Mag 17

Fulvio Abbate

Fulvio Abbate è nato a Palermo nel 1956 e vive a Roma dal 1983. È commentatore de “l’Unità” dove, fra l’altro, cura tutti i mercoledì una rubrica dal titolo “Sagome”, e, sulle pagine romane dello stesso quotidiano, la rubrica domenicale “Dizionario”. Ha pubblicato con Theoria i romanzi Zero maggio a Palermo (1990) e Oggi è un secolo (1992), il saggio Patria, lo scrittore e il suo Paese (1992) e il reportage Capo d’Orlando. Un sogno fatto in Sicilia (1993). Con Bompiani hanno visto la luce i romanzi Dopo l’estate (1995) e La peste bis (1997). È del 2001 il reportage Il rosa e il nero (Editrice Zona). Con Baldini & Castaldi, il romanzo Teledurruti (2002) e la riedizione di Zero maggio a Palermo (2003). Nel 2004, per i tipi di Baldini Castoldi Dalai, è uscita l’edizione tascabile di Zero maggio a Palermo e il nuovo romanzo Il ministro anarchico.

 

Teledurruti

Ha scritto nel 1981 Italo Calvino che la letteratura italiana non ha avuto un suo romanzo picaresco, eccezion fatta per il capolavoro di Collodi, Pinocchio, e aggiungiamo noi per i romanzi di Pasolini (ma ce ne sarebbero anche altri). Va però detto che di acqua sotto i ponti ne è passata da allora, e probabilmente, trascorsi più di cento anni dalla pubblicazione delle avventure del burattino dal naso lungo, quella lacuna additata dall’autore di Palomar si è andata lentamente colmando. L’ultimo romanzo di Fulvio Abbate, Teledurruti (Baldini&Castaldi 2002) si inserisce a nostro avviso proprio in questo solco, anche se in verità le opere precedenti dello scrittore palermitano avevano già fatto sospettare qualcosa. Nel senso che, come ha ben indicato Massimo Onofri, un’inconfondibile cifra eroicomica, alla stregua di un fiume carsico, attraversava sotterraneamente libri come Zero maggio a Palermo, Oggi è un secolo, nei quali dominava una sorta di epica rovesciata, quasi trasfigurata, con al centro personaggi per lo più meschini e abietti. E la Palermo che faceva da sfondo alle vicende narrate era una città oscura, quasi impenetrabile, roccaforte di misteri ed enigmi.

La Palermo descritta nel reportage sui generis Il rosa e il nero: teatro delle vicende che portarono alla sparizione di Mauro De Mauro, alla morte di Salvatore Giuliano; città le cui viscere ancora nascondono le catacombe dei cappuccini, con il loro enorme carico simbolico.

Ma in questo suo nuovo libro, Abbate è come se avesse premuto con maggiore determinazione sul pedale di questo registro, inventando la figura di un picaro post-moderno, Aldo Bologna, il protagonista della storia, presentato subito dall’autore come un tipo a cui piace divagare, fissato da sempre con i dettagli inutili. Un anarchico, con la passione per il modellismo, ex figurante in un grande show televisivo in cui impersonava il ruolo di “criceto referenziato”.
Il quale, un certo punto, stufo della propria morte civile, decide di dar vita, in una Roma riconoscibilissima, a una emittente televisiva, battezzata col nome di Teledurruti, in onore di Buenaventura Durruti, l’eroe anarchico della guerra civile spagnola.

L’emittente, creata dal protagonista per essere una sorta di fortezza, quasi un baluardo della propria felicità, si trasforma in un crogiolo di storie strampalate di personaggi improbabili, una specie di teatro carnevalesco, da dove un mondo ormai alla deriva, farneticante e stravolto, invia i suoi grotteschi e disperati messaggi; un bizzarro e immondo caleidoscopio, attraverso il quale osservare una società in disfacimento.

Un unico programma viene ininterrottamente mandato in onda: il varietà delle fotografie da tessera, costruito sulle foto di passaporti, carte di identità, patenti, di lasciapassare vari, che gli abitanti della città eterna inviano copiosamente. Il presentatore della trasmissione è un tenente pilota americano della seconda guerra mondiale, rimasto sospeso per mezzo secolo in cielo e planato sulla terra, tra i comuni mortali, proprio il giorno dell’inaugurazione della nuova emittente.

Viene da pensare, andando avanti nella lettura, di trovarsi di fronte a una specie di grande, immaginifica, visionaria parodia, dove la televisione diventa l’unico luogo che un santo del nostro presente sceglierebbe come improbabile pulpito per lanciare i suoi strali omiletici.

E un santo tutto particolare è Aldo Bologna il quale, dal paradiso in cui va a finire dopo la sua grottesca esperienza come fondatore di un’emittente televisiva, un paradiso in bianco e nero che sembra “ricalcato direttamente dai trasferibili dei geometra”, ritorna sulla terra, ma nemmeno viene riconosciuto.

C’è, in questo nuovo libro di Abbate, una costante attenzione verso le realtà ultime, nei confronti dei cosiddetti “novissimi”; quasi un’ossessione, che da tempo accompagna lo scrittore palermitano. Basti pensare che già in Zero maggio a Palermo faceva la sua comparsa il paradiso dei pezzi di ricambio.

Ma nel romanzo, accanto ad Aldo Bologna, si trova anche, quale stravagante e incredibile attrazione per la nuova emittente, una gatta con le stimmate, che viene donata al protagonista da una coppia di pensionati antifascisti. Ne viene fuori, tutta giocata su diversi livelli stilistici e di rappresentazione, un’amara metafora dei nostri tempi, che vomitano un’improbabile santità in mezzo alla disperazione e all’insensatezza, una sacralità mescolata inesorabilmente alla sozzura e all’indecenza. Ma la bravura di Fulvio Abbate consiste nel saper dipingere questo suo universo bizzarro con tratto veloce e deciso, con una soave levità, conferendo spesso alle sue pagine un tono da favola, a metà strada tra la leggenda e l’apologo.

Una favola che però questa volta non è ambientata a Palermo, come le precedenti storie raccontate da Abbate, ma tra Roma, New York e il paradiso, e che alla fine sembra quasi non concludere, non sciogliersi, non spiegare nulla: “Nella vita ci sono soltanto inizi”, dice a un certo punto Aldo Bologna.

Ed è vero, se si tiene presente che la trama non approda a nessuna conclusione, ma svela la presenza evanescente di una speranza che sembra non compiersi, di una promessa che rimane irrisolta: e tutto ciò diventa, in ultima analisi, il punto di forza di questo romanzo magmatico e proteiforme, che si avvale di una lingua elegante, davvero bella da leggere. Un romanzo nel quale, quel compiaciuto spaesamento che larvaticamente si manifestava nelle precedenti opere di Abbate, come in Zero maggio a Palermo, trova pienamente la sua ragion d’essere: uno spaesamento che si nutre, in ogni pagine, di ironia.

Eppure, quello che più colpisce in questo libro, è l’impalcatura narrativa interamente basata sulle divagazioni, sui minimi dettagli. Perché in verità, la passione di Aldo Bologna per le diversioni e gli sconfinamenti, non è altro che la fissazione, la mania dello stesso Abbate, catalogatore dell’inutile, beffardo geografo dell’inesistente. “Beato il collezionista”, scrive ad un certo punto Abbate; “il collezionista che corre oltre Dio, Patria, Famiglia, oltre il nazismo, il comunismo […]. Beato lui, dopotutto, che un pomeriggio qualsiasi, mentre attende un bus in ritardo, decide di tornare precipitosamente indietro per abbandonarsi alla gioia che soltanto certe cose finite nei cassetti, in fondo ai bauli, nelle cantine, o nelle soffitte o sottoterra o in posti del genere, sanno donare al vivente”. Ecco quella che si potrebbe definire una dichiarazione di poetica: Abbate, parlando del collezionista, non ha fatto altro che definire se stesso, il suo modo di procedere nella scrittura.

“Tornare precipitosamente indietro per abbandonarsi alla gioia che soltanto certe cose finite nei cassetti … sanno donare”: ecco in cosa consiste la felicità narrativa di Abbate, il suo immergersi nella pletora dei dettagli, nella chincaglieria dei ricordi. A questo proposito, Teledurruti fa pensare al romanzo barocco, alla Lanterna di Diogene per intenderci; il suo rovistare nella cantina della memoria, nel fondo di cassetti dimenticati però nasconde il rischio di far sentire un certo, insopportabile tanfo di muffa, un lezzo insopportabile di stantio. Un rischio che Abbate sa tuttavia a tratti eludere, accumulando con una grazia particolare, con un senso dell’affastellamento che non ignora mai una certa leggiadria di scrittura.

 

Zero maggio a Palermo

Ristampato a distanza di tredici anni, Zero maggio a Palermo non ha di certo perso il suo smalto. “E’ stato, probabilmente, nell’autunno del 1988 che ho iniziato a buttare giù i primi appunti per questa storia. Con Zero maggio a Palermo desideravo custodire e mettere in salvo una memoria germinale: gli anni Settanta, così come li avevo intuiti, scelti, rincorsi e amati in prima persona. Una scoperta del mondo, e forse persino dell’universo”, si legge nella nota con cui Abbate ha corredato la ristampa del romanzo. “Il cosmo nella sua interezza, il mio personale incontro con la ribellione, le sue icone, i suoi personaggi”, continua l’autore. E in queste righe è condensato tutto il significato del romanzo di Abbate, ambientato in anni di forti ideali e di pericolose utopie.

Romanzo in cui però la cifra eroicomica di cui si parlava all’inizio trova una specie di correttivo in una rivisitazione del modello del romanzo di formazione. Aveva ragione Michele Perriera a tirare in ballo a suo tempo, a proposito di questo libro, il romanzo di Elio Vittorini Il garofano rosso.

A venirne fuori, in un esito davvero notevole, è una sorta di felice ibrido, in cui l’istanza civile si sposa brillantemente con quella picaresca. Il tutto, immerso in un’atmosfera umbratile, fantasmatica, che però non fa perdere mai di vista i problemi veri, i rovelli di un’intera generazione, ma che soprattutto restituisce magicamente l’immagine di una città, Palermo, osservata dallo sguardo straniante di Ale e Dario, i due adolescenti protagonisti. Una Palermo con le sue strade distinguibili, con le sue chiese, i palazzi del centro, e soprattutto coi suoi segreti, come il mitico tesoro dei Beati Paoli sulle cui tracce si sono messi Ale e Dario; segreti che custodisce nelle latebre al fondo delle quali scende Fulvio Abbate, per poi risalire, in un’illuminante anabasi narrativa. Scrive ancora l’autore nella sua nota:

Ne è nato un libro a due facce, dove Palermo e il sogno di un’altra vita (che qui, per brevità, chiameremo “comunismo”) sono obbligati ad abbracciarsi nello stesso condominio. Zero maggio è, dunque, un testo volutamente (o incidentalmente?) “bifronte”, una storia che decisamente si sdoppia. Custodisce, cioè, sia l’intento sentimentale-topografico del cosiddetto “romanzo di formazione”, sia il tentativo di creare un genere narrativo ulteriore e improbabile: l’affabulazione civile. La possibilità di mettere in comunicazione, fra gli altri, Albert Camus e Pier Paolo Pasolini con Raymond Queneau e Màrio de Andrade. Magari attraverso la mediazione di Brecht.

Un intento davvero difficile, quello di far convivere autori così diversi. I quali, nel romanzo di Abbate, a volte sembrano stare insieme allegramente, a volte pare che si diano gomitate. E da questo continuo ribollire viene fuori un impianto narrativo e una scrittura contaminati, sottoposti a un’incessante metamorfosi. Il tutto, raccontato col solito passo narrativo dinoccolato, digressivo di Abbate, il quale dà vita a personaggi spesso indimenticabili, e soprattutto restituisce al lettore un’atmosfera quasi incantata, di rarefazione e magia, che fa di questo libro un racconto struggente, una favola civile, un inno alla gioia e all’euforia.

17 maggio 2007

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