Si incunea tra i banchi, a fatica avanza evitando ostacoli di ogni sorta. Novello Sisifo, il protagonista di questo romanzo è costretto a rimorchiare il suo carico, trascinandosi appresso gli interrogativi, gli improperi, tutta la diffidenza e spesso l’intolleranza di chi ha paura del diverso. Mentre sembrano sospingerlo gli sguardi benevoli di chi, come la vecchia del mercato, sdentata e raggrinzita, è quasi incuriosito da quella stramberia. Alle calcagna del Biondo (così Jon viene chiamato dai compagni di lavoro nero al cantiere), ci stanno i ragazzini del quartiere, che lo tallonano sino all’ingresso del garage: “Ve lo dico io – esclama uno di questi – quello ha bestie da sfamare”. Saranno topi, maiali, “topi ammaialati”? Jon caccia via tutti, entra nel suo fetido alloggio e, abbassando la saracinesca, si lascia dietro le paure e la diffidenza della gente. Ma la cosa non può andare avanti troppo a lungo: un giorno il Rosso, macellaio in odor di mafia, fa irruzione nel garage, per un sopralluogo chiarificatore. E a prendere corpo davanti ai suoi occhi è qualcosa di inimmaginabile, di straordinario: in un angolo, sotto una coperta troppo stretta, giace niente meno che un gigantesco orso. Una montagna di pelo bruno, incatenata a muro. Jon cerca di giustificare quella strana presenza: l’orso si chiama Iuri, proprio come l’atleta italiano. Lo sta addestrando, al fine di renderlo capace di fare cose straordinarie, miracolose. Come l’andare in bici, davanti agli occhi increduli della gente. Il Rosso, spiazzato di fronte a una tale enormità, quasi si addolcisce. Jon può tenere l’orso, fa sapere, ma il miracolo deve manifestarsi prima possibile. La notizia pian piano fa il giro dei vicoli del mercato, sballottata da un bancone all’altro. La curiosità cresce, l’attesa si fa spasmodica. Jon fa costruire una bicicletta adeguata alla stazza dell’animale, in mezzo a enormi difficoltà. Nel frattempo, gli allenamenti si intensificano, come pure il caldo che fiacca l’animale.

Sin da subito, la Santangelo ci fa capire che l’immagine inconsueta dell’orso (di cui Dino Buzzati si era servito nel 1946 per narrare una favola ambientata proprio in Sicilia) travalica la sua bruta concretezza, per assurgere alla dimensione del simbolo: il sogno che può alimentare tutta un’esistenza, il vincolo di un ricordo insopprimibile, di un passato doloroso eppure ineludibile. Ma soprattutto l’irruzione del meraviglioso, in letteratura, come itinerario verso l’accettazione del diverso.

20 maggio 2007

About The Author