Michele Perriera è nato a Palermo nel 1937. Ha preso parte al Gruppo 63, pubblicando il racconto lungo Principessa Montalbo nel volume collettaneo La scuola di Palermo, per poi prendere le distanze dalle posizioni del Gruppo quasi subito. Ha fondato e diretto il teatro e la scuola di teatro Teatés di Palermo. Scrittore e regista ha pubblicato il romanzo Il romboide (Lerici 1969) e con la casa editrice Sellerio la memoria-intervista Marcello Cimino, vita e morte di un comunista soave (1991), Anticamera (1994), A presto (1990), La spola infinita (Premio Mondello 1995), Delirium cordis (1995), Con quelle idee da canguro. Trentasei anni di note ai margini (1997), Atti del bradipo (1998), Romanzo d’amore (2002), Finirà questa malia (2004), La casa (2007). Nel 2006 gli è stato conferito il Premio della Critica Teatrale.
Romanzo d’amore
È un lungo, appassionato racconto sul rapporto viscerale con l’universo teatrale questo nuovo libro di Perriera, che possiede le movenze tipiche di un romanzo d’avventura, narrato attraverso una scrittura piana e avvincente, che scivola sugli avvenimenti (privati e pubblici) e sulle persone, senza incontrare grossi ostacoli. Il lettore infatti, inopinatamente, viene a trovarsi in quella condizione additata a suo tempo da Celine: quasi fosse un passeggero a bordo di un piroscafo, che “si abboffa, beve, mangia, gioca a carte, si occupa delle passeggere”, senza curarsi della plancia dove si governa la nave né della sala-macchine. Dove invece ci si sporca facilmente, e dove i macchinari fanno un “rumore infernale”, puzzando maledettamente. Di tutto ciò Perriera, nella sua narrazione, non dà assolutamente a vedere, confermandosi bravo nocchiero, tanto che le pagine di questo nuovo libro si digeriscono senza troppe difficoltà.
Da un punto di vista strutturale, Romanzo d’amore è composto da tre tomi, recanti ognuno un sottotitolo quanto mai indicativo: L’apparizione è il primo, seguono La passione e La conoscenza. Ma tutta quanta la materia narrativa risulta legata insieme da un’identica e prepotente forza affabulatoria. Anche se tra un tomo e l’altro vi è qualcosa di diverso: probabilmente il tono del racconto, sul quale mette in guardia lo stesso sottotitolo. Infatti la parte iniziale affonda le sue radici nell’infanzia di Perriera, quando cominciano a manifestarsi chiaramente i primi segni di quello stigma che avrebbe segnato costantemente la vita dell’autore: la passione appunto per l’universo teatrale.
Quando mi sedevo sulla tazza del bagno, per fare il mio bisogno, prendevo il bastone, che in casa si usava per passare lo straccio, ne immergevo un’estremità nella vasca e cominciavo a vogare.
E così facendo “l’utile”, il bambino-Perriera non tralasciava il “dilettevole”, immaginandosi nel pieno di un viaggio fantastico, alla fine del quale approdava nella terra straniera dell’immaginario. È un trasporto quasi epico, quello che si impossessa del protagonista di questa vicenda, per certi versi ariostesca; soprattutto quella narrata nella prima parte. Una “speciale ebbrezza”, una sorta di incantamento che rapisce i sensi e che permette, quasi magicamente, che il corpo di Perriera possa prendere il cuore di un altro, che la sua mente sprofondi in quella di uno sconosciuto.
L’andamento epico del racconto va avanti, incalza il lettore, mettendogli innanzi le esperienze decisive, come quando Perriera viene ingaggiato da Toti Lo Buglio per fare teatro di prosa, e recitare nella parte di un prete: “Guarda quello come cammina, come si muove, è come se stesse a teatro”, dice esterrefatto il giovane regista alla fidanzata, quando vede passargli accanto Perriera. È il momento delle prime prove, dell’atmosfera che si respira lavorando gomito a gomito con altri giovanissimi attori, del difficile debutto. Intanto gli avvenimenti incalzano: comincia la collaborazione al quotidiano “L’Ora”, i primi servizi importanti. E pian piano fanno la loro comparsa gli interlocutori di Perriera, i suoi amici, Edoardo, Giovanni, Pino, Gabriello, e tanti altri, con cui si cimenta in discussioni rompicapo, con al centro, manco a dirlo, il mondo del teatro, il significato vero dell’esperienza drammaturgica. Ed è in queste chiacchierate notturne, quando a funzionare è il cervello “troppo rovente” di Perriera, che prendono corpo alcune, sorprendenti definizioni dell’arte teatrale: questa “mostruosa bellezza della verità straziata e straziante, nell’atto di esibirsi: inattendibile e fatale”, questa forza capace di prendere “sempre la Bastiglia” e “mettere nella stessa conca l’innocenza e la colpa, il rivelato e il nascosto, la mitezza e l’orrore, la fuga e la prigione”, lo “specchio che va in fondo all’anima e guarda i segreti più drammatici di tutti noi”, e si potrebbe a lungo continuare.
Ma è anche il tempo delle prime messe in scena di testi dello stesso autore, dei primi successi, delle turnè in Italia, dei pareri favorevoli dei recensori e dei critici, ma anche delle feroci stroncature. Quanti sarebbero disposti a pagare il biglietto per vedere il teatro di Perriera? “Chi comprerebbe un tarlo?”, si legge nella lettera di un amico inviata al drammaturgo. “Bisogna essere un po’ matti per assumere il tarlo come dono d’amore”: ma intanto c’è chi lo fa. Anche se non tardano a manifestarsi le prime difficoltà: i finanziamenti che non decollano, gli attriti con una parte della sinistra. Ma ad un certo punto avviene l’inaspettato: l’incontro fulminante con il sindaco Orlando, grazie al quale vengono saldati i debiti che intanto la compagnia teatrale aveva nel tempo contratto, e l’attività e l’impegno di Perriera ricevono una sorta di pubblica vidimazione. Una vidimazione che arrivava troppo tardi, come di solito accade in queste occasioni. E si passa così dalla “passione” del secondo tomo, nel senso insieme di abnegazione e di sofferenza, alla “conoscenza” del terzo, in cui vengono narrati gli ultimi anni di attività indefessa, di messe in scena importanti, di fortunate riduzioni, di progetti che malauguratamente affondano.
Alla fine della lunga navigazione nell’oceano di parole di Perriera, si ha la netta impressione di avere letto non un solo libro, ma tanti insieme: una esaltante autobiografia, un affresco storico veritiero e amaro, un saggio improprio sull’arte teatrale, un triste apologo sulla natura sulfurea e infingarda del Potere, ma soprattutto la lunghissima lettera d’amore di un fidanzato d’eccezione.
La casa
Può una casa, a un tratto, sparire? Svanire nel nulla, senza lasciare alcuna traccia? È quello che accade ad apertura del nuovo racconto di Michele Perriera, La casa (Sellerio). Il protagonista della storia, Francesco, capocommesso d’animo gentile e amato dai clienti, da poco ha coronato il sogno della sua vita: quello di avere finalmente una dimora tutta sua, “una piccola reggia”, immersa in un giardino di betulle. Viene alla mente, a questo proposito, la “casa ideale” di cui parla Stevenson in una sua breve prosa, circondata da praticelli, fiori (margherite soprattutto) e arbusti. È di colore giallo la casa di Francesco, e sorge in via dell’Orso: l’interno è da ristrutturare, e l’arrivo dei muratori è previsto da un momento all’altro. Succede però che un bel giorno, la tanto agognata dimora scompare, come il castello di Atlante nell’Orlando furioso. Non crede ai suoi occhi, il capocommesso: la sua “piccola reggia”, il suo “futuro nido” non c’è più. S’è volatilizzata. Forse hanno cambiato i nomi delle strade, dice tra sé Francesco; è probabile che non sia quello il quartiere giusto. Fa il giro dell’isolato, sempre più allarmato: la sua casa gialla si è improvvisamente dissolta.
Un senso di angoscia e impotenza lo assale: ai passanti che circondano incuriositi la piazzetta, il capocommesso chiede se per caso si ricordano della sua dimora, del giardino circostante. Niente da fare: nessuno sembra serbare memoria di quell’abitazione. È come se la casa gialla non fosse mai stata lì dove invece lui giura di averla lasciata, il giorno prima. Francesco, al culmine della disperazione, è raggiunto da Irene, la sua donna: con lei trascorre la notte a cercare, ma invano. All’alba, stremati, se ne tornano nel loro appartamento in affitto. L’indomani, il capocommesso si avvia verso il luogo della sparizione, nella speranza di aver vissuto un brutto sogno. La casa gialla, però, non riappare.
Inizia così una ricerca spasmodica: Francesco interpella il farmacista, che lavora lì, a due passi. Ma questi non sa nulla. La polizia, cui il protagonista si rivolge per un aiuto, all’inizio è dubbiosa, in seguito poco collaborativa. Il sindaco della città è troppo “vanesio” per poter fare qualcosa. Il direttore della banca, dalla quale il capocomemsso ha ottenuto un prestito, non vuol sentirne: per lui fanno fede soltanto le carte firmate. Per non parlare dei concittadini di Francesco, che si rivelano insensibili, quasi disumani. Eppure dal catasto arriva la conferma del fatto che la casa c’era, eccome. Ora, questa prima parte del racconto (la più omogenea), di certo visionaria e surreale, è quella che paradossalmente risulta in maggior misura ancorata alla realtà. Mentre la seconda parte, dove l’autore fornisce la spiegazione plausibile dell’accaduto, e tutti i conti sembrano tornare, è invece quella più onirica, allucinata. A farsi carico della verità, a un certo punto della storia, sono gli ultimi, i diseredati: quelli che non appartengono al tessuto sociale, sprovvisti di permesso di soggiorno, col fiato sul collo di una giustizia ingiusta.
Pian piano si fa strada il sospetto che dietro a questa incredibile eppur verissima storia (a un certo momento viene il sospetto che la casa in questione sia una menzogna architettonica prodotta dall’abusivismo edilizio), ci sia lo zampino della mafia. Una mafia quasi irriconoscibile, caritatevole sino all’inverosimile, che dispensa buone azioni con la mano destra, mentre con la sinistra azzera violentemente la dignità dei pochi uomini rimasti onesti. L’autore ambienta la sua storia in una topografia fantastica eppure riconoscibile: non ci vuol molto a sospettare che lo sfondo di questa vicenda sia la città di Palermo: inferno in terra, lager dell’anima, palude definitiva. Palcoscenico ideale per questo inquietante incubo kafkiano, fortemente contiguo a uno dei racconti più significativi dello scrittore praghese: La tana. È dunque una sorta di ricapitolazione dei temi cari a Perriera, La casa: ricapitolazione e, insieme, ricomposizione. A venirne fuori è un apologo amaro, una parabola sulla verità e la menzogna, sul potere (qui l’autore guarda a Orwell), sull’incubo della burocrazia (e qui invece incrocia Kafka), sulla solitudine dell’uomo di oggi (viene alla mente Dissipatio H.G. di Guido Morselli), sulla perfidia del mondo.
Michele Perriera, in ultima analisi, è uno dei pochi che dalle macerie della neoavanguardia è riuscito negli anni a emergere, come un sopravvissuto al disastro atomico. Per raccontarci l’incubo dell’apocalisse: cosa che aveva iniziato a fare con A presto (1990), e poi con Delirium cordis (1995) e Finirà questa malia? (2004). Ora, dunque, con La casa si compie il progetto narrativo di Perriera, articolato in una tetralogia claustrofobica e visionaria, onirica e surreale: una tetralogia dell’utopia e dell’antiutopia. Che allontana lo scrittore palermitano dall’imperiosa tradizione letteraria isolana, per avvicinarlo invece a romanzieri come Vonnegut, Orwell, Huxley.
17 maggio 2007
