Lug 08

Sgobbo – Il viaggio di fiona

Il primo capitolo di Sgobbo presenta Fiona e la descrive durante l’attraversamento della palude nel paese natale; a tale descrizione segue il racconto della navigazione in mare su una barca sovraffollata, nella quale la protagonista acquista consapevolezza di essere “buttana”. Il secondo capitolo dà notizia dello sbarco, dell’apprendistato di Fiona, intenta ad imparare il mestiere. Infine la donna ritorna, a fine giornata, nella casa d’Africa.

La voce narrante è rappresentata da Fiona stessa, la quale racconta le sue vicende muovendo dal passato: il libro si apre infatti con una visione retrospettiva, come indicato dalla frase: “ero già una buttana e non lo sapevo”(p. 5). Se nella pagina iniziale domina dunque il verbo al passato (“ero”, “mi mandava”…), nella pagina successiva subentra il presente (“sono”).

Sia il passato sia il presente sono connotati negativamente poiché in entrambi i casi a dominare è il tema dell’angoscia. Per esempio, a pagina 5,a distanza ravvicinata e il ricorrere di questa espressione lascia emergere la tragica condizione di vita della protagonista.

La negatività della situazione vissuta da Fiona è espressa efficacemente dall’immagine della palude: simbolo ricorrente di una condizione esistenziale misera e degradata. Al motivo della palude si ricollega il tema dela bestialità, ravvisabile nel testo a due livelli: da una parte esso è riconoscibile nella filastrocca del formichiere, in cui viene descritta una natura violenta in cui gli animali si divorano fra loro,mentre, ad un livello più complesso, l’osmosi fra dimensione umana e dimensione bestiale è evidenziata da espressioni legate alla sfera semantica della corporeità. Quindi il fluire dell’oceano è percepito dalla protagonista come un fremito della “carne del mare separata e indifferente”(p. 8), con un’immagine che evoca alla mente del lettore altra carne e rende l’idea dell’indifferenza della realtà animale dinanzi ad una umanità degradata e imbestialita; pregnante è pure l’espressione “leoni affamati” per indicare lo stato dei naviganti durante il viaggio in mare e la ferocia dell’umano degradato a condizione bestiale.

Lo scambio tra le due dimensioni è ancora riconoscibile nella descrizione del “pianto delle balene” (p. 8):in questo caso, al contrario, è come se la fauna marina partecipasse all’esperienza traumatica vissuta dalla protagonista perché provvista di una sua umanità. Si tratta cioè di un abile strategemma dell’autore che muovendo dalla condizione di animalità, vale a dire dalla condizione degradata per eccellenza, la carica di umanità per approdare a un esito lirico. Ne deriva una pagina (p. 8) densa di lirismo, in cui tutto l’universo sembra partecipare empaticamente alla sofferenza della protagonista.

Nonostante la sua “bestialità”, Fiona continua a pregare per la propria salvezza, per addolcire i “leoni affamati”, da notare l’espressione “novena della salvazione”(p. 6). La sofferta condizione psicologica della protagonista dà luogo ad un accumulo di ripetizioni, che si ripetono ossessivamente. Basti pensare alle continue anafore di termini come “filastrocca”, “canzone”, “preghiera”(p. 6), o ancora “rantolo”, “novena”, “preghiera” (p. 6); e si veda anche il sapiene gioco delle allitterazioni: “in ogni crespo – in ogni cristallo – nelle croste di ducotone”(p. 10), “nella follia altrui – nella malattia di novizia” (p. 10). In particolare il ritorno di un’insistente negazione (“né – né – né”, p. 5) sta ad indicare l’impossibilità di un riscatto esistenziale in un mondo in cui il Dio è sordo aqualsiasi disperata richiesta di aiuto.

Nei capitoli analizzati possiamo comunque individuare una qualche componente religiosa, ma di una religiosità grottesca e capovolta. Così Fiona descrive il cammino delle prostitute verso la marina: “scendevamo a gruppo”(p. 10), come se si trattasse di una processione votiva, quando però intende alludere ad una discesa morale più che ad una elevazione spirituale.

Tutto il libro poi potrebbe essere concepito come una sorta di via crucis, scandita dalle soste in una serie di stazioni che Fiona visita viaggiando; a sua volta, ogni stazione è assimilabile ad un grano del rosario (p. 5). Ma i riferimenti alla dimensione religiosa sono svuotati di senso: in un mondo senza sacralità, il rituale religioso non è che “un’ipocrisia di redenzione”, come ammette la stessa protagonista smentendo ogni facile illusione o ottimismo consolatorio e attesta con forza espressiva la negatività del reale.

Le occasioni religiose descritte nel libro (la messa celebrata sulla nave, o ancora l’adorazione del crocifisso ligneo) sono indicate con espressioni che ne sottintendono la spettacolarizzazione (“spettacolo”, “circo”). Il Dio pellegrino di Fiona è anche distante e diverso dal Dio descritto a pagina 37, un Dio troppo umano, divenuto onnipotente grazie alle sue ricchezze, che manifesta il suo potere organizzandosi il piacere e agisce obbedendo ad una logica tirannica.

Nei capitoli esaminati dominanole tonalità cupe, scure, che non lasciano spazio ad aperture o a spiragli di speranza; gli unici odori riconoscibili sono quelli del sudore o dell’acido fermentato degli escrementi, mentre le voci umane sanno modulare solo bestemmie e filastrocche di palude che con la loro monotonia ricordano la monotonia della vita stessa.
Il buio e le cupe atmosfere descritte da Calaciura potrebbe evocare alla mente del lettore l’Inferno dantesco: in Fiona però, a differenza che nel Dante agens, si è spento ogni desiderio di conoscenza.

Il linguaggio adoperato da Calaciura è crudo e incisivo e la drammaticità del vivere è resa attraverso il ricorso ad un “realismo visionario”, in cui le espressioni “forti” e gergali, talora di uso comune e anti letterarie, suonano come le più autentiche perché fanno saltare agli occhi una verità scomoda e dura.

About The Author