Ott 22

Una biografia, due autofiction. Ferrante-Starnone: cancellare le tracce

(di SIMONE GATTO)


(Premessa di Domenica Perrone)

Lo specchio di carta con questo intervento intende riportare sul terreno dell’ermeneutica  il dibattito, non sempre congruo, sul rapporto Ferrante-Starnone. Ciò che interessa il nostro gruppo di ricerca è raccogliere la sfida che ogni volta uno scrittore lancia al suo lettore pedinando filologicamente i testi, leggendoli e rileggendoli alacremente. La questione dell’identità, per quel che ci riguarda, è secondaria. Il nostro vuole essere sempre un lavoro dell’intelligenza e del cuore. E Starnone, che è stato nostro ospite nel 2006, lo sa (si veda l’intervista pubblicata su questo sito).
È dall’amore incondizionato per i testi, dal corpo a corpo con essi, che nasce infatti questa  rigorosa analisi di Simone Gatto.


“Cancellare le tracce”


Da quasi un quarto di secolo l’identità della scrittrice Elena Ferrante resta un dato labile avvolto nel mistero. Dal 1992, anno d’esordio con il romanzo d’ambiente napoletano L’amore molesto, nessun elemento concreto della sua biografia è stato consegnato ai media, nessuna traccia sembra ricondurre con sicurezza a un profilo biografico reale.

In questi 24 anni la Ferrante ha scelto di essere solo una voce che comunica attraverso i suoi libri, il filo ordinato delle lettere nere dentro lo spazio bianco del foglio, le righe che diventano pagine, le pagine che diventano storie. Sottrarsi per un “desiderio un po’ nevrotico di intangibilità” ha provato a giustificarsi nei primi tempi la scrittrice, quando ancora le scarne e fuorvianti note biografiche sul risvolto di copertina del suo primo romanzo certificavano una nascita a Napoli e rimandavano a una assai poco probabile residenza in Grecia. Oggi, a distanza di molti anni, nessuno pare più credere al mito della scrittrice esule, al soggiorno volontario fuori d’Italia, e solo il dato dell’origine napoletana sembra trovare costante e incontrovertibile conferma nei suoi scritti.

A ben guardare, però, nel caso della Ferrante la “assenza strutturale dell’autore” non è solo un aspetto esterno all’opera, un misterioso ed elegante corollario al testo. Dal romanzo d’esordio fino alla fortunata tetralogia dell’Amica geniale, infatti, “sparizioni” e “cancellature” tracciano proprio all’interno dell’opera una fitta ed esibita rete di rimandi intertestuali. È a partire da questa rete di echi, distesa attraverso i testi, che le “cancellature” diventano tracce e dalle pagine affiora la segnaletica per trasformare il vuoto strutturale dell’autore nel pieno di un’identità biografica pubblica, assecondando non solo il desiderio lecito del lettore appassionato, ma probabilmente il disegno stesso dell’autore occulto che sfida così chi legge a partecipare del suo “svelamento”.

Cancellare le tracce è il titolo del Prologo con cui si apre L’amica geniale: Lila ed Elena sono amiche fin da bambine ma ora, alle soglie della vecchiaia, Lila ha deciso di sparire; il suo piano non è quello di fuggire o di rifarsi una vita altrove, il suo proposito non contempla l’idea del suicidio. Lila, da anni affascinata dalla possibilità di cancellarsi, ha semplicemente deciso di «volatilizzarsi», di non lasciare traccia. Elena, naturalmente, non può accettarlo:

Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato. Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle. Mi sono sentita molto arrabbiata. Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente (L’amica geniale, pp. 18-19).

La scrittura, dunque, come mezzo per far perdere le tracce, ma all’occorrenza anche come strumento indispensabile a ritrovarle. Elena Ferrante, oscillando tra questi due poli, è sembrata prima sottrarsi fino a cancellarsi, sostituendo alla propria biografia reale la comunque ingombrante presenza autoriale di un “io” solo narrativo, poi, nel tempo, ha lasciato che nelle sue pagine si depositassero i sedimenti della propria biografia reale, le tracce che il lettore doveva seguire per ritrovare, oltre il dato reinventato e l’autofiction, il nudo “io” biografico.


Seguire le tracce: traccia 1


L’amica geniale è un lungo racconto incentrato attorno alla storia di due donne, complici, vicine, sodali, rivali, distanti, poi ancora amiche, in un prolungato gioco di specchi che diventa una distesa narrazione-fiume.

In questa storia spiccatamente “al femminile” la principale figura maschile è quella di Nino, amore segreto e inconfessato di Elena fin dalle prime pagine, amante di Lila nel corso della narrazione, amante di Elena e padre dell’ultima delle sue tre figlie in un momento ancora successivo del ciclo. Nino si fa strada attraverso il racconto indossando ora i panni del deuteragonista maschile, ora quelli dell’antagonista, fino al sensibile scarto narrativo che nelle pagine finali piega il profilo del personaggio deformandolo secondo i canoni del romanzo d’appendice. Ma è nelle pagine iniziali del libro, quando la sua figura muove incontro al lettore per la prima volta che l’onomastica completa del personaggio, “Nino Sarratore”, salta agli occhi andando a costituire la prima decisiva traccia lungo la pista che porta alla vera identità di Elena Ferrante.

NINO SARRATORE, infatti, altro non è che l’anagramma imperfetto di STARNONE. Inoltre la parola SARRATORE si presenta come deformazione acuta e allusiva di NARRATORE, con il cambio della consonate iniziale “S” per suggerire il sottinteso “Starnone che racconta”. Con questo stratagemma combinatorio lo scrittore partenopeo sembrerebbe autografare segretamente il testo e celare tra le righe l’autentica paternità dell’opera. Da quando anni addietro Gianfranco Contini avvalorò l’attribuzione della corona di sonetti del Fiore al giovane Alighieri, indicando nel nome di Ser Durante, il personaggio che compare nell’opera e dice “io”, l’ipocoristico di Dante, molta acqua è passata sotto i ponti e probabilmente allora ai filologi non era richiesto di essere anche anagrammisti!

Seguire questa prima traccia conduce immediatamente a una seconda interessante rivelazione.

Nino è infatti, nel romanzo, il figlio primogenito di Donato, il “ferroviere-poeta”, come viene citato nell’Indice dei personaggi che accompagna tutti i volumi del ciclo. La famiglia Sarratore è composta da cinque figli e vive, come Elena e Lila, in una casa del rione popolare in cui è ambientata la vicenda. Questi pochi ma sicuri dati biografici rimandano a un precedente romanzo di Starnone, Via Gemito, opera autobiografica del 2000, in cui l’autore rievoca l’infanzia trascorsa in una famiglia numerosa, il padre ferroviere e la madre sarta, cinque fratelli, nella Napoli dei rioni popolari. Anche in Via Gemito, al nome del padre, Federico, si accompagna spesso l’appellativo diferroviere-artista”, suggellando il ritratto di un uomo esuberante, astioso, manesco, ma anche fragile, ansioso, generoso, che nella vita è costretto a fare il ferroviere quando invece vorrebbe seguire di slancio la sua vocazione artistica di pittore. Il ferroviere-poeta Donato della Ferrante è dunque sotto molti aspetti un calco del ferroviere-pittore di Starnone, salvo per quei tratti che nel ciclo romanzesco vengono consapevolmente deformati nella logica della narrativa d’appendice.

Coincidono, intanto, alcuni tratti fisici dei due personaggi.

Così Federico nelle parole del figlio: «uomo sottile, ossuto, il viso allungato dalla fronte altissima», «i capelli neri, la bocca digrignata coi denti lunghi, le narici dilatate», «i baffi» (Via Gemito, p. 14, p. 81, p. 19), 

Questo, invece, il ritratto che Elena fornisce di Donato: «magro, s’era fatto crescere i baffi», «un corpo asciutto», «i tratti del viso marcati, è molto stempiato» (L’amica geniale, pp. 210-211, p. 219).

Ma è sul piano della caratterizzazione psicologica che le affinità risultano ancora più evidenti. Sia sufficiente questo confronto testuale a dare la misura di quanto i testi della Ferrante e di Starnone tendano a sovrapporsi. Si tratta di uno dei numerosi passaggi in cui le figure dei padri si esibiscono in una intemerata astiosa e recriminatoria per i meriti artistici che non sono mai stati riconosciuti loro:

Sento la sua voce che sale di tono […] qualcuno senza meriti gli levava a tradimento quello che si era meritato (Via Gemito, pp. 60-61).

Prese quota, cominciò ad autocelebrarsi e insieme a lagnarsi perché le invidie dei mediocri gli avevano impedito di farsi conoscere come si sarebbe meritato (Storia della bambina perduta, p. 134).

Come era stato per il protagonista dell’autobiografico romanzo di Starnone, inoltre, anche per il Nino dell’Amica geniale il rapporto con l’ingombrante figura genitoriale ha una natura conflittuale, di un’ostilità però smorzata e tenuta freno, nel pieno rispetto di un preciso codice sociale. Nel 2000 Starnone scrive: «A mio padre obbedivo senza mai obiettare, gli ho obbedito così per tutta la vita» (Via Gemito, p. 30).

A distanza di 11 anni la Ferrante sembrerebbe ricordare: «qualsiasi cosa il padre proferisse non acconsentiva ma nemmeno gli si opponeva», «era un figlio rispettoso e obbediente» (L’amica geniale, p. 213, p. 209). Con una macroscopica ripresa tematica e lessicale che appartiene con ogni probabilità alla memoria involontaria dello scrittore.

La prossimità tra il personaggio di Nino con il vicario io-narrante di Via Gemito trova ancora conferme nella particolare “missione” che i figli si attribuiscono per sciogliere il conflittuale nodo dei rapporti coi padri. Nelle pagine dell’Amica geniale Nino utilizza queste parole per confessare a Elena i suoi propositi:

“Dedicherò la mia vita” disse come se si trattasse di una missione, “a cercare di non assomigliargli” (L’amica geniale, p. 216).

Gli stessi propositi avevano accompagnato l’alter ego starnoniano di Via Gemito:

In quel periodo non stavo crescendo bene. Mi sottoponevo a sforzi inutili. Avevo ormai braccia lunghe che quando si muovevano oscillavano senza controllo come per staccarsi dal busto e dalla spalle. Cercavo di correggerle per evitare che la mia andatura assomigliasse a quella di mio padre. Parlavo a monosillabi per non essere loquace come lui. Mi assegnavo comportamenti umili e mi sottraevo a ogni competizione per evitare la sue vanterie. Spiavo la mia faccia allo specchio per assicurarmi che avessimo pochi tratti in comune e se ne individuavo studiavo espressioni che li camuffassero. Detestavo le persone che per farmi un complimento esclamavano: “Identico a tuo padre” (Via Gemito, pp. 119-120).

Nel ciclo romanzesco della Ferrante la biografia di Nino sembra trovare evidenti punti di contatto con quella di Starnone: la passione per i libri e la scrittura, la scuola come ascensore sociale, la pubblicazione dei primi articoli su riviste locali, il trasferimento da Napoli a Roma, la collaborazione con Il Manifesto. Solo nell’ultimo volume del ciclo la biografia reinventata subisce un forte slittamento in direzione della narrativa d’appendice, il personaggio, smarcandosi da tutte le premesse che avevano contribuito a caratterizzarlo, si scopre egoista, cinico, arrivista e finisce per riprodurre da vecchio anche nei gesti, nel fisico, nel tono della voce il modello paterno a cui per tutta la vita aveva cercato di sottrarsi.

È evidente come Starnone (e non altri) si sia divertito a giocare con il proprio doppio, ricalcando con autoironia e non poco autolesionismo la propria storia personale e tornando su un motivo ricorrente della propria narrativa, quello dei corpi che portano dentro fino a riprodurli i corpi che li hanno generati.

La materia autobiografica di Via Gemito, dunque, viene trasferita nel ciclo dell’Amica geniale, ma insieme è trasposta, perde centralità, le memorie familiari si ritagliano solo un piccolo spazio sullo sfondo delle vicende del rione, piegandosi, quando necessario, alle esigenze di un nuovo plot che caratterizza marcatamente i personaggi e li deforma. Al centro della scena resta naturalmente Elena, l’altro personaggio vicario dell’autore, la scrittrice «inventata dai maschi, colonizzata dalla loro immaginazione», che non riesce a «strapparsi Nino dalla testa», che ha scritto un libro sulla «friabilità delle identità sessuali» (Storia della bambina perduta, p. 47, p. 91, p. 173). Nel suo fortunato romanzo Elena teorizza «l’invenzione della donna da parte degli uomini» e suggerisce il tema del libro con queste parole: «i maschi che fabbricano le femmine» (Storia di chi fugge e di chi resta, p. 323, p. 329).
Che attraverso riferimenti e ammicchi tanto insistiti Starnone abbia voluto alludere al suo programmatico celarsi dietro un eteronimo femminile pare sempre più evidente, soprattutto se a partire da questa prima traccia si provi a seguire il percorso testuale che mette in stretta relazione Via Gemito con L’amore molesto.

Attraverso questi due testi una stessa vicenda biografica sembra trovare la sua duplice versione romanzesca, una doppia autofiction che è prima la declinazione al “femminile” e poi al “maschile” della stessa storia.


 Traccia 2: una biografia, due autofiction


Sono otto gli anni che separano la pubblicazione dell’Amore molesto (1992) da Via Gemito (2000) e mettendo a confronto i testi si ha come l’impressione che il primo libro possa essere stato il “cartone preparatorio” del secondo. Tocca, infatti, agli io-narranti dei due romanzi il medesimo compito, sofferto e doloroso, di rievocare il clima di difficili rapporti familiari generato dalla gelosia di un padre manesco, pittore senza fortuna, per la moglie, guantaia e sarta, nella Napoli del dopoguerra. Si potrebbe far notare, addirittura, che Via Gemito “doppia” L’amore molesto anche nella dedica che figura in epigrafe al volume: «a mia madre» nel libro della Ferrante, «a Rosa, Rusinè» nel libro di Starnone, con evidente ricorso all’affettuosa pronuncia del lessico familiare.

Ma le analogie non sono solo di ordine tematico e la vicinanza tra le due opere si esprime anche con precisi calchi lessicali. Tra i più evidenti quelli che rimandano all’attività di pittore del padre:

C’era una cassa dove alla rinfusa erano stati gettati i tubi dei colori: quello del bianco era stato strizzato e arrotolato fino al collo filettato (L’Amore molesto, p. 140).

Aveva una brutta cassa di legno proprio di lato al cavalletto e ci teneva stracci e tubetti. […] i tubi e i tubetti raramente erano gonfi e lucenti, per lo più risultavano strizzati fino al collo filettato (Via Gemito, p. 77).

Il coperchio della cassa era un foglio di compensato, mobile, su cui c’era una caraffa con i pennelli (L’amore molesto, p. 140).

Su un angolo della cassa era appoggiato un largo foglio di compensato dove teneva una caraffa coi pennelli (Via Gemito, p. 77).

Molti tubetti erano rimarchevoli, ora per il nome da principe di fiaba, come il Blu di Prussia, ora per l’aura da incendio devastatore come la Terra di Siena bruciata (L’Amore molesto, p. 140).

Mi piacevano molto, a quell’epoca, anche le parole che lui pronunciava, erano ricche di suggestioni: ocra, carminio, terradisienabruciata, terradombra, verdesmeraldo, bludiprussia (Via Gemito, p. 77).

La casa era intrisa dell’odore dei colori a olio e della trementina (L’amore molesto, p. 141).

Tutta la casa odorava di colori e acqua ragia. […] A me piaceva molto l’odore dei colori, quello della trementina (Via Gemito, p. 17 e p. 77).

Notevoli, inoltre, risultano le affinità testuali tra le due opere quando ci si soffermi a considerare i punti di contatto tra il pittore e la sarta Amalia, genitori della voce narrante nell’Amore molesto, e il pittore-ferroviere Federì e la sarta Rusinè, genitori dell’autobiografico io-narrante starnoniano. Si provino, ad esempio, a confrontare le pagine della narrazione in cui viene ricostruito l’episodio del loro primo incontro:

Il cavalcavia era rimasto lì fin da quando Amalia aveva sedici anni. Lei doveva percorrere quei tunnel freschi e ombrosi, quando andava a consegnare i guanti. […] Sotto il cavalcavia Amalia era stata inseguita da sfaccendati, ambulanti, ferrovieri […]. Anche mio padre l’aveva braccata per quel tratto di strada, poco più che ventenne. Amalia raccontava che a sentirselo alle calcagna si era spaventata. Non era come gli altri, che le parlavano di lei cercando di lusingarla. Lui le parlò di sé: si vantò delle cose straordinarie di cui era capace, disse che voleva farle un ritratto, forse per provarle com’era bella e com’era bravo (L’amore molesto, p. 136-137).

Lui l’aveva adocchiata mentre parlava del più e del meno con certi amici, operai del Deposito. L’aveva vista dall’alto, dal ponte dello Smistamento […]. Non si era potuto trattenere, le era piombato addosso come un falco, lui stesso nel rievocare l’incontro con toni nostalgici si paragonava a quel volatile […]. Signorina, permette signorina. Lui rideva, si vantava, smaniava. […] Era diverso da tutti, nei gesti, nei toni della voce. […] si comportava come se fosse il figlio di un re che per ragioni sue segrete si era travestito da operaio aggiustatore elettricista. […] tirava fuori un foglio, una matita e la rifaceva identica, bocca socchiusa per lo stupore (Via Gemito, pp. 19-20).

Lei teneva gli occhi bassi e affrettava il passo. […] ci diceva che l’aveva guardato di sbieco una volta sola e aveva subito capito. Noi, le figlie, non capivamo. Non capivamo perché le fosse piaciuto (L’amore molesto, pp. 137-138).

Lei zitta, camminava spedita guardando diritto davanti a sé, salvo qualche occhiata in tralice, ironica, per valutare quello sconosciuto. […] Solo allora si era accorta che le piaceva. Chissà perché ne era stata attratta, sono cose misteriose che non si possono spiegare (Via Gemito, p. 19).

Il suo corpo di sedicenne, vestito d’una veste a fiori fatta in casa. […] mio padre […] poco più che ventenne (L’amore molesto, p. 137).

Era bella, ma forse meno bella di adesso, a trentaquattro anni: allora ne aveva diciassette, i capelli neri sciolti, un viso da orientale, la gonna rosa tutta a pieghe oscillanti sulle caviglie ben fatte e una camicetta chiara sotto un bolerino. […] lui aveva ventun anni (Via Gemito, p. 19).

I dettagli dell’incontro si ripetono nelle due occasioni pressoché identici: corrispondono il carattere, gli atteggiamenti, le reazioni e le età dei protagonisti (sia pure con la leggera variante relativa all’età della madre), così come coincidono il particolare del ritratto, e la reazione sorpresa dei figli che ascoltano il racconto della madre senza darsi spiegazione dell’innamoramento di lei. Solo un dettaglio, evidentemente, non combacia: l’abbigliamento della figura femminile. Ma è proprio il particolare della «veste a fiori fatta in casa», che compare nell’Amore molesto e viene sostituito in Via Gemito dalla «gonna rosa» e dalla «camicetta chiara sotto un bolerino», a essere ripristinato in un successivo romanzo di Starnone, Labilità (2005), dove l’immagine della madre viene rievocata con una «veste leggera a fiori, esattamente come appariva in una foto del 1940, quando si era fidanzata con mio padre» (pp. 253-254).

Certo le analogie tematiche e i calchi testuali messi in evidenza potrebbero indurre qualcuno ad avanzare il sospetto di plagio, soprattutto quando si consideri che i romanzi di Starnone fino a qui citati sono tutti successivi al romanzo d’esordio della Ferrante. Anche questa ipotesi, tuttavia, può essere facilmente smentita prendendo in considerazione Il salto con le aste (1989), primo romanzo di Starnone, opera precedente a ogni altro testo ferrantiano, e vero nucleo generativo di tutti i libri fino a ora esaminati. Seguire questa terza traccia ci consentirà di stringere ancora di più il nodo dei rapporti tra i due universi narrativi per provare definitivamente la filiazione di entrambi dalla penna dello stesso autore.


Traccia 3: un nucleo generativo comune


Il salto con le aste, nel 1989, costituisce l’esordio nel romanzo di Domenico Starnone. Prima di allora lo scrittore napoletano aveva praticato un lungo apprendistato, concluso con la raccolta in volume, per le edizioni del Manifesto, dei testi umoristici di ambiente scolastico, pubblicati in origine sulle pagine del quotidiano romano e finalmente dati alle stampe, nel 1987, sotto l’eloquente e autoironico titolo di Ex cattedra.
Il salto con le aste, dunque, è il primo testo che consente a Starnone di cimentarsi con la misura lunga del romanzo. Le aste a cui si fa riferimento nel titolo sono i segni grafici con cui i bambini realizzano a scuola il loro quotidiano apprendistato alla scrittura. Ma per i due protagonisti del romanzo, l’io-narrante e il suo migliore amico, Michele Astarita, sono soprattutto gli strumenti per «saltare» dalla realtà meschina e degradata che è loro toccata in sorte in un mondo di parole gentili e misurate, fatto di individui assennati e ben educati. Assediati da parenti «iloti», padri maneschi e compagnie violente, infatti, essi guardano alla scrittura come a una preziosa occasione di fuga, a una possibilità di riscatto sociale che li liberi dal soffocante abbraccio di una Napoli proletaria e popolare: con il suo dialetto fatto di inflessioni aggressive, toni violenti e dittonghi sguaiati, la città, non è semplicemente la quinta che fa da sfondo alle vicende, ma una coltre soffocante che si posa sulle persone e sui loro destini trasferendovi il suo grado di opacità. Sottrarsi a quel mondo, lasciarselo alle spalle, equivale per i protagonisti a conquistare la formula segreta in grado di trasformare i segni in scrittura, di neutralizzare il disordine del mondo dentro la sequenza ordinata dell’alfabeto.

Già questa breve sintesi consente di attivare un sorprendente cortocircuito con il ciclo dell’Amica geniale, come se in più punti il primo libro di Starnone e l’ultimo della Ferrante potessero toccarsi, innescando un evidente testa-coda testuale. In una chiave che non è più «umoristica» ma «viscerale», infatti, la Ferrante racconta, soprattutto nei primi due volumi del ciclo romanzesco, di un caparbio tentativo di emancipazione attraverso i libri, la scuola, l’alfabeto. Un tentativo coronato dal successo nel caso di Elena e di Nino, destinato al fallimento nel caso di Lila. Tuttavia, ciò che più conta mettere in evidenza, soprattutto per Elena e Nino, è che il loro desiderio di indipendenza e affermazione si esprima, come per i personaggi del primo romanzo di Starnone, attraverso un quotidiano addestramento alla misura e all’autocontrollo. Già nelle prime pagine della narrazione Elena dichiara:

Non ho nostalgia dell’infanzia, è piena di violenza. […] Certo a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicava la maestra, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione (L’amica geniale, p. 33).

Dentro il disordine del rione solo la scrittura possiede facoltà ordinatrici, sono i segni grafici dell’alfabeto, allineati con metodo sulla pagina, ad acquietare l’ansia e a suggerire possibilità di fuga: «avevo considerato la mia firma stampata come il segno che avevo realmente un destino, che la fatica dello studio portava di sicuro in alto» (L’amica geniale, pp. 325-326).

Ed è ancora una volta, a distanza di oltre vent’anni, quel “salto con le aste” vagheggiato, programmato e caparbiamente perseguito dai protagonisti del primo titolo starnoniano. È per l’ennesima volta, con un travestimento diverso, la storia dello sforzo culturale che deve compiere chi è nato in un ambiente socialmente svantaggiato per emanciparsi e affermare liberamente se stesso. Consapevole di tutto questo, soprattutto Elena appare per l’intero corso della narrazione faticosamente impegnata nella ricerca di gesti vigilati, di parole prudenti, di una pronuncia sorvegliata che possa sottrarla al disordine sguaiato del dialetto, alla violenza dei gesti e all’energia incontrollata dei corpi, i quali perdono contorni chiari e definiti tutte le volte che la scrittura non interviene a proteggerli, a metterli in salvo dentro il perimetro sicuro della pagina scritta.

Ma il primo titolo di Starnone è soprattutto depositario del dolente nucleo biografico sul quale, anche con il suo eteronimo femminile, lo scrittore non è mai mancato di tornare: la memoria dei rapporti conflittuali tra il padre ferroviere-pittore e la madre guantaia e sarta. Affiora qui per la prima volta il ricordo del padre rancoroso e manesco che insegue con urla bellicose la madre per casa, per la debolezza corrotta che la sua gelosia cieca le attribuisce, per i sorrisi innocenti che rendono lei gradita agli altri e nei quali lui non può fare a meno di scorgere la traccia del tradimento. Anche in questa circostanza i prelievi dai due testi dimostrano una prossimità notevole, fino al dettaglio minimo del «manrovescio», lo schiaffo «col dorso della mano, poi col palmo», con cui l’uomo colpisce la donna:

Litigavano con inseguimenti per casa (Il salto con le aste, p. 157).

Il padre in quelle circostanze abbandonava il terreno noto del dialetto campano di cui faceva uso esclusivo e gettava lì un misterioso: vanesia!suoni estranei, strillati alla madre un attimo prima del manrovescio (ivi, p. 116).

Amalia veniva spesso inseguita per casa, raggiunta, colpita al viso prima col dorso della mano, poi col palmo (L’amore molesto, p. 38).

Con perfetta triangolazione testuale l’episodio torna a distanza di anni in Via Gemito, con la sostituzione del «manrovescio» e il reintegro della variante ferrantiana dello schiaffo dato «di palmo e di dorso»:

Vedo lei che piange e che cerca di sfuggirgli per la cucina. […] Le urla vanesia e la colpisce a schiaffi, uno dietro l’altro, di palmo e di dorso (Via Gemito, p. 23).

In un altro luogo del romanzo è sempre a partire da un episodio di violenza domestica e dal dettaglio delle «cinque dita» stampate sul viso della madre che si può riproporre il confronto fra le varianti testuali:

Senza esitare le lasciava in faccia le cinque dita come se gliele avesse dipinte (Il salto con le aste, p. 116).

Mio padre l’aveva afferrata per il collo e le erano rimasti i segni lividi delle dita sulla pelle (L’amore molesto, p. 57).

A mia madre si disegnavano tutt’e cinque le dita in faccia (Via Gemito, p. 66).

In altre pagine la serie delle corrispondenze si estende fino a comprendere i luoghi concreti, la figurazione e la descrizione dello spazio abitativo:

Il padre che col suo urlo virile di guerra insegue la madre olivastra per la cucina, rovescia pentole di rame […]; la donna che gli sfugge, si sostiene all’orlo di ceramica bianca del focolare (Il salto con le aste, p. 117).

Dopo veniva la cucina: il lavello dove la mattina ci lavavamo a turno, un focolare in maioliche bianche caduto velocemente in disuso, un ramaio pieno di pentole che Amalia lucidava con cura (L’amore molesto, p. 140).

Ed eccoci, dunque, al punto: fino a prima di prendere in esame Il salto con le aste qualcuno avrebbe potuto sostenere, come pure è stato fatto, la dipendenza dei testi di Starnone dai libri della Ferrante, ma, a partire da questa prova, appare innegabile la loro genesi dallo stesso sofferto dato biografico, un nodo intimo e troppo personale per ipotizzarne una calcolata ripresa narrativa a opera di persone vicine allo scrittore campano. Con grande clamore mediatico, in queste settimane, si è voluto leggere sotto il nom de plume della Ferrante quello di Anita Raja, collaboratrice della casa editrice E/o, traduttrice dal tedesco, ma soprattutto moglie di Starnone.

Quest’ultima, tuttavia, pur essendo nata a Napoli nel 1953, dieci anni dopo il marito, ha trascorso nella città partenopea solo i primi tre anni di vita: non può pertanto appartenere a lei la memoria personale della Napoli popolare degli anni Cinquanta e Sessanta, che tanta parte occupa nel ciclo dell’Amica geniale. Risulta manifesto, invece, come tutti i libri considerati riconducano a uno stesso universo narrativo, a un mondo di reinvenzione letteraria perfettamente concluso, autonomo e autoreferenziale, in cui l’identità pubblica di Starnone e l’identità apocrifa del suo eteronimo si toccano e si sovrappongono fino a coincidere.


Evidenze stilistiche


Ma che cosa veramente occorre perché due mondi letterari che fino a oggi ci eravamo abituati a considerare separati, riconducibili a identità autoriali differenti, possano finalmente essere riconosciuti come un unico universo narrativo? Esiste, oltre le riprese tematiche e i calchi lessicali, un elemento in grado di restituire definitiva unità al molteplice e ricondurre anche gli eteronimi non dichiarati alla penna dello stesso scrittore? Probabilmente sì.

In letteratura la firma di chi scrive è lo stile. Ancor prima del nome che figura in copertina le evidenze stilistiche certificano la paternità di un’opera.

Più volte, in passato, Starnone ha avuto gioco facile nel far notare le divergenze di stile tra la sua prosa e quella della Ferrante: «mi sento molto distante dai suoi libri, anche se li apprezzo. Sono nato come “ironista”, lei è tutta visceralità».

Ma se si esaminano con attenzione le due scritture è facile scoprire, oltre la superficie delle differenze, una serie di tratti comuni tale da rendere plausibile anche l’ipotesi della convergenza stilistica. Ad esempio, sono presenti tanto in Starnone quanto nella Ferrante la tendenza a insistere sugli effetti di dilatazione o di contrazione del tempo e degli spazi. Così come è comune la disposizione a rappresentare ambienti e scenari fluidi dentro i quali i personaggi sono costretti a muoversi con cautela, con l’ansia che un gesto non controllato, più brusco degli altri, possa lacerare i luoghi, mettere in crisi i fragili equilibri che preservano la zona di contatto fra il soggetto e la realtà:

Allungai la mano verso il letto per afferrare l’abito e sgusciare nel bagno, ma il gesto tagliò l’aria con velocità eccessiva e si tirò dietro la parete con la Madonna di Pompei e il ramo secco d’olivo. Dovevo muovermi più lentamente. Imposi al braccio un moto contenuto per evitare che tutta la stanza si animasse e ogni cosa cominciasse a spostarsi in preda all’ansia (L’amore molesto, p. 111).

Poi presi uno straccio, scelsi un gesto calmo, ma anche quel gesto mi sembrò troppo veloce, ebbi l’impressione che, contro la mia volontà, mi facesse storcere gli occhi, li spingesse lateralmente in modo scoordinato, una sorta di torsione obbligata dello sguardo che minacciava di mettere in movimento la parete, lo specchio, il mobile, tutto (I giorni dell’abbandono, p. 100).

La nuca mi andò all’indietro, come se fosse diventata più pesante di qualsiasi altra cosa, e in un lampo si trascinò dietro il soffitto, la scala, le pareti della stanza (Labilità, p. 284).

In entrambe le scritture – come è dato vedere dai brani appena citati – la sensazione dell’assenza di confini materiali negli oggetti, di perdita della consistenza fisica dei corpi, è resa facendo ricorso a una lingua controllata, a un registro medio e a una sintassi scandita da precise percezioni interne al flusso coscienziale. L’ordinarietà degli accadimenti quotidiani subisce una trasfigurazione tale da determinare lo slittamento della narrazione dal piano esteriore dei rapporti causali, oggettivi, a quello delle reazioni e delle percezioni interiori:

Poiché quelli che trasportavano la cassa insieme con me (un cugino e i miei due cognati) erano più alti, avevo temuto per tutto il percorso che il legno mi entrasse tra clavicola e collo insieme al corpo che conteneva (L’amore molesto, pp. 14-15).

Mi pareva di affondare con la nuca nella vetrina alle mie spalle (L’amore molesto, p. 76).

Il buio mi diede l’impressione che il lettino si inclinasse sotto il peso della mia testa e precipitasse dentro il pavimento (Eccesso di zelo, p. 85).

Piano piano l’esagono del pavimento si apre e mi ingoia il ginocchio lacerandolo (Via Gemito, p. 223).

Cercai di raccogliere le forze, mi sollevai sui gomiti cautamente per non lacerare il letto, la stanza, con quel movimento, o lacerarmi io, come un’etichetta strappata a una bottiglia (I giorni dell’abbandono, p. 98).

Si tratta, ovviamente, di una serie minima, e tuttavia rappresentativa, di luoghi testuali dove è dato rintracciare tratti stilistici assai simili, così come è possibile fare se si presta attenzione a certe modalità del dialogato, quali tendono a trovare più tipica formalizzazione negli ultimi romanzi della Ferrante e di Starnone. In Labilità (pp. 52-53), ad esempio, leggiamo:

Composi il numero del suo cellulare, rispose subito. Mi incalzò con domande eccessivamente ansiose, che non quadravano con la sua natura di donna sempre misurata.
“Mi senti?”
“Sì”.
“Stai bene?”
“Sì”.
“Sicuro che stai bene?”
“Sì”.
“Dimmi chi sono”.
“Clara”.
“Hai dormito?”
“Sì”.
“Quanto?”
“Tutta la notte”.
“Hai visto cose brutte?”
“No”.
“E belle?”
“No”.
“Non mentirmi”.
“Non ti mento”.
“Qualcuno ti ha minacciato o ti ha detto cose offensive?”
“No”.
“Hai visto sangue, ferite aperte?”
“No”.
“Hai visto gente che non vedevi da molto?”
“No”.
“Persone morte?”
“Ma che dici, no”.

Con una cadenza discorsiva molto simile in Storia della bambina perduta (p. 35), ultimo volume del ciclo L’amica geniale, dove la medesima misura di un dialogato, fortemente ritmato e quasi del tutto privo di intervalli descrittivi, torna in più luoghi del testo:

Era così desiderosa di tornare a occupare ogni mio angolo, che appena sfiorava un argomento passava subito a un altro:
“Con Pietro?”
“Male”.
“E le tue figlie?”
“Stanno bene”.
“Divorzierai?”
“Sì”.
“E voi due vivrete insieme?”
“Sì”.
“Dove, in quale città?”
“Non lo so”.
“Torna a vivere qui”.
“È complicato”.
“Ti trovo io un appartamento”.
“Se sarà necessario te lo farò sapere”.
“Scrivi?”
“Ho pubblicato un libro”.
“Un altro?”
“Sì”.

Calvino diceva che «scrivere presuppone ogni volta la scelta d’un atteggiamento psicologico, d’una impostazione di voce, d’un insieme omogeneo di dati dell’esperienza e di fantasmi dell’immaginazione».

Starnone, a seconda che scegliesse di scrivere col proprio nome o con quello del suo eteronimo femminile, “ogni volta” ha fatto la scelta di un preciso atteggiamento psicologico, di una differente impostazione di voce. Solo i fantasmi dell’immaginazione non si sono lasciati governare a piacimento e alla fine lo hanno costretto a tornare dolorosamente sugli stessi sofferti dati dell’esperienza, svelando per questa via, con il suo eteronimo, la statura di uno scrittore di prima grandezza con il quale la critica non ha ancora cominciato a fare i conti.

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