Mag 10

“Tutti contenti” di Paolo Di Stefano

Gran parte della letteratura del secolo appena trascorso e di quello da poco iniziato ci parla dell’importanza della memoria e delle origini, del tempo perduto e di quello ritrovato. Una letteratura, questa, che si configura come una sorta di novella “Odissea”: un lungo peregrinare, per riconquistare se stessi e la propria genesi, attraverso abbacinanti intermittenze del cuore. I nomi da fare sarebbero troppi: a noi qui interessa un orientamento di fondo, al quale Paolo Di Stefano, giornalista culturale e scrittore siciliano, col suo ultimo romanzo Tutti contenti (Feltrinelli 2003), sembra fortemente collegarsi.

Al centro della vicenda narrata troviamo Nino Motta, di professione tipografo, il quale un giorno decide di abbandonare la sua città, Milano, e la famiglia, e di tornare in Sicilia, a Messina (terra del ritorno per antonomasia, come ci insegna l’Horcynus Orca di D’Arrigo), per riappropriarsi della sua infanzia, cancellata a causa di un misterioso trauma. Solo poche immagini sopravvivono nella sua mente: il cappello del padre dimenticato su un appendiabiti, la sagoma della madre, avvolta in un cappotto sdrucito: il resto sono buchi, sensazioni, pensieri vaghi. Spinto, dunque, da queste insopportabili lacune, Nino Motta decide di tornare nella terra delle origini, per recuperare gli anni trascorsi nella casa del Fanciullo, un collegio per orfani e figli di falliti.

Arriva nella Sicilia ionica nelle mentite spoglie del giornalista alle prese con un’inchiesta e, tramite ritagli di giornale e soprattutto attraverso i ricordi e le testimonianze dei suoi compagni di collegio, comincia a fare luce sugli anni bui della giovinezza. Accanto a lui, una seducente cameriera-studentessa, conosciuta nell’albergo dove Nino Motta alloggia, attratta dai suoi misteri, dalla sua eterna malinconia. Si chiama Simona, e ben presto diventa dapprima la sua inseparabile collaboratrice, poi la sua tenera amante.

Nino Motta è un uomo in crisi: la sua vita è un inferno, la sua identità un colabrodo: da qui la decisione della regressione nel liquido amniotico della sua terra. Il romanzo ha un perfetto impianto corale, costruito com’è sui colloqui tra il protagonista e i vecchi compagni. Nino Motta, nel libro, ha la funzione di innescare i ricordi, di dare la stura alle reminiscenze, in una parola di animare il passato. E così le tante voci che gli sciorinano la sua infanzia, che aprono spesso squarci angoscianti nella cortina fuligginosa dell’oblio, vengono a colmare, pian piano, i vuoti della sua memoria, provocando tutte quelle lacerazioni che solo una dolorosa ma indispensabile agnizione sa provocare. Dalla caligine della dimenticanza, dunque, emergono la figura del padre, don Antonio l’Americano, un ottantenne forte come un toro dalle amicizie equivoche, diviso tra la Sicilia e gli Stati Uniti, da dove invia denaro per il figlio, il suo “rampollo”; quella della madre, creatura meravigliosa, delicatissima e forte nello stesso tempo, in balia del destino e della crudeltà degli uomini; e il fantasma di Santino Rocco, un piccolo sordomuto compagno di collegio ucciso da Motta con una limetta nella giugulare, nel corso di una partita di calcio.

Paolo Di Stefano, con una scrittura scorrevole, trasparente e insieme fortemente “avvolgente, suadente, affabulante”, come ha scritto Marco Belpoliti, una scrittura dalla soverchiante forza introspettiva che restituisce al lettore, nei racconti dei compagni di Nino Motta, l’immediatezza e la vivacità dell’oralità, mette in scena i dubbi, le incertezze, i malesseri che questa catabasi nel limbo del ricordo comporta, introducendo una galleria di personaggi ben definiti, caratterizzati anche da una sola mossa, da una parola. Nino Motta si sente braccato dai loro racconti, quasi condannato a morte dalla memoria altrui: la pellicola della sua vita si riavvolge e si srotola in continuazione, sotto i suoi occhi inermi e inquieti:

“A volte mi sento travolto dal mio passato: troppe cose che mi riguardano, troppi racconti precisi, troppi fantasmi che si alzano e si muovono e mi vengono incontro e rinascono e rivivono e muoiono di nuovo”.

E in questo continuo movimento altalenante, Di Stefano ci regala pagine di assoluta bellezza, come quella in cui Nino Motta si guarda la mano e in essa vede quella del padre:

“Riprendo l’ascensore e torno in camera, mi lascio cadere sul letto, con la luce che abbaglia i muri, mi guardo la mano che ha tenuto la sua mano, è la mano di mio padre, è la stessa mano che reggeva il bambino Nino Motta nella fotografia di Denaro, una mano lunga con le dita un poco a punta, una mano in cui le vene affioravano alte e forti”.

Viene alla mente la poesia di Giovanni Raboni intitolata La guerra, inserita nella raccolta A tanto caro sangue:

“Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani, / quasi: le dita specialmente, le unghie, / curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie / senza il marrone della nicotina)….”

O ancora, Di Stefano fa vibrare le corde della commozione quando pensa a sua madre come se fosse sua figlia, diventandone egli stesso il padre:

“A pensare a mia madre così piccola e a mio padre con la mano da vecchio appoggiata sulla sua pancia, mi si confondeva la testa, mi veniva da piangere, pensavo a lei come se fosse mia figlia, diventavo suo padre e lei era mia figlia”.

Una pagina che ci rimanda ad Antonio Delfini, il quale una volta, morta la madre, raccontò l’apertura della cassa del padre, scomparso quando lui aveva un anno.

“Il papà, morto il 28 giugno 1909, la stava aspettando da cinquantatre anni. Sorridente, dolce, scanzonato, aspettava la mamma. Intatto nel viso, nel corpo, nella barba, nei capelli: così come risultò all’apertura della cassa nel cimitero di Modena la mattina del 10 febbraio 1962, davanti a me e al mio giovane e carissimo cugino Paolo Tardini e al direttore del cimitero. Egli si lasciò vedere da me per la prima volta, per la prima volta nella mia vita. Lui, mio padre, aveva trentatré anni – lì, morto – e io, suo figlio, cinquantaquattro. Unico al mondo – io credo – ho visto per la prima volta il papà, lui in età di mio figlio, io in età di suo padre”.

Per arrivare quasi alla fine del romanzo, quando il vecchio pescatore Sangregorio accompagna il protagonista davanti alla tomba della madre:

“Una tomba bassa, con un’inferriata recente ma già arrugginita, una lastra di marmo un metro per due al centro di un pavimento con le piastrelle di marmo simili a quelle del corridoio di casa mia, quella di Milano, intendo. Di fronte, una vecchia lapide a forma di scudo porta una scritta un po’ sbiadita: “Qui / la morte / ultima pietosa dea / accomuna anzitempo nel nulla / l’ossa sacre al lavoro / perché di mesto pianto le conforti / e le allegri di fiori / chi soffre / la croce e le spine della vita”. Ai tre lati, trenta, quaranta, cinquanta lapidi più piccole e grigie sostenute da una griglia di ferro, ciascuna con la sua fotografia e il vasetto in bronzo con dentro fiori di stoffa o di plastica. Sangregorio ha dovuto alzarsi sulle punte per raggiungere mia madre con le dita, le ha sfiorato le guance, flettendo e poi allungando un braccio tre volte, le ha depositato tre baci sulle labbra e si è fatto un rapidissimo segno della croce. Io ho guardato Simona, le ho preso la mano e ho pianto in silenzio, forse per la gioia. Non sono mai stato tanto vicino a mia madre, la guardavo mentre calpestavo il pavimento, sotto i miei piedi il suo piccolo corpo dormiva da quasi cinquant’anni. Doveva essere lì, a pochi metri dalle mie suole, due tre metri al massimo, guardavo per terra, guardavo come le scarpe aderivano al pavimento, guardavo il pavimento e le piastrelle così familiari che mi sembrava di essere a casa mia, in corridoio. Ho pensato che se fossi morto in quel preciso momento sarei morto felice, a casa mia, a pochi metri da mia madre, tenendo la mano di Simona, sotto il cielo violetto del mio paese che accende i muri delle cappelle come tanti abat-jour, la stessa luce che diffonde l’abat-jour del salotto, a casa mia”.

È un po’ quello che racconta Michele Prisco nel romanzo I cieli della sera (Rizzoli, 1970), costruito come Tutti contenti sul ritorno, sul riconoscimento dei luoghi, dei rumori, degli odori e delle persone che sostanziano l’infanzia di ogni uomo. Il protagonista del romanzo di Prisco, ad un certo punto, rievoca il rumore “querulo e familiare” provocato dalla madre concentrata a disbrigare la sua assidua e fitta corrispondenza con le amiche di collegio:

Ed è proprio questo torbido rumore a isolarci, a chiuderci – come la pioggia che continua fuori goccia a goccia consumando il giorno – in una sorta di guscio ovattato dove a nessuno è dato penetrare e che sembra quasi risospingerci, noi due soli, al tempo per me ignoto della nostra primordiale comunione, sembra quasi risospingermi, ecco, in un tempo prenatale, alle sorgenti delle tenebre, acciambellato nel suo grembo e irrorato dal suo stesso sangue.

Nino Motta, nel momento in cui si trova a varcare la soglia della tomba della madre, è come se fosse riproiettato nel grembo materno, risospinto alle “sorgenti delle tenebre” di cui parla magistralmente lo scrittore napoletano.

Per concludere, le pagine di Paolo Di Stefano, di Antonio Delfini e di Michele Prisco, ci fanno sentire quasi l’aldilà, ci permettono di avvertire la presenza dell’altrove; sono pagine che ci parlano della vita e della morte, che superano l’esistenza stessa che le ha ispirate, facendo diventare credibile quello che parrebbe dubbio o improbabile. Cosa che solo la vera letteratura riesce a fare.

 

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