Domenico Conoscenti è nato nel 1958 a Palermo, dove fa l’insegnate. Nel 1991 ha pubblicato Qui nessuno di niente. Un anno di scuola tra i carcerati, con una nota di M. Gozzini (edizioni Marietti). Nel 1997 hanno visto la luce il romanzo La stanza dei lumini rossi (edizioni e/o, tradotto in Germania nel ‘99) e il testo teatrale Meglio comandare che fottere, compreso nell’antologia Luna nuova. Scrittori dal Sud, a cura di G. Fofi (edizioni Argo). Sono del 2000 la raccolta di versi Per raggiungerti in strada (Edizioni della Battaglia) e i racconti Visione, una distanza ci divide, inserito in Sicilia fantastica. Racconti sul meraviglioso dal novecento a oggi (L’ancora) e La passeggiata, in Strada Colonna. Storie e immagini della Marina di Palermo (edizione Mondello).
La stanza dei lumini rossi
“Racconterai la tua storia come se l’avessi vissuta, come il resoconto di un superstite, che si attarda per non farsi risucchiare di colpo dalla fine. Suscitate dalle parole che dirai, le cose accadranno per la prima volta…”.
Non c’è migliore viatico dell’incipit della nota introduttiva a La stanza dei lumini rossi (edizioni e/o 1997), per addentrarsi in questo romanzo di Domenico Conoscenti: romanzo assoluto, che si configura davvero come il “resoconto di un superstite”, come l’allucinato reportage di un sopravvissuto a una catastrofe. E proprio questo tono apocalittico, quasi da antico testamento, ci sta tutto: Conoscenti ha costruito la sua storia nella consapevolezza che solo la parola, il verbum, dà significato alle cose, agli eventi, strappandoli una volta per tutte all’oscurità. Ma, come vedremo alla fine, una verità abbacinante ed eccessiva si sostituirà alle tenebre: il risultato sarà nuovamente la cecità, l’ottenebramento, in una parola l’impossibilità della conoscenza.
“Ti troverai da solo, in una mattina di maggio, nel vagone di un treno. Per poter cominciare non ti è necessario nient’altro. Sei già fuori, strappato al buio avvolgente in cui eri”. L’autore si rivolge direttamente al suo personaggio, il giovane Saverio, in viaggio per trasferirsi dal paese alla città, Palermo, dove prenderà servizio in un albergo lussuoso nella qualità di barman.
“Macchie cupe squarciarono il buio: cambiavano forma e colore e poi svanivano, ma altre si aprivano dal fondo nero che ribolliva incessante”: così comincia la storia narrata dall’autore e Saverio è come se venisse vomitato dalle viscere della terra, generato da un immondo cetaceo. “Il viaggio era lentissimo. L’accelerato era fermo e l’attesa doveva durare da un bel po’. Forse non era neppure la prima sosta che faceva. Il mondo di fuori lentamente riprendeva le forme definite della veglia”: forme che strappano Saverio all’oscurità da cui proviene, al “groviglio” delle sue “fantasticherie” (fin da subito vien da pensare al protagonista di Delitto e castigo, Raskolnikof, il quale era solito cadere, come scrive Dostoèvskij, in “profonda fantasticheria”) , per consegnarlo al mondo dei vivi.
“Ero pronto allo scatto, impaziente di tuffarmi nel mondo che scintillava e che, da quel momento, con me, non sarebbe più stato lo stesso”. Dopo qualche ora di viaggio, il treno arriva alla stazione di Palermo: è una giornata di scirocco, “di quelle improvvise, prima dell’estate vera e propria e che finiscono di colpo, dopo due, tre giorni, lasciando il cielo più scuro e pesante di prima”. Saverio tira fuori dalla tasca un foglietto con l’indirizzo della sua nuova abitazione e le istruzioni per raggiungerla: sale sull’autobus, scende a Piazza Politeama, imbocca via Houel: davanti ai suoi occhi, in pochi minuti, si materializza una palazzina di tre piani degli anni Venti. Lì prenderà in affitto un appartamento da una vecchia donna:
Mostrava circa settant’anni e indossava un grembiule logoro con le maniche lunghe, anche questo tutto nero, chiuso nel petto da una spilla da balia che reggeva un pendente ovale. I capelli grigi e giallognoli erano avvolti e fermati da una serie di forcine metalliche tutti in alto, in cima alla nuca.
La vecchia si rende subito odiosa, sospettosa, recalcitrante, ma alla fine, cambiando atteggiamento, accompagna Saverio in uno degli appartamenti della palazzina: “La casa era immersa nell’oscurità”. E sarà proprio il buio il motivo di fondo del romanzo, l’assenza di luce, la presenza minacciosa delle tenebre che avviluppano quella casa, rendendola misteriosa e incutendo angoscia e sgomento in Saverio. La descrizione degli ambienti fa di Domenico Conoscenti uno scrittore vero, un abilissimo creatore di atmosfere, capace di animare anche i pulviscoli, di dare vita all’inerte. La mobilia descritta ci riporta alle vecchie case che popolano le storie di fantasmi raccontate da James: in questo Conoscenti è poco siciliano, e apparentabile invece agli scrittori della migliore tradizione gotica.
Intanto Saverio comincia a lavorare al bar dell’albergo: all’inizio è dura, ma col tempo il ragazzo si abitua. Quando stacca, il ritorno a casa serba sempre qualche sorpresa: la padrona di casa manifesta un’attenzione morbosa, spiando i suoi movimenti, origliando quando può, assillandolo per il pagamento delle mensilità, mostrandosi invasiva e petulante. Ma la vecchia è anche capace di inaspettate gentilezze, di eccessive e sospette cordialità: come quando va a fare visita al suo inquilino, per dirgli che per i soldi dell’affitto c’è ancora tempo. La sua presenza però comincia a infastidire Saverio, il quale fa di tutto per mostrare il suo disagio.
“La stanza intanto era passata dall’ultima luce del giorno a un’oscurità ormai densa, in cui le cose e anche lei sembrava che dovessero disciogliersi da un momento all’altro”: questo irrompere misterioso e repentino delle tenebre che ingoiano la luce e che risucchiano ogni cosa, pagina dopo pagina, sarà sempre più frequente man mano che si procede nella lettura del romanzo, isolando quella palazzina dal resto della città e calandola negli inferi del sottosuolo.
Nel frattempo Saverio conosce un’attraente donna settentrionale, una femme fatale che pian piano lo invilupperà, approfittando della sua buona fede. Nel palazzo Saverio conosce altri inquilini, che gli parlano della padrona di casa, delle sue stranezze, del suo controllo asfissiante, del fatto che a lei non sfugga niente e che conosce tutto quello che succede all’interno degli appartamenti. Un giorno Saverio è costretto a rivolgersi alla vecchia per avere in prestito un pacco di pasta, ma ecco il colpo di scena: dalla riluttanza e dall’eccessiva scontrosità, la padrona di casa passa alla cordialità, invitando il suo inquilino a pranzo. Ma l’ingresso nella casa della vecchia sarà una sorta di discesa agli inferi; viene fatto di pensare al Giona biblico inghiottito dal pesce, o al burattino Pinocchio nel ventre della balena: Saverio è costretto alla catabasi, come ci insegna l’antropologia, per poi, forse, ritornare alla luce.
Non appena richiuse la porta alle mie spalle, l’ingresso precipitò nel buio e l’odore della casa, come il fiato di un immenso cetaceo, mi avvolse di colpo. I miei occhi riuscivano a stento a distinguere la sua sagoma che si stagliava appena più nera nell’oscurità in cui eravamo immersi.
La vecchia fa strada a Saverio attraverso le stanze buie: si sentono solo i suoi passi e il pulsare lento, dilatato dal buio, di un grande orologio, forse una pendola. Vengono alla mente le pagine di Mario Praz dedicate allo stile impero, alla componente crepuscolare, quasi mortuaria di certa mobilia, così amata dall’autore di La carne, la morte e il diavolo.
La storia d’amore con la bella nordica, frattanto, sembra andare e a gonfie vele; con lei viene fuori un altro Saverio:
Il piacere della seduzione, il gioco dei corpi in contatto e persino il momento del nudo piacere, con Luisa diventavano ombre sfocate. La bellezza dell’amore si manifestava per intero solo quando tutto si era concluso.
La vicenda romanzesca continua a svilupparsi sui due soliti fronti narrativi: quello esterno della città assolata, sciroccosa, assetata, e quello interno, di sotto, nelle viscere del palazzo, dove regnano prevalentemente oscurità e mistero. Continuano gli incontri tra Saverio e la padrona di casa, la quale, in assenza dell’inquilino, si introduce nel suo appartamento per fare le pulizie: incontri durante i quali l’anziana donna si abbandona ai ricordi e soprattutto a considerazioni che riguardavano la sua vita. Fino a quando non comincia a parlare solo di soldi, delle sue capacità che ne fanno un’ottima amministratrice, delle sue proprietà: “Mi piacerebbe lasciare a qualcuno tutto questo ben di Dio, però a qualcuno che voglio scegliere io”. E così discorrendo un giorno Saverio, alle calcagna della vecchia, raggiunge la parte della casa rimasta ancora inesplorata: ecco dinanzi a lui il grande orologio, massiccio, color mogano con un fregio dorato sopra il quadrante: una faccia da cui partivano tre gambe piegate. Il color mogano, il fregio, ci riportano ancora a Mario Praz, al tenebroso e lugubre fascino dei mobili stile impero.
Alle confidenze e alla familiarità, in certi casi si alternavano improvvise scenate, silenzi inattesi o risposte scontrose. È già agosto e la città comincia a spopolarsi: strade deserte, autobus semivuoti. La vecchia, intanto, diventa sempre più assillante e premurosa: gli incontri si infittiscono, riservando sempre nuove sorprese. Le ricognizioni della casa continuano a svelare ambienti sempre più bui e inquietanti, tra tendoni di velluto, vecchia mobilia, giocattoli abbandonati, foto e vecchi ritratti: a Saverio, a un certo punto, vengono in mente le Catacombe dei Cappuccini, “con le loro file di abiti sontuosi e impolverati, da cui fuoriescono i teschi e le ossa di mani e piedi, poi la bambina imbalsamata nella piccola bara col coperchio di vetro, e la stessa luce gialla delle lampade nelle gallerie di tufo”. Nella mente del protagonista a queste visioni si sovrappongono alcune immagini da fumetto dell’orrore; l’aria è sempre più chiusa, irrespirabile, e la narrazione procede in un vertiginoso, claustrofobico crescendo. I discorsi farneticanti della donna si moltiplicano, tra rievocazioni e rimpianti, e le rivelazioni sul desiderio frustrato di dare alla luce un figlio. Un giorno, poi, la donna coinvolge Saverio nella ricerca di un fermaglio: “Mi aiuti a cercarlo, che quattro occhi vedono meglio di due”. Per la prima volta la vecchia mostra nella sua interezza l’appartamento al ragazzo. Un appartamento invaso dalla polvere, dalle ragnatele e dal tanfo di rinchiuso. Senza dubbio questo romanzo sarebbe piaciuto a Hoffmann e soprattutto a Poe.
La ricerca continua anche l’indomani in altre stanze della casa, arredate da mobili tutti antichi ma di epoche e stili diversi: mobili massicci, scuri, con ornamenti pesanti: Conoscenti, procedendo per accumulo, ci mette davanti agli occhi tutta una sequela di mensole, angoliere, cassettiere, una teoria di comodini, busti, immagini sacre, crocifissi, quadri: tutto un bazar di roba paesana, oggetti spesso inutili e di pessimo gusto. Al tanfo di rinchiuso, in certi momenti, si somma un odore strano, delicato e insieme disgustoso, come di fiori e di acqua marcia. Odore che viene da una porticina nascosta da una tenda di velluto verde: la vecchia apre quella porta, comincia a scendere gli scalini, invitando Saverio a seguirla. Il lezzo prima avvertito si fa, di gradino in gradino, più forte e insostenibile:
Alla fine delle due corte rampe si aprì una stanzetta col tetto basso e una finestrella chiusa. L’odore era soffocante, misto a quello di cera squagliata. La luce di tre lumini rossi faceva oscillare le ombre diverse che si staccavano dagli oggetti e si intersecavano tra loro, disegnando zone ancora più scure. Accanto fiori di pomelia, dai petali in parte marroni, che galleggiavano dentro ciotole e piattini da caffè, ampolle e vasetti di vetro con tralci di gelsomino e pittosforo, stipati nell’acqua verdastra e filamentosa; a parte, una caraffa di ceramica con tre tuberose e un ramo di zagara.
Ci troviamo nella stanza dei “lumini rossi” del titolo, il ventre del cetaceo immondo che ha inghiottito Saverio: tre lumini animano l’ambiente disegnando ombre inquietanti sulle pareti, come fossero le anime dei dannati. Uno dei tre lumini, il più grande, arde davanti a due sportellini chiusi, privi di maniglie. Cosa mai ci terrà dentro la vecchia, si domanda Saverio? Intanto l’aria satura di umidità diventa sempre più insostenibile, “l’odore soffocante dei fiori e dell’acqua putrefatta afferrava i bronchi e me li stringeva in una morsa dolorosa”: Saverio è costretto a spalancare la finestra e a prendere una boccata d’aria. In quei due sportellini, fa sapere la vecchia, ci sono i suoi soldi, tenuti al sicuro; la chiave ce l’ha lei, la porta sempre addosso, dentro il medaglione.
La ricerca del fermaglio non sortisce alcun effetto e Saverio se ne torna nel suo appartamento. È scosso, inorridito da quell’ambiente lugubre, infetto; ne parla con Luisa, la quale, bisognosa di soldi (per la precisione cinquanta milioni) per un fantomatico affare da portare a termine, fa capire a Saverio che i risparmi della vecchia potrebbero risolvere il suo problema. Il tempo passa, Saverio trasgredisce alla regola imposta dalla vecchia di non portare donne nell’appartamento: lui e Luisa vengono sorpresi dalla padrona di casa che va su tutte le furie, facendo una terribile scenata. Il giorno dopo, però, Saverio trova sotto la porta un messaggio: la vecchia vuole vederlo. Lui sale ed ecco il colpo di scena: l’anziana donna è disposta a lasciare tutti i suoi beni al ragazzo, a condizione però che abbandoni Luisa. Ha un giorno di tempo per decidere: la vecchia dovrà allontanarsi, ma gli fa intendere che lascerà la chiave della porta sotto il tappetino: “Così se per caso non mi trova, lei entra lo stesso e mi aspetta”. Saverio e Luisa, a questo punto, si introducono nella casa della vecchia: lui in preda al terrore, lei quasi eccitata. C’è la solita aria viziata, pesante e calda come il fiato di un animale. I due si inoltrano nell’oscurità delle stanze, sino alla porticina nascosta dalla tenda: scendono le scale e si trovano davanti allo scrigno, una specie di sacrario. Luisa vuole a tutti i costi forzare gli sportelli e portare via i soldi.
Ma ecco che, alla stregua di un fantasma, compare la sagoma della vecchia, in una scena degna di Stefen King: le cose si complicano, i due perdono il controllo. Il loro respiro si va sempre più spasmodico, ansimante, il cuore è come se dovesse fermarsi da un momento all’altro. L’ambientazione della scena diventa sempre più claustrofobica: Conoscenti sottrae spazio, aria, restringe con accuratezza la scena, tanto da rendere paonazzo pure il lettore, che non vede l’ora che la finestra venga spalancata: Saverio cerca di sottrarre la chiave alla vecchia, la quale oppone resistenza, ingaggiando una folle lotta col ragazzo. I due si avvicinano alla finestra, la vecchia si lascia andare sul bordo e cade giù, come se fosse stata “risucchiata”.
È impossibile, a questo punto, non pensare al capolavoro di Dostojevskj, in special modo alle prime pagine, alla casa della usuraia, con i mobili in legno giallo tutti vecchissimi, al cassettone dove la vecchia teneva il denaro, al delitto che pian piano prende forma nella mente di Raskolnikof.
Saverio, per tornare alla Stanza dei lumini rossi, è sconvolto, mentre Luisa ha già aperto lo sportello del tabernacolo. Ora ha tra le mani un barattolo di vetro, “una boccia in cui stava sospeso uno strano corpo che la riempiva tutto: non era un pesce, pareva una medusa, anzi un’enorme larva di crostaceo”. Niente di tutto ciò: in quell’ampolla, sotto spirito, era nascosto un feto umano. Siamo al culmine del romanzo, tra visionarietà e puro terrore. Alla fine la scrittura di Conoscenti ha risucchiato ogni cosa, ha inghiottito Saverio, Luisa, la vecchia, la casa, lasciando fluttuare sulla pagina l’immagine impura di quel feto:
… le dimensioni di quella cosa di deformarono, accrescendosi in maniera abnorme. Sulla superficie sferica si proiettò uno smisurato corpo traslucido, un feto sotto spirito. Sospeso fra le pareti curve, rannicchiato, ruotava lento su se stesso. Spalancò le palpebre gonfie proprio in quell’istante e mi fissava pauroso, stringendo i piccoli pugni…. La teca cadde a terra, si infranse e la cosa, qualunque cosa fosse, si spappolò nell’urto col pavimento come una frittella sfatta, mescolandosi alle schegge di vetro e alle chiazze di quel liquido schifoso. Tutto senza rumore, tranne il battito cupo del cuore che cominciava a diradare i suoi colpi e a perdersi sempre più lontano.
Ecco il momento di distensione, di rilassamento emotivo ma soprattutto narrativo: Conoscenti con questo romanzo ha messo in campo tutte le sue forze, ha dato fondo a tutta la sua energia di scrittore. Ha sottoposto a tensione la sua materia narrativa, sino a un punto massimo: il rischio era quello di spezzare l’unità romanzesca, di compromettere l’equilibrio del racconto. Non è successo niente di tutto ciò, venendone fuori un’opera notevolissima, ma che ha svuotato il suo autore, risucchiandone la linfa narrativa. Il fiato immondo del cetaceo che animava la casa della vecchia, alla fine Conoscenti lo ha avvertito sul proprio collo: e così il romanziere Conoscenti è stato ingoiato, ed ora è lì, in mezzo alle schegge di quell’ampolla, magari affacciato alla finestra per osservare il cadavere della vecchia. Ma da quel budello infernale Conoscenti non è più risalito, condannato com’è a vegliare in quell’antro dell’orrore.
