(di NATALE TEDESCO)
Quando nel 1993 lessi il libro di Silvana Grasso, Nebbie di ddraunàra, che vinse il Premio Mondello, notai subito uno sperimentalismo linguistico quale dato fondante della sua esperienza di scrittrice. Esso, da allora, è andato modulandosi in vario modo fino a giungere a quello di Disìo.
Con quest’opera, cui potremmo attribuire con Bufalino, “lo stigma della malattia e del dolore”, la Grasso ha raggiunto una straordinaria maturità linguistico-espressiva che si avvale di una tensione metaforica nello scandagliare i moti dell’animo e decriptare i vari aspetti della natura per come vengono liricamente interiorizzati.
La scrittrice in generale rappresenta una natura traslata, che punta a una nuova oggettività. Una natura apparentemente senza quella storia che dovrebbe contrastarla, ma la storia è compresente perchè questa natura è essa stessa un prodotto storico per come viene conservata, rimodellata e rinnovellata. Pure il volere riferirsi della Grasso ad una natura mitica, ancestrale, è un atteggiamento contemporaneo di rifiuto, e di rivalsa, contro il degrado naturalistico dell’odierno presente. La maturità segnalata, d’ordine sia cognitivo che formale, continua la svolta operata con il romanzo La pupa di zucchero dove la scrittrice svela, cioè più liberamente ci fa partecipi del grumo di dolore che la possiede. A considerare il suo cammino inventivo precedente, mi pare si possa affermare che l’abituale suo verticalismo della coscienza si muova qui in una dimensione più aperta di assoluta tragicità. Fino a questo momento è come se non avesse voluto rivelare del tutto quel grumo di dolore, che diviene sempre più esplicito in La pupa di zucchero e in Disio, con qualche freno, in quest’ultima opera, dovuto all’aggiunta di referenzialità politico-sociale.
In realtà, la qualità della sua ricerca ancestrale, che si inscrive nello stile della scrittura del sud, assume questi caratteri tragici non solo perché la sua complessa terrestrità contiene con la luce il lutto, con la norma l’eversione, quanto perché è la modernità del sentire della scrittrice che si scontra con il mondo del passato. Ricerca ancestrale e sua rappresentazione al presente, consertate, sono ambedue totalmente schiacciate sulla e dalla contemporaneità.
In quest’ambito chi volesse nello specifico dire che l’idea verghiana della ‘roba’ è qui travolta e ribaltata non vedrebbe che l’apparenza di una situazione conflittuale.
La ‘roba’, nella sua concretezza, nella sua peculiarità non è neanche mito ma fantasima. Per riacquistare concretezza nel simbolo della tonnara, corrotto, restaurato e poi definitivamente crollato, la roba deve assumere la forma del rito della mattanza dove, con il sacrificio dei tonni tra sangue e splendore dei corpi si celebra la ricchezza naturale del mare e la lotta virile. Una roba primordiale grandiosa che non può più essere posseduta dalla meschinità dell’uomo d’oggi diviso tra avidità e rifiuto.
In una intervista Silvana Grasso si presenta così:
Sono nata sulla pancia di un vulcano, direi anzi che l’Etna mi ha eruttato, si è liberato di me con un boato.
Questo boato introiettato diventa il boato interiore dell’individualità, dei personaggi, della scrittrice. Per tracciare provvisoriamente il suo percorso si può osservare che nel Bastardo di Mautana (1994) descrive il rapporto padre-figlio, in Ninna nanna del lupo (1995) quello figlio-madre, allargando in L’Albero di Giuda tale rapporto nel conflitto Nord/Sud: dove il Nord è il figlio nuovo e il Sud è il padre vecchio; ma, per la letteratura, è vero il contrario: nuova è la narrativa del Sud quando sa essere fedele e insieme infedele ai suoi modelli. Le pagine conclusive della Pupa di zucchero con i tormenti del suo protagonista:
Si teneva forte con la mano il petto, contro l’inerme muro del suo torace sentiva gli assalti furiosi della sua fanciullezza, della sua adolescenza, belve cresciute in cattività, che ruggivano paurosamente dentro l’inerme recinto del suo cuore, e preparavano la mascella al fiero pasto delle illusioni.
Si legano alle pagine di sofferenza dei protagonisti di Disìo:
Si perfezionava in quell’istante la sua metamorfosi, pensò Memi, mentre la nenia usciva dalla sua bocca con la naturalezza con cui un feto, a gravidanza matura, abbandona le viscere note. Ora dalle ceneri d’una anagrafe di carta, dallo sprofondo d’una contraffazione anagrafica, riemergeva furiosa la sua sicilianità, il suo marchio, come un vulcano che eruttato da antri marini, per doglia d’onde e sgricci di fuoco e vampe e scolo funereo di vapori, sventra e dissangua il Mare
ed ancora:
La testa di Memi accucciava ancora al suo collo, faceva barriera al suo petto trantuliante, era solo un gesto di statica, senza significato né coscienza. Comunque fosse, la nuca di lei era prossima alla sua bocca, il suo collo aveva la chiarìa della ricotta.
Questo linguaggio metaforico che interiorizza le figure fisiche, nel mentre pure le tratteggia maggiormente con materialistica espressività cui dà forza e icasticita l’imprestito dialettale, è il perno principale di quelle che sono le conquiste odierne della scrittrice di Disìo.
Oltre al registro tragico della Grasso bisogna anche lodare quello grottesco-ironico presente in Sette uomini sette. In questo volumetto si trovano alcuni racconti che si richiamano ai primi che la Grasso scrisse e che fanno riemergere la sua verve ironica, quella che abbiamo definito una ilare tristezza.
2006
